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Dalla letteratura all’attualità, dalla filosofia all’arte: a noi interessa tutto. Purché non ci si annoi.

GAZA SURF CHRONICLES E1

GAZA SURF CHRONICLES E1

Avete mai provato a chiedere ad un surfista di qualsiasi parte del mondo che cosa rappresenta il surf per lei o per lui? Sono certa al 100% che tutti vi daranno la stessa risposta: Libertà. Perché nulla al mondo dona quella sensazione come scivolare su un’onda, come remare verso il largo, circondati dal rosso del cielo e dal caldo del sole che tramonta. Pensateci bene, che cos’è la libertà? Per davvero intendo. È una condizione in cui possiamo agire senza costrizioni o impedimenti, in cui decidiamo noi, secondo una scelta autonoma garantita da una precisa volontà e coscienza. Nel surf ci sono regole e norme da seguire, ma in un contesto di indipendenza. E se scivolare su un’onda, fosse l’unico momento di libertà? In questi ultimi 9 mesi mi sono catapultata in una dimensione distorta e opposta alla libertà. Da molto prima del 7 ottobre quel fazzoletto di terra tra il fiume e il mare aveva già catturato la mia attenzione. Ma da quella data, tutto il mondo è cambiato, e anche il mio. In questi mesi stiamo assistendo ad un evento difficile da descrivere girandoci intorno. Le cose vanno chiamate con il proprio nome, e quello a cui è sottoposto il popolo palestinese, dalla Striscia di Gaza alle terre occupate di West Bank, è, a tutti gli effetti, una pulizia etnica, un genocidio. Quante volte abbiamo sentito questi termini dando per scontato una certa distanza tra noi e i soggetti in questione. Come se ci fosse non solo una distanza fisica, ma anche e soprattutto morale. E invece non è più così, è il genocidio 2.0 . È quel mondo nel quale attraverso un Social riesci ad avere le informazioni reali in tempo reale, e attraverso il quale puoi metterti in diretta comunicazione con i soggetti in questione. È proprio quello che è capitato a me, e per fortuna, a milioni di persone nel mondo. È proprio così che ho conosciuto una gran parte delle ragazze e dei ragazzi che praticano surf a Gaza e fanno parte del Gaza Surf Club. Avete capito bene, in quella che nel mondo è conosciuta come la più grande prigione a cielo aperto, si fa surf ed esiste un club dedicato al Surf. Il Gaza Surf Club è stato fondato nel 2008 grazie all’ausilio di Explore Corps, un’ organizzazione no-profit che realizza progetti nel campo dell’educazione all’aria aperta, delle attività ricreative e delle arti, funzionando da risorsa educativa e di sviluppo comunitario per i surfisti palestinesi nella Striscia di Gaza. Quanti si staranno chiedendo, “ ma se addirittura fanno surf, come possono dire di vivere in una prigione?” Sistematicamente a Gaza mancano acqua ed elettricità, sono gli israeliani a decidere quando concederle. Il 96% delle abitazioni riceve acqua corrente inadatta ad essere consumata. L’acqua che esce dal rubinetto è acqua imbevibile, salata, a causa di guasti nella falda acquifera. La fornitura elettrica, gestita sempre da Israele, è di appena quattro ore al giorno. Per questo molti edifici pubblici e privati sono attrezzati con generatori di emergenza, che però sono poco affidabili e spesso non funzionano. Gli ospedali sono i primi a soffrire di questi tagli. La corrente elettrica spesso è interrotta a causa dei blackout, costringendo le strutture a ricorrere a generatori. Si tratta di un sistema sanitario che deve rispondere alla necessità di 2.226.544 persone. Inoltre, sempre a causa dell’assedio gli ospedali non sono forniti di tutte le medicine e di tutti gli apparecchi utili a curare i malati. Si possono fare delle richieste al governo israeliano, sia per ricevere medicine sia per i trattamenti, ma spesso arrivano troppo tardi o non arrivano affatto. È quello che è successo a Rawand Abu Ghanem, una delle prime surfiste della Striscia e la prima persona del Gaza Surf Club con la quale ho parlato. Un anno fa è morta la sua seconda figlia Yara, aveva 12 mesi. È nata con un problema cardiaco, e proprio a causa dell’assedio, le cure di cui aveva bisogno non sono arrivate in tempo. Il fatto che siano riusciti a rendere abitabile, perfino bella, una terra di 365 km2, lunga 40 km e larga, nel punto più lungo, 12 km, non vuol dire vivere in libertà. Vuol dire lottare ogni giorno, trovare la forza per farlo, nonostante tutto, in una parola, vuol dire RESISTERE. Qui trovi il link del fondo di soccorso per i surfisti gestito da Explore Corps: https://gazasurfclub.com/support#a2dcc7e5-1831-4b54-992b-b528b546d171 Qui trovi i link delle raccolte fondi create dai surfisti di Gaza: https://linktr.ee/summerkahlo   LEGGI I PRECEDENTI EPISODI  

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BOB LOG III / ONE MAN BUZZ – LIVE REPORT (13-6-2024)

Non si poteva resistere al richiamo dei supereroi monobanda, e allora InYourEyes ha risposto “presente” a un appuntamento davvero imperdibile, incentrato sulle “one man band“, che si è tenuto a Pisa in occasione della chiusura stagionale dei concerti alla Backstage Academy (un valido spazio artistico polifunzionale situato a pochi chilometri dalla arcinota Piazza dei Miracoli dove c’è la Torre che pende-che pende) che la scorsa settimana ha proposto al pubblico un finale pirotecnico, portando sul palco toscano un’autentica leggenda underground R’N’R come Bob Log III, che durante il suo tour in giro per il mondo è passato anche dall’Italia (terra spesso bazzicata dal nostro) per alcune date. E allora chi vi scrive (con un nickname ispirato a un altro formidabile one show-man band) e ha la “Shit” nel soprannome, non poteva mancare nel portare i suoi ossequi al funambolo dell’Arizona che, in passato, ha pubblicato un album intitolato “My shit is perfect” ! A scaldare la platea – accorsa in buon numero – ci ha pensato, in apertura della serata, un dichiarato allievo di Bob, l’autoctono One Man Buzz! (di cui ci eravamo già occupati qualche mese fa) che con la sua maschera demoniaca ha saputo rendere l’atmosfera “infernale” proponendo i brani del suo nuovo album autoprodotto (“One man band from hell with love and flames“, tanto per gradire) destreggiandosi in modo compatto e convincente tra canto, chitarre, theremin e grancasse – facendo tutto da solo, come vuole la tradizione della (non) scuola monobanda. DIY e ritmi serrati blues/punk che hanno infuocato a dovere il terreno per l’avvento del funambolo statunitense. E poi è arrivato il ciclone Bob Log III, magnetico catalizzatore dell’attenzione del pubblico sia a livello di immagine (col suo classico travestimento di scena, in tuta uniforme e casco integrale munito di cornetta telefonica usata a mo’ di microfono, e una scenografia piuttosto insolita per un concerto rock ‘n’ roll: palloncini da distribuire e far scoppiare e gonfiabili di un canotto e di una papera, con quest’ultima definita goliardicamente da Log “il mio manager”, poi anche innaffiata da una bottiglia di prosecco) sia a livello sonoro, col suo “One Man Band Boom” show, condito da chitarre vintage Silvertone Archtop, con le quali ha elettrizzato i presenti sfoderando un’ora e mezza di scatenato Delta blues “punkizzato” con venature noise, una vera forza della natura che ha saputo coinvolgere tutta la sala, con Bob che, come sempre, si è prodigato per rendere gli spettatori attivamente partecipi del suo blues punk guitar dance party, invitando sul palco alcune donzelle a sedersi e ballare sulle sua ginocchia per creare una coreografia sul brano “I want your shit on my leg” (e spesso è anche solito chiamare a raccolta le persone per mettere in scena il “rito” di infilare i capezzoli, suoi e dei “volontari”, in un bicchiere di scotch che poi beve, una “pratica” che caratterizza il pezzo “Boob scotch”) e interagendo con le prime file tentando un improbabile dialogo in un italiano maccheronico. Uno show in cui il buonumore è assicurato e dove si può anche restare impressionati dalla bravura strumentistica e vocale di Bob (che, non a caso, con oltre venticinque anni di variopinto percorso, è annoverato tra i capostipiti e i precursori dell’ondata monobanda) che a fine serata, oltre a ricevere i complimenti, ha anche firmato una dedica, a chi vi scrive, sul merchandising acquistato. Attitudine, passione, sudore, mentalità, costanza, perseveranza, irriverenza, divertimento e umiltà. Alla fine sono queste le qualità che rendono credibili i performer che ancora si ostinano a suonare rock ‘n’ roll e, quando le cose vengono fatte in maniera genuina – e certamente è il caso di One Man Buzz e Bob Log III – il risultato si traduce in serate riuscite come questa, che magari non resteranno negli annali della storia del R’N’R, ma certamente regalano soddisfazioni agli appassionati e ripagano, in parte, i musicisti per i sacrifici fatti per portare avanti le proprie baracche, riuscendo ancora a sbattersi per migliaia di chilometri per proporre concerti e musica dal vivo in un mondo ormai totalmente dominato dalla digitalizzazione e dallo strapotere della musica liquida che ha polverizzato i mercati e i sogni di chi avrebbe voluto vivere solo della propria arte. Da qui si ripropone un consiglio spassionato, anzi una convinzione rafforzata da live shows come questo a cui abbiamo assistito: si torni a supportare la musica DIY e i musicisti indipendenti, si tornino ad apprezzare e scoprire le piccole realtà e le piccole scene nei piccoli club non asserviti alle logiche del profitto e del business da centro commerciale, perché è lì che risiede la vera essenza del rock ‘n’ roll (e non solo) e sarebbe meglio boicottare i megafestival senz’anima (soprattutto quelli organizzati all’italiana) perché è molto più bello e più gratificante contribuire a tenere in vita lo spirito underground.

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Confessioni di una maschera – il mediterraneo è un lago, e io voglio vivere sull’altra sponda, quella meno nobile

::confessioni di una maschera:: “il mediterraneo è un lago, e io voglio vivere sull’altra sponda, quella meno nobile” maggio MMXXIV Penso di essere giunto a un punto di svolta improcrastinabile. Continuare a lavorare in sanità, in italia (scritto volutamente minuscolo), nel duemilaventiquattro, non è più sostenibile. La deriva che abbiamo preso sta mettendoci con le spalle al muro. L’idea che si stia andando verso un sistema prevalentemente privatistico, sulla falsa riga di quello statunitense, è un qualcosa che ritengo impossibile da accettare. Per tutti coloro che ancora non ne se fossero accorti, stiamo viaggiando a vele spiegate verso la privatizzazione della Sanità Pubblica, e, come sempre, è il Nord, quel cazzo di Nord che produce (consuma e crepa), che forte di questa sua aumentata autostima pensa di poter, anzi di dover dare l’indirizzo da seguire al resto del paese, erigendosi a esempio virtuoso. In questa nostra corsa a rotta di collo verso l’ignoto che sta assumendo le forme del peggiore incubo, credo che l’unica possibilità per non andarsi a schiantare sia quella di scendere dal treno indirizzato verso la modernità, e fare il percorso inverso. Lasciar perdere il Nord e la sua folle idea di sanità, e guardare al Sud, all’antitesi per eccellenza, per un ritorno, e una riscoperta delle nostre origini, di tutto quello che c’era prima, e che abbiamo dimenticato in un clic. Se, davvero, voglio restare ancorato a questo mio lavoro che, tra le altre cose è anche l’unico che so fare, non ha più alcun senso restare qui e accettare, più o meno passivamente, sia come singolo, che come categoria, questo ennesimo (e forse decisivo) flirt con un modello di sviluppo che mi ostino a non accettare. Ciò che ci propongono come “il migliore dei mondi possibili” è un appuntamento con la morte (quella interiore) che sento di dover rimandare ancora. Quale l’alternativa? Andare a fare l’unica cosa che so fare, laddove ancora abbia un senso darsi agli altri. Dove si possa parlare di soddisfazione, dove la gratificazione sia tutto tranne che economica, perché, se c’è una cosa che ho sempre avuto ben chiaro, e che non ho mai nascosto (prima di tutto a me stesso), è il grande insegnamento dei miei primi trenta anni in sanità. E cioè che la retribuzione mensile sia, tra le tante, la gratificazione meno ambita. Ma non c’è solo questo. Non posso non essere sdegnato dalla deriva sociale che abbiamo intrapreso. Tutto questo proliferare di dinamiche fintamente “politicamente scorrette”, sottintendono un razzismo sottotraccia che lavora e si insinua a tutti i livelli, sul modello di quel fascismo “per bene, di facciata” di cui parlavo nei mesi scorsi. Ho assistito anche di recente al ripetersi di episodi spiacevoli che hanno evidenziato la tendenza a guardare agli “altri” con disprezzo, in modo subdolo, e quindi per me ancor più inaccettabile, proprio perché fatto senza il coraggio di chi difende le proprie idee. Non ho avuto problemi a denunciare l’accaduto ai vertici del mio presidio sanitario, e non ne avrò in futuro. Per me perseverare con l’idea che la rimozione del politicamente corretto, equivalga a sdoganare qualsiasi tipo di nefandezze è inaccettabile, soprattutto se viene da un medico, come è capitato a me. Per assurdo, alla fine, in frangenti come questo, chi finisce per avere la peggio passando dalla parte del torto, è chi come me denuncia, e urla la propria rabbia. Perché alla fine chi ha torto non è chi discrimina per ragioni etniche, ma chi alza la voce per stroncare questi atteggiamenti. Se io non posso sentirmi libero di gridare il mio schifo in faccia a un razzista, non perdo tempo in discorsi inutili, mi levo dal cazzo. In un mondo che tollera questo tipo di atteggiamento non c’è spazio per me. Continuo a dirlo, e non mi stancherò mai di farlo, il silenzio è complicità. Questi sono atteggiamenti che vanno stroncati sul nascere, sempre, e in modo deciso, senza tolleranza. A qualunque costo. Indipendentemente dalle conseguenze a cui finiremo per andare incontro. La libertà e il rispetto non sono negoziabili, soprattutto se riguardano persone che hanno lasciato il loro paese, hanno attraversato il Mediterraneo, e si sono rivolti a noi sanitari nel momento del bisogno, quando la salute ha per loro incontrato un problema non risolvibile in autonomia. Io non ho paura di lottare per queste persone, così come non ho paura di quello che potrà accadermi nel momento in cui mando in culo un medico razzista che reitera i suoi atteggiamenti discriminatori. Al contrario, ho paura nel momento in cui non agisco in questo modo, nel momento in cui mi accorgo che tutto questo è diventato la quotidianità, che abbiamo smesso di indignarci, nel momento in cui non prendo le parti dei meno fortunati. È qui, quando perdo la voglia di lottare, che rischio di trasformarmi in quello che ho sempre cercato di combattere. Non ho problemi a urlare il mio schifo in faccia a queste persone, e non mi importa la scala gerarchica. La mia etica non è quella del regolamento interno, dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche, ma quella di tutti coloro che vogliono restare vivi in un mondo di morti che camminano. E qualora questo non (mi) fosse possibile, non ho problemi. Prendo le mie cose, e (me ne) vado laddove posso finalmente tornare a respirare serenità. Non sento la necessità di dover lasciare mosso da compassione verso queste persone. Se vado è perché ho voglia di ridare dignità a chi l’ha persa, di dare concretezza a chi ha messo da parte la speranza, per aiutare a riorganizzare le forze e razionalizzare le risorse. Anche perché abbiamo troppo velocemente scordato che sull’altra sponda del Mediterraneo le risorse abbondano, ma finiscono per essere ostaggio prima e vittime poi di una disorganizzazione che non può non spingere alla fuga. Non è un mistero (per chi ha la faccia tosta di mantenere gli occhi aperti) che laggiù gli operatori sanitari di qualunque livello e competenza, sono costretti ad abbandonare le proprie terre per una carenza strutturale endemica, che castra sul nascere il futuro. C’è un surplus di domanda di lavoro che si scontra con l’impossibilità di assunzione per carenze economiche. In altre parole “ti assumo ma devi lavorare gratis perché non ho i soldi per pagarti.” Ma non prima di aver almeno provato a ricalibrare il quadro delle priorità e dell’etica, riportando al centro dell’attenzione la dignità e il rispetto per le persone, per i loro valori, religiosi e culturali. Proprio per questo sento ancora più forte la mia necessità di andare a cercare la bellezza nelle “distanze” e nelle “diversità”, in quella contaminazione che ritengo alla base di tutto quello che accade su questo disastrato pianeta. Parliamo di persone che si trovano ad affrontare problematiche che sono risibili rispetto a quelle che si sono messe alle spalle, vittime di guerre, carestie, catastrofi naturali, e non ultimo della fame. Una comunità che metta da parte tutto questo nel momento in cui approccia un altro essere umano non è degna di esistere. Non riesco a capire come sia possibile oggi non capire che serve un rinnovamento, un cambiamento culturale che coinvolga ognuno di noi, in modo concreto, definito e standardizzato. È finito il tempo dei ragionamenti di pancia e dell’improvvisazione. È una sfida che però ha una sua non meno importante componente che guarda al lato pratico delle cose, alla concretezza. Un percorso che non potrà essere che lungo e difficoltoso, ma che soprattutto non è più rimandabile. Non so se riusciremo a salvare il Sistema Sanitario Nazionale, ma so che per farlo non possiamo prescindere dall’aumento delle risorse, con conseguente aumento non solo delle retribuzioni, ma anche del numero degli assunti, della possibilità di accedere agli aggiornamenti gratuiti per tutti, e via dicendo. In tutto questo è impensabile che siano ancora i presidenti delle regioni le figure deputate a queste decisioni. Presidenti che non hanno alcuna esperienza sul campo, e che guardano ai bilanci ancor prima che alla salute. Presidenti che sono troppo spesso espressione di una visione partitocratica della cosa pubblica. Si torna sempre al solito vecchio errore che ha messo in moto tutto quanto. Il passaggio da Unità Sanitarie Locali ad Aziende Sanitarie Locali, in onore a sua maestà il denaro. Ne consegue l’ovvietà, e cioè che un Sistema Sanitario Nazionale di stampo privatistico non può prescindere dal guardare agli azionisti e alle loro necessità, ancor prima – o anziché – delle necessità della popolazione malata. Il privato, anziché tendere alla prevenzione per ridurre la spesa, non può che guardare all’aumento delle prestazioni, e conseguentemente del fatturato. I cittadini contano solo se sono malati, in grado di produrre profitto. Per cui possiamo ammalarci ma solo di alcune patologie. Di questo passo, soprattutto se dovessimo davvero andare verso l’autonomia differenziata a livello regionale, le disparità non potranno che aumentare, determinando un’ulteriore forbice nelle condizioni di accesso al diritto alla salute. L’idea di guardare alla sanità come a un “mercato retto dalla libera concorrenza” è folle. La salute non si commercia, questo dovrebbe essere chiaro. Ma a ben guardare, visto quello

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Intervista Tarantola

Intervista con Mauro Locandia fondatore dei Tarantola, reggae in combination Londra e Salento, con il singolo “Original terron” scirtto e prodotto a quattro mani con Sabaman.

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Luna Nuova Di Ian Mcdonald

Ian Mcdonald: Sono anni fortunati per le traduzioni italiane di Ian McDonald, dopo i successi di Desolation Road e de Il Fiume degli Dei..

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Note sui 25 anni di “Come On Die Young” dei Mogwai

Venerdì 29 marzo, mattina presto. Piove a dirotto, il cielo plumbeo sembra il diaframma di un enorme animale: pulsa, vibra. Mai domo, muove acqua e venti, sposta le onde del mare con la forza incontenibile di un megalodonte. Solo, nella stanza, osservo la mia copia personale di Come On die Young. Ce ne sono tante come lei, ma questa è la mia; comprata all’uscita, esattamente 25 anni fa, è più che un semplice oggetto. Le vibrazioni che mi trasmette, anche solo al tocco, sono qualcosa di indicibile, qualcosa che si avvicina al vero senso del tutto. Già, perché questo, per me, non è un album qualsiasi, è un vaso, una sorta di intelletto universale, un contenitore metafisico di essenza ineffabile. “And that music is so powerful that it’s quite beyond my control and, uh, when I’m in the grips of it I don’t feel pleasure and I don’t feel pain, either physically or emotionally Do you understand what I’m talking about? Have you ever, have you ever felt like that?” Non lo ascolto molto spesso; quasi mai, a dire il vero. Perché mi travolge, ogni fottuta volta mi prende al petto e mi fa stare male. E il problema è che non capisco mai, una volta ultimato l’ascolto, se esso abbia avuto o meno un effetto catartico: invece di sublimarle, mi pare che accentui sensibilmente le emozioni più irrefrenabili che covano dentro me. È un amplificatore di pulsioni, quindi lo devo prendere a dosi molto, molto ridotte, altrimenti rischio davvero di stare male. Soprattutto in questo periodo, in cui mi sento travolto da un vortice di emozioni incontrollabili, in cui sono particolarmente vulnerabile, non dovrei neppure avvicinarmi a un disco del genere, mai e poi mai. Purtuttavia, vista l’occasione speciale, non ho potuto non concedergli un ascolto. Glielo dovevo. “Old songs stay ‘til the end Sad songs remind me of friends And the way that it is, I could leave it all And I ask myself, would you care at all?” Questo disco non è certo un capolavoro, tutt’altro: è pieno di difetti e imperfezioni; è scostante, troppo lungo e un po’ monotono. I Mogwai hanno fatto decisamente di meglio nel corso della loro lunga carriera. Ed è questa una caratteristica che me lo fa sentire ancora più vicino: non amo la perfezione, non l’ho mai amata e di certo non l’anelo; anzi, la rifuggo il più possibile, perché non mi rappresenta e non mi soddisfa. Le cose che sento più affini sono proprio quelle che hanno la forma di Come On Die Young, quelle cose che meglio riflettono il vero aspetto delle cose. Già, perché non ce la faccio proprio a concepire un universo teleologicamente determinato verso l’autorealizzazione di sé: mi sento naturalmente più vicino al caos, a ciò che dritto non è e che qualcosa che non funziona ce l’ha eccome. Ecco perché questo è uno dei miei dischi della vita, ecco perché oggi ne festeggio i venticinque anni. Grazie, Come On Die Young.

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Daikichi Amano

Daikichi Amano è un fotografo giapponese, Richiama a riti tribali e viaggi sciamanici nei nostro intestino.

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