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Interviste

Le nostre interviste spesso sono più delle chiacchierate per conoscere meglio chi ci sta davanti.

Foto Nyko Ascia 3

Nyko Ascia

Nyko Ascia è un giovane rapper in giro già da anni, fa hip hop in maniera differente da quello che che va per la maggiore, ma non è un fanatico dell’ortodossia, è uno con le orecchie ben aperte e con i piedi ben piantati sull’asfalto.

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Cruentus

Intervista di Mirella Catena Ci parli degli inizi dei Cruentus? I Cruentus nascono da un’idea e dalla volontà di Antonello, che 30 anni fa mosso dalla passione per il metal, cerca e trova dei compagni di avventura. Io arrivo nel 1992. Una sera qualsiasi in un pub (uno dei due esistenti nella Bari degli anni 90) mi si avvicinarono Antonello e l’allora altro chitarrista Sergio chiedendomi se volessi provare con loro. Io venivo da una band HC/Punk con cantanto in italiano ma ascoltavo metal principalmente. Il giorno dopo ero seduto sul sediolino posteriore del motorino di Sergio mentre Antonello e il batterista ci precedevano con l’autobus. Scarsità di mezzi ma grandissima voglia ! Degli amplificatori che utilizzavamo preferisco non parlare 🙂 Prima prova e un brano completato (Moshin’ Heads che apre il nostro primo Demo “Seeking the Truth”). Di li sono diventato parte integrante oltre a stringere amicizie che ancora oggi durano con tutti i componenti di allora. Di li a poco sarebbe arrivato Nicola creando l’ amalgama che dura ancora oggi. Nonostante la vostra fatica risalga al 1996, la band non si è mai fermata sia in studio che dal vivo. come mai allora ci sono voluti 23 anni per vedere un nuovo disco targato Cruentus ? 23 anno sono tanti…tantissimi per certi versi ma tantissime sono anche le persone, le sperimentazioni, le idee che abbiamo vissuto in questo periodo. Io e Antonello siamo siamo stati sempre alla ricerca di suoni, idee e persone che ci stimolassero. Ogni volta che qualcosa ci piaceva lo registravamo, anche se solo in modo più casalingo, ma c’era sempre qualcosa che non ci convinceva del tutto. Per quanto riguarda l’attività live è sempre stata e sempre sarà irrinunciabile per noi. E’ la nostra dimensione ideale, è lo scopo primario del suonare per come lo intendiamo noi. Per me, personalmente, suonare dal vivo è un’esperienza al limite del mistico nel senso dell’entrare in una dimensione diversa uan volta sul palco. Se poi hai delle canzoni che ti piacciono e suoni con belle persone….raggiungi la felicità. Sei nel posto giusto a fare la cosa giusta ! Quindi, abbiamo semplicemente atteso che tutto si incastrasse al meglio. Quanto è cambiato il mondo della musica in questo lasso di tempo ? E’ cambiato tutto….e…non è cambiato nulla (è un FAKE anche questo !!!!) E’ cambiato completamente il modo di fruire della musica e su questo non si discute. Nelle nuove generazioni è cambiata l’attitudine al conoscere e si vive di Like ed immagini, instagram stories, microvideo di pochi secondi. Noi ascoltavamo un disco per intero se la band ci piaceva, ci alzavamo dal divano, giravamo il lato del vinile e poi ancora per riascoltarlo 2-3 volte di seguito. Andavamo ai concerti facendo, almeno noi del sud, migliaia di chilometri per vedere le nostre band preferite. Supportavamo la scena locale e underground con la partecipazione fisica. Noi Cruentus, negli anni ’90 ci siamo trovati a suonare davanti a 800 persone nella nostra città….numeri impensabili per band del sottosuolo al giorno d’oggi. Credo, però che i musicisti non siano cambiati soprattutto nello spirito. Chi fa la musica vive delle stesse sensazioni di sempre. Per creare devi sentire ed emozionarti, parlare a te stesso e rendere questo interessante per chi ti ascolta. Penso che questo non cambierà mai e solo chi riesce a creare questa alchimia resta artisticamente vivo negli anni. Quello che è cambiato poco è la vostra line up, troviamo sull’album ben 3 musicisti che hanno partecipato alle registrazioni di In Myself: cosa ha reso così duraturo il vostro rapporto professionale e di amicizia ? Innanzitutto la pazienza mia e di Antonello nei confronti di Nicola …..hahhahahhaha….. Scherzo ovviamente. Noi 3 ci siamo conosciuti in un momento della vita (intorno ai 20 anni io e Nicola che differiamo di pochi giorni e 17 anni Antonello) in cui sei in un’importantissima fase di crescita e formazione. Ci siamo formati insieme tra ascolti, suonate, serate in sala prove infinite, birre e divertimenti comprendendo l’uno dell’altro i difetti e i pregi e rispettandoci a vicenda nelle nostre differenze che non sono per nulla trascurabili. Artisticamente ci piaciamo molto nel senso che abbiamo un orecchio che sente le stesse cose ma, soprattutto, gli incastri dei nostri 3 strumenti sono sempre venuti da se senza forzature. Credo che questa si chiami attitudine ! E, riallacciandomi ad una delle domande precedenti, è solo quando abbiamo trovato altre 2 persone con uguale attitudine ci siamo sentiti pronti a registrare. Domenico e Valerio (ormai con noi da oltre 6 anni) sono le persone che servivano a completare i Cruentus come noi li desideravamo. I brani del disco sono stati arrangiati con loro ed ognuno ci ha messo il suo. L’attitudine di cui ti parlavo si sente dal vivo (siete tutti invitati alle nostre prossime prove live !!!!) e si è sentita almeno per noi ( ma credo anche per chi ascolta) nel registrare questo disco. Anche il fonico Massimo, abituato a lavorare con altri generi musicali lontanissimi dal thrash metal è entrato in sintonia con noi per la serenità e semplicità nell’approccio allo studio e alla musica. Le canzoni sono nate a ridosso delle registrazioni o sono state scritte in questi 23 anni ? In molti di questi brani ci sono degli embrioni di tanti anni fa, forse non 23 ma 10-15 anni si, che sono stati utilizzati per costruirci i brani che potete ascoltare oggi, ma sono brani che hanno tra i 5 e i 7 anni. Per i testi il discorso è un po’ diverso perchè alcuni hanno 20 anni, anni altri nascono sui brani stessi e quindi sono più giovani. Il termine FAKE oggi giorno è diventato di uso comune nella nostra lingua, ed ha un’accezione fortemente negativa: come mai avete deciso di chiamare cosi il disco ? Lo abbiamo scelto, o meglio Antonello lo ha proposto, proprio perchè di grande attualità. C’è chi ha creato consensi di vario genere attraverso le fake news, ma il nostro utilizzo ha un significato più ampio e si sposa bene con il concept del disco. Non si tratta di un concept nel senso tradizionale del termine, ovvero una storia raccontata, bensì di un Concetto spiegato attraverso metafore, simboli e contrapposizioni. Il concetto di fondo è: quello che appare non è sempre vero. Anzi, aggiungo e rafforzo io: non lo è mai. I testi che ho scritto raccontano della corrispondenza degli opposti esemplificata nella contrapposizione tra bene e male ma non si parla di bene e male in senso stretto. Luce e ombra, vuoto e pieno, amore e odio, forma e sostanza, vedere ed essere ciechi (Blindness Means Watching) sono gli opposti che ci illudiamo di vedere. Viviamo, e non da ora, in un mondo che racconta bugie per ottenere potere e controllare le menti. Questo è il FAKE che viviamo tutti indistintamente. La copertina, immagino, ha un forte valore simbolico, ti andrebbe di spiegarne il significato? Certamente. Faccio io una domanda, ovviamente retorica, a te. Chi è il cattivo e chi il buono tra una pecora nera e un lupo ? Al di la delle preferenze personali, nessuno potrebbe rispondere in modo assoluto. Una pecora è una pecora ed è buona per definizione ma si viene anche tacciati di essere la pecora nera di un gruppo quando non ti conformi alle regole di quel gruppo cosi vale per il lupo che da quando si è piccoli incarna il male ma che in realtà è un animale con una organizzazione sociale e uno spiccato senso di comunità. Un animale che vive in gruppo con semplici regole nel rispetto della comunità proteggendo i più deboli e prendendosi cura dei piccoli. Ripeto: quello che appare non è ! Potrebbero essere entrambi buoni o entrambi cattivi….questo è il FAKE ! C’è anche nella copertina cosi come in tutto l’artwork una simbologia di tipo geometrico che si affianca e incornicia il titolo e i testi. La simmetria del cerchio che racchiude l’immagine di copertina, i due triangoli equilateri intrecciati sul retro, il background dei testi che raffigura la simbiosi tra elementi acqua, terra e aria, sono scelte che stanno ad indicare una ricerca di equilibrio tra gli opposti di cui ho detto prima. EVERSPACE è il singolo estratto da Fake e in questi giorni avete pubblicato il video. Perchè avete scelto proprio questo brano ? Abbiamo scelto questo brano per vari motivi. Prima di tutto perchè rappresenta bene il contenuto musicale del disco tutto con parti veloci e lente. Poi la durata: in questo epoca fatta di velocità e consumo rapido della musica e di tutto, 2.50 minuti credo siano il limite che ti consente che il tuo video sia guardato per intero. La modalità del video è quella live nella sala prove che è il luogo dove Cruentus sono nati, hanno suonato per trent’anni e continueranno a suonare….diciamo un tributo alla nostra attitudine live e al luogo che ci ha accolto e visti crescere artisticamente e come uomini. Infine, anche il testo contrappone, già nel titolo, due concetti (spazio e

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La Capra Di Chagall

La capra di Chagall. La prima volta che sentii parlare di Mario Bianco fu nel 2009. Era uno degli autori dell’antologia Auroralia, curata da Gaja Cenciarelli e pubblicata dall’ editore Zona. Anch’io avevo partecipato a quell’antologia con un mio racconto, ispirato, come tutti gli altri, dalla fotografia di una donna sospesa in aria, riflessa in uno specchio d’acqua, scattata dal fotografo americano Jerry Uelsmann. Quando la curatrice invitò ciascuno dei 50 autori a esprimere la propria preferenza verso uno dei racconti, pubblicandone gli esiti sul suo blog, il mio voto andò a Mario Bianco. Pur non sapendo nulla di lui ero rimasto affascinato dalla sua scrittura, che si muoveva fuori dal tempo e che sentivo, nella sua “inattualità”, come un richiamo alla forza e alla resistenza. Ad esempio contro un certo scadere del potere della parola. Perché le sue parole, vedete, erano semi orgogliosi e tenaci che si dibattevano in un campo di erbacce per dare i propri frutti. Negli anni seguenti abbiamo trovato il modo di collaborare a vari progetti, sia letterari, sia artistici in senso lato (prima ancora di essere uno scrittore, infatti, Mario è un pittore, autore di tele in gran parte ispirate al surrealismo, alle avanguardie del ‘900 e alle arti orientali). Forse non a caso, dunque, la sua ultima fatica letteraria ha per titolo “La capra di Chagall”, pubblicata da Miraggi Editore. Qui i passi dei due personaggi principali, un viandante e una capra, sono illustrati da quindici immagini a china disegnate prima di scrivere i testi, lasciando dunque parlare il subconscio dell’autore attraverso il disegno. Solo in seguito Mario ha scritto i capitoli prendendo spunto o “ispirazione” dalle figure che aveva disegnato. Un sistema di lavoro quasi magico, concentrato in uno stato di quasi totale abbandono. Gli ho fatto qualche domanda: 1. Si racconta che il bambino Marc Chagall disse un giorno a sua madre, mentre lei impastava il pane, che avrebbe fatto il pittore. Il bambino Mario Bianco hai mai detto a sua madre di voler fare il pittore? Non ho detto nulla a mia madre perché io non sapevo che si diventasse grandi. Mia madre diceva lei per me: questo bambino da grande sarà un bravo ingegnere… Questo perché una volta aveva visto un ingegnere molto elegante, distinto e benestante quindi si creò l’illusione che gli ingegneri fossero persone rispettabilissime. Quando facevo la prima media ho detto ai miei che volevo fare l’archeologo. Mi hanno disapprovato, ma mi hanno voluto bene lo stesso. 2. Cosa disegnavi da bambino? Leggevi molto? Disegnavo dappertutto, certo prima di imparare a scrivere, con pezzi di mattone sul selciato, sui muri, con carbonella, poi con matite su ogni pezzo di carta o cartone trovato. Disegnavo babacci, poi armi pistole fucili soldati carri armati navi dirigibili aerei, ero pieno di un’aggressività repressa che si sfogava così. Leggevo quasi nulla, giornalini raccattati. Poi quando avevo dieci, undici anni, nella casa nostra in campagna, ho trovato dei libri di mio nonno, anche comici, e poi una copia ridotta del Decamerone, del 1824, che mi sono divorato, letto e riletto e mi sono molto divertito e mi sono sforzato davvero per comprendere il volgare antico. Ho trovato altri libri vecchissimi che aveva raccattato mio padre in una casa in rovina ed erano scritti in un italiano seicentesco che mi faceva ridere, mi piaceva moltissimo. 3. Chagall dedica molti quadri alla sua casa attraverso un simbolo ricorrente: la capra. Nei suoi quadri le capre sono ovunque. Di diversi colori, di ogni dimensione. E’ un continuo tributo al focolare domestico e un sistema candidamente infantile per tenere vicine a sé le cose più care. Questo ha a che vedere con il significato del tuo romanzo? – Le capre mi sono simpatiche. Siccome da lattante ero un mangione la mia mamma mi ha somministrato anche latte di capra (ch’è ottimo). Tuttavia la mia scelta di un animale come coprotagonista viene dal mondo antico, fa riferimento alla narrativa di Apuleio, di Luciano di Samosata, di Esopo, Fedro, nel medioevo Le Roman de Renart, per restare in Europa, e poi alla famosissima opera cinese Lo Scimiotto ovvero Il viaggio in Occidente e altri romanzi dell’Oriente. Ho preferito la capra perché è un animale che vive a contatto con l’uomo, ne è sfruttata, ma non è affatto domestica, se lasciata sola se la cava benissimo, si nutre anche di sterpaglie ed ha l’occhio con la pupilla fessa orizzontalmente che ti turba (per questo assimilata sovente nel medioevo a occhio serpentesco o demoniaco). 4. Perché hai scritto questo libro alternando prosa e versi? Sembra quasi una sfida rivolta al lettore. Sono sfide antiche: anche Dante ha scritto La Vita Nova alternando poesia e prosa, anche Severino Boezio in De consolatione philosophiae. Ho pensato che l’alternanza cadenzasse il percorso dei due compagni di viaggio: camminate e soste. Così il lettore si prende pause, respira e continua con un altro passo. 5. La capra guida l’uomo nel cammino. La strada che attraversano è accidentata, instabile, per giunta infestata da bestie schifose. Il racconto è chiaramente allegorico. La destinazione finale una nuvola vuota. Vuoi parlarcene? – La vita è costellata di difficoltà e insidie, anche nella nostra mente possono frullare bestie insane, pensieri turbanti, così il mio viandante vaga in territori psichici infestati, cerca una pace, soprattutto mentale, e la capra lo accompagna e lo guida per liberarlo da varie insidie. Nuvola vuota è il nome di Xuyun o Hsu Yun, un rinomato maestro cinese buddhista Chan o Zen che nell’800 percorse migliaia di chilometri a piedi per andare dalla Cina ai luoghi nativi di Sakyamuni. La nuvola vuota è appunto la “liberazione” o l”estinzione”. 6. I capitoli del libro sono illustrati da immagini a china, che hai disegnato prima di scrivere i testi. Hai cioè preso spunto dai disegni per immaginare la storia. Un sistema di lavoro piuttosto inusuale e a pensarci bene molto impegnativo. – In linea di massima è andata così: avevo delle idee generali, vaghe sulla trama non ancora scritta; allora con la penna, il calamaio e la carta mi sono immerso in un stato di attesa/abbandono, quasi in un sonno latente, in una sorta di trance simenoniana, ed ho cominciato a disegnare a china. Le quindici illustrazioni sono venute a tappe, man mano scrivevo dopo aver disegnato. 7.Mario Bianco pittore. Mario Bianco scrittore. E poi? – E poi… soprattutto artigiano, so fare molti lavori manuali, ecco. Ho terminato da poco una storia illustrata o graphic novel con protagonisti una scimmia e un esserino detto Popuk, che credo sarà ostica ai più e temo nessuno vorrà pubblicare. Non ho più intenzione di scrivere romanzi o racconti realistici, verosimili, preferisco allegoria, metafora e il simbolo come in pittura. A questo punto della vita mi sento quasi intossicato, soffocato dalla narrativa realistica. Ho bisogno di aria, di spazi liberi… di voli.

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Gevona

Sardonico ma soffice.  Alessio Zappala’, cambia pelle ma non testa.

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Io Monade Stanca

Io Monade Stanca: iye Intanto i miei sinceri complimenti. Sono frasi di circostanza come sembrano, ma non conoscendovi del tut…

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Path

  Abbiamo recensito il nuovo disco di Path qualche tempo fa. Personalmente, lo seguo dai tempi del punk (ha suonato in band importanti per la scena come Automatica Aggregazione e Gli Ultimi), da quanto avevamo la testa rasata, le Dr Martens e ci scambiavamo le fanzine che scrivevamo e fotocopiavamo. Questo quarto album del suo corso solista, diversissimo dai precedenti, è la riconferma che abbiamo a che fare con un artista di grande spessore, sensibilità e cultura. Abbiamo fatto una chiacchierata assieme a lui e mi accorgo che abbiamo parlato dell’album, scavando letteralmente al suo interno e nel suo immaginario, senza quasi mai parlare direttamente dell’album e dei suoi pezzi. Ne è venuto fuori un interessantissimo confronto sui riferimenti letterari, cinematografici, umani ed ovviamente musicali dell’artista. 1) Più che del cambio stilistico voglio iniziare parlando del cambio nella tua voce e nel tuo sguardo, perché mi sembra, correggimi se sbaglio, di sentire da ogni brano che la svolta c’è stata in Path come uomo. Alla vigilia di questo disco ci sono stati un paio di cambiamenti personali importanti che hanno sconvolto tutto. Essendo questo un disco “aperto”, ovvero in continua modifica anche durante le registrazioni, credo che la transizione personale  in qualche modo si avverta. Ho inciso “Hombre Lobo Sessions” in condizioni psicologiche non adatte per la registrazione di un album, “Cinema” doveva essere il mio riscatto in studio: metriche sciolte, pezzi “in divenire”, musica piena di groove come quella che ascoltavo da ragazzino. Non mi sono mai divertito tanto a fare un disco, forse un’altra volta solamente con “Storie da un posto qualunque” de Gli Ultimi. Quello che è diverso al livello di testi è appunto lo sguardo: non più confidenziale, ma “cinematografico”, non più raccontare una storia, ma descrivere una scena che immaginavo di vedere davanti agli occhi. Mi posso permettere di essere cosi preciso perché lo stile di narrazione l’ho deciso coscientemente. Paradossalmente, in “Cinema”, sono stati tanto definiti gli intenti tematici, quanto istintivi quelli musicali.   2) Ti ho sempre associato ad un piccolo Martin Eden di provincia, costantemente in viaggio fisico e soprattutto culturale. Poi ascoltandoti mi vengono in mente altre letture importanti come “Il tallone di ferro” e “Il popolo dell’abisso” di cui sei e ti confermi essere una delle voce più delicate e profonde. Quanto Jack London c’è nella tua opera? Meno di quanto vorrei, temo. London è per me quello che un intellettuale dovrebbe essere, con la testa tra le nuvole ma attaccato alla vita cruda, un viaggiatore instancabile che assorbe esperienza come una spugna. E’ quello che dovrei essere, che ero e che non so se sarò più. Il mio spirito d’avventura si è abbastanza inaridito nel tempo, ma continuo ad andare a tornare, forse perché è una delle poche cose che sono sicuro di saper fare. Con Martin Eden condivido una storia: un figlio di nessuno dalle classi popolari impara da solo a scrivere testi, respinto e osteggiato dalla borghesia. Martin/Jack riesce nell’impresa, io ci sto ancora lavorando.   3) Gil Scott Heron e Sigaro. Non la voce di chi non ha voce, perché mi sembra quasi che chi non ha voce oggi non ha più coscienza. Loro sono stati, invece, la coscienza che l’artista proletario vuole risvegliare. Personalmente faticherei a vedermi come la voce di qualcuno, non sempre riesco nemmeno ad essere la mia. Con la parola “artista” , nonostante non mi piaccia per niente, credo tu abbia centrato il punto. Quello che distingue un menestrello/cantacronache dai personaggi che hai citato è proprio il senso d’arte e di poesia, che permette loro di toccare corde di coscienza più profonde di un cantastorie classico, che racconta i fatti per come sono avvenuti, utilizzando un’armonia standard. E’ l’amore per la musica, oltre che per il messaggio, che ha reso unici Gil Scott Heron, Sigaro, Joe Strummer, Billy Bragg, Chris Dean. L’urgenza di risvegliare coscienze non è la presunzione di aver capito tutto, ma semplicemente sapere di avere una corda sensibile che vibra più facilmente che nelle altre persone, e sentire il dovere di farlo notare. Il prezzo che si paga per questo ruolo, spesso, è l’enorme sacrificio della vita stessa.   4) Lo squallore nel quale siamo immersi, di giorno per il lavoro, di notte per dimenticare il giorno precedente. Claudio Caligari. “Muoio come uno stronzo, e ho fatto solo tre film”. Peccato che parliamo di “Amore Tossico”, “L’odore della notte”, “Non essere cattivo”. “Capolavori” lo lascio gridare agli esperti di cinema, fatto sta che parliamo di pellicole intense, crude, reali, commoventi. E troppi narratori intensi, crudi, reali e commoventi abbiamo lasciato morire soli e abbandonati in questo paese. I quartieri di notte sembrano esalare l’angoscia verso l’alto, come a formare una nuvola, ognuno l’ammazza come sa, come può, come e se ci riesce. Poi c’e’ la sigla del TG5 delle 7 e tutto ricomincia. Se Caligari avesse saputo a cosa andava incontro, avrebbe fatto tutto lo stesso, perché per quelli come lui conta la “storia”, conta il lavoro, prima di tutto, prima di se stessi anche.   5) Eccoci infatti ad un altro tema dei tuoi brani. Gli anti-eroi solitari che sembrano vivere solo per se stessi, come possono più che come vogliono. Sopra una bicicletta consegnando una pizza o su uno scooter andando “in città” a consegnare un curriculum. Sergio Leone e John Fante. E’ quando li vedi ridere al bancone di un bar, mano nella mano con la figlioletta, che ti commuovi e non puoi capacitarti di dove prendano tutta la forza che hanno. Uomini e donne fatti e finiti, trattati come ragazzini di bottega, corrono al buio in motorino di notte prendendo schiaffi e insulti a destra e sinistra. Eppure non li stai piegando, come il Clint Eastwood torturato da Mario Brega, stai infierendo su un corpo inerme, ma ti stai anche condannando a morte. Il capitalismo toglie la faccia alle persone, diventano il ruolo che ricoprono: così il muratore che ha preso ordini tutto il giorno finisce che se la prende col rider del sushi, la sera, senza capire che sono perfettamente sulla stessa barca: la vittima del giorno diventa il carnefice della notte. Poi c’è chi siede davanti a un foglio bianco ore ed ore per farsi venire un’idea, con due arance per cena come l’Arturo Bandini dei “Sogni di Bunker Hill”, ma questa è un’altra storia.   6) I ragazzi di vita, le borgate, Anguillara ed i palazzoni della 167, i baretti e le Peroni stappate per noia. Non c’è nulla di romantico o romanticizzato nei tuoi brani. Un Pasolini letto con gli occhi di Paul Weller. E’ quello che accade quando il narratore è organico alla storia che racconta. Non potrai mai trovare la fascinazione che Pasolini, De Andrè o De Gregori subivano dal proletariato, da estranei, in una storia mia. Quello che vedo coi miei occhi ha già una gelatina di romanticismo attorno, basta e avanza, mi limito a descriverla per come la vedo. Vedo fotografie, con questi occhi, che non ti lasciano il tempo di prendere la macchinetta e scattare, sono già lì, nessuno si è messo in posa. Ogni cosa che faccio  è fotografata e poi ricostruita in studio, come se fosse un’estrema e azzardata sintesi tra la poetica di Pasolini e quella di Fellini: è tutto vero, ma è tutto ricostruito. Per questo, scherzando, dico sempre che farò la fine di Shellburn su “God’s Pocket” , il giornalista che per trent’anni aveva raccontato vizi e virtù del suo quartiere, linciato infine dalla folla inferocita per la sua indiscrezione.   7) L’America, come concetto ideale prima che geografico. L’America è la contraddizione vivente, fascino puro, ho visto gente perdere la testa per l’America. E’ il paese che ha influenzato i cantautori italiani che preferisco, strappandoli al monopolio del modello chansonnier francese:  il folk di Guccini e De Gregori ancorato a Dylan, Dalla e Battisti che azzardano la pista di Otis Redding e Wilson Pickett, Colle Der Fomento e James Senese che inseguendo gli americani inventano un nuovo linguaggio. Le mie considerazioni sull’America sono confinate alla narrazione: mi ha dato le canzoni di Guthrie, Seeger, Dylan, Van Zandt, Springsteen; le parole di Steinbeck, Kerouac, Ellroy, Hemingway; il cinema di Scorsese, Coppola e Spike Lee. E anche, perché no, la musica di Rancid, Social Distortion, Bad Religion, Avail. L’America è il luogo dove un disastro di proporzioni colossali come la crisi del ’29 partorisce un’onda di cultura di cui tutto il mondo beneficia ancora oggi. E’ incredibile e sconvolgente.   8) E gli anni 80 inglesi, quel senso di decadenza e la disperazione nel riscatto. A livello musicale l’Inghilterra è come la Giamaica, una continua rielaborazione dei suoni americani, ma disossati dalla pomposità, ridotti all’osso. Volendo fare un disco – passatemi il termine – soul/ rhythm and blues, ci è venuto naturale guardare al Regno Unito dove Rod Stewart, Billy Bragg, The Redskins, Paul Weller, impregnati di musica statunitense ma proiettati alla canzone d’autore, rielaboravano quelle sonorità filtrandole attraverso un temperamento a bassa tensione, all’inglese. Io sono da sempre appassionato di rhythm and blues USA,

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Gonzo Editore

Casa editrice indipendente dal 2017, che si occupa di narrativa, poesia e arti grafiche, presto anche di microsaggistica.

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