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Dalla letteratura all’attualità, dalla filosofia all’arte: a noi interessa tutto. Purché non ci si annoi.

Confessioni di una maschera “L’ennesima occasione persa” Gennaio MMXXIV

Recentemente gli amici di Riserva Indie hanno condiviso sui loro spazi parte di un nostro intervento tratto proprio da questo spazio (Confessioni di una maschera “La virulenza della viralità“), che non ha mancato di scatenare un putiferio mediatico, fatto di reazioni scomposte, al limite della lesa maestà e della denuncia penale. Al netto di repliche piccate, più o meno stilisticamente e grammaticamente corrette, quello che ci ha maggiormente sorpreso è stato notare come la quasi totalità degli intervenuti non abbia minimamente capito di che cosa stessimo parlando, limitandosi al virgolettato dei ragazzi di Riserva Indie. Una reazione di pancia, a volte tristemente adolescenziale, che nei toni, ma soprattutto nelle argomentazioni, ha mostrato come non ci sia stata la voglia di scomodarsi a leggere per intero il testo da cui era tratta la citazione. Tutti copiosamente incolonnati con commenti bidirezionali, chi pro e chi contro, che nulla hanno aggiunto al ragionamento che il team di Riserva Indie voleva innescare. Tutti pronti a dire la loro, fermandosi però all’estratto, al campionamento per dirla in musica, che guardava alla fruizione contemporanea dei concerti da parte delle generazioni moderne, troppo spesso, a nostro avviso, legata ad un uso indiscriminato e fuori luogo del cellulare, diventato oggetto imprescindibile anche in questi contesti. Restando in argomento “generazionale” pensavamo che, essendo i nostri figli abituati ad una soglia di attenzione online che si assesta a poco meno di dieci secondi, noi più adulti potessimo vantare un approccio più analitico. E invece ci siamo dovuti ricredere. Non esiste alcuna differenza, non esiste un Noi e un Loro, siamo tutti irrimediabilmente nella stessa – pessima – situazione. E a poco servono i recenti studi del Brain & Mind Institute della University of Western Ontario, che indica come il nostro cervello non sia in fase di regressione, ma stia soltanto adattandosi ai nuovi scenari, fatti di una pluralità di fonti e di contenuti. Dinamica che rende necessaria una maggiore velocità di metabolizzazione, ma che però – cosa che i canadesi non dicono – non sottintende l’analisi del testo, intesa come verifica dell’autenticità del contenuto. In pratica è come se l’importante fosse leggere, indipendentemente dal fatto che si tratti di una belinata o meno. Quella riportata da Riserva Indie era una considerazione da collocare in un diverso contesto. Non si trattava di impartire ordini su come ci di deve comportare ai concerti, ma solo evidenziare, tra i tanti, uno di quegli atteggiamenti che sancisce, oggi più che mai, una sorta di dipendenza da smartphone. Non era e non doveva essere il concerto – e le riprese dello stesso – il focus, ma un discorso più ampio. Purtroppo però, nessuno o quasi, si è preso la briga di leggere tutto il testo, realizzando che stava commentando dieci righe di un articolo molto più corposo. Atteggiamento che sposa alla perfezione il senso globale del ragionamento, e che sottolinea, una volta di più, come la dipendenza tecnologica vada a minare la libertà intellettuale e l’indipendenza. A noi di come approcciate e di che fate ai concerti non frega nulla. Il punto è un altro. E, francamente, non pensavamo fosse così difficile da capire. Ma, evidentemente, è proprio questa vostra spiccata approssimazione che vi impedisce di accedere a contenuti più approfonditi, perorando le nostre tesi, anche se in modo – per voi – del tutto involontario. Nonostante la soglia di attenzione si limiti ad otto soli secondi, questo non impedisce e non raffredda la pulsione da interventismo, che si rende manifesta in modo tanto frenetico quanto frettoloso, senza nemmeno provare a pensare di guardare le cose da altri punti di vista che non siano il proprio. Noi non ci crediamo migliori o più intelligenti degli altri. Siamo solo più attenti a quelle che sono le reali intenzioni, e quindi il fine, di coloro che scelgono di pubblicare un approfondimento, un ragionamento. Cerchiamo cioè di calarci nell’ottica di provare a capire le loro ragioni, e a confrontarle con le nostre. Atteggiamenti che riconosciamo essere al di fuori del pensare comune, e del comune agire, e che mal si sposano con la incontrollata frenesia di tutti coloro che vivono cellulare alla mano la maggior parte della giornata. È ovvio che auspichiamo un cambio di passo. Lo diciamo da tempo. Ma se queste sono le premesse, se si guarda solo a creare in ogni occasione una dicotomia, tanto inutile quanto inesistente, che va a sancire la nascita di due schieramenti opposti, non esiste alcun futuro. Nel caso in questione, non c’era e non c’è da scegliere da che parte stare. Non c’era nessun confronto/conflitto generazionale. C’era semplicemente da leggere un testo, nella sua totalità, e provare a capirlo. Un gesto immediato, diremmo quasi banale, che però, la maggior parte degli intervenuti non è stata in grado di fare. Il segno dell’ennesima occasione perduta.     [button size=’medium’ style=” text=’Date un’occhiata a tutte le confession! ‘ icon=’fa-arrow-circle-o-left’ icon_color=” link=’https://www.iyezine.com/articoli/confessioni-di-una-maschera’ target=’_self’ color=” hover_color=” border_color=” hover_border_color=” background_color=” hover_background_color=” font_style=” font_weight=” text_align=” margin=”]  

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Time Bomb Fest Vol.2

Time Bomb Fest Vol.2: festival di musica punk/oi! che si terrà il 13 gennaio 2024 presso la Bottega26 di Poggibonsi, in Toscana.

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NOT MOVING L.T.D. LIVE IN PISA (1-12-2023) LIVE REPORT

Cosa c’è di meglio di un concerto rock ‘n’ roll per riscaldare le fredde notti d’autunno/inverno? E se poi il live in questione è suonato da una band come i Not Moving (LTD) che in Italia, da decenni, rappresenta IL rock ‘n’ roll, quello vero e meno celebrato “istituzionalmente” dal mainstream, che fai, non vai a vederli? Certo che si va! I nostri, lo scorso weekend, sono stati impegnati in una 3 giorni tra Toscana, Emilia e Piemonte con tre nuove date a supporto del loro nuovo (comeback) album uscito nel 2022, “Love Beat“, promuovendo il disco in un tour che va avanti dallo scorso anno e dovrebbe concludersi agli inizi del prossimo (e, ci giuriamo, siamo certi che non sarà la loro ultima tournée, nonostante la didascalia social “This could be the last time” che accompagna gli annunci e i resoconti delle loro esibizioni in giro per lo Stivale) e nella sera del primo giorno dell’ultimo mese del 2023 sono stati di scena nei dintorni di Pisa, al Caracol, uno di quei piccoli club in cui si può ancora vivere la vera essenza di un concerto R’N’R: a pochi centimetri dal palco e da chi suona on stage, con la possibilità di condividere le emozioni in tempo reale (e non filtrate da palchi situati a chilometri di distanza dal pubblico) con la band che si sta guardando, e poi interagire, salutare e scambiare parole, commenti e impressioni coi musicisti, interfacciarsi con chi suona/canta senza barriere multimediali e senza chiedere il permesso a guardie del corpo che proteggono le “rockstar” di turno. Dovrebbe essere sempre così, e Antonio “Tony Face” Bacciocchi, Rita “Lilith” Oberti e Dome La Muerte lo sanno bene e, da persone vere, umili e genuine quali sono, si dimostrano sempre alla mano e felici di stare a stretto contatto con l’affetto dei loro fan ed estimatori, non si risparmiano (sul palco come nella vita) e a dispetto del tempo carogna e delle sessanta primavere sul groppone (a eccezione della giovane chitarrista Iride Volpi) sono ancora in giro a sbattersi, a diffondere il verbo del rock ‘n’ roll a coloro che ne sanno godere e a offrire live shows grintosi che si mangiano a colazione tanti gruppi anonimi di sciatti e noiosi ventenni. Per chi vi scrive, questo è stato il primo concerto dei Not Moving a cui ha assistito dal vivo (essendo nato a metà degli Eighties, e poi in seguito ancora pargolo, ai tempi della line up “storica” dell’ensemble tosco-emiliano) e poco importa se, dopo la reunion, al moniker è stata aggiunta la sigla “L.T.D.” (cioè, Lilith, Tony e Dome) perché la sostanza non è cambiata e, come già scritto nella recensione di “Love Beat“, la chimica di gruppo è rimasta intatta, la scorza dura e il feeling ribelle sono ancora lì a sorreggere un sound sempre elettrico, sebbene meno viscerale e d’impatto, rispetto al selvaggio passato, ma più ragionato e maturo e ugualmente infuocato in sede live. Vinti i malanni di stagione che, il mese scorso, li avevano costretti a cancellare alcune date, i quattro si presentano sul palco del Caracol con una setlist generosa e compatta che intrattiene e diverte la platea accorsa per vederli in azione. Rita “Lilith”, lady in black e frontwoman che sa prendersi la scena molto meglio di tanti colleghi maschietti, interpreta ogni canzone con passione e coinvolgente trasporto; Tony, coi suoi immancabili occhiali scuri, è sempre garanzia di precisione, essenzialità e solidità alla batteria; Iride fa da efficace supporto elettrico alla seconda chitarra (quartetto senza basso, in omaggio ai primi Cramps) e poi c’è lui, Dome La Muerte, osannato idolo locale, ma anche leggenda del rock ‘n’ roll italiano tutto, il figlio che Keith Richards avrebbe voluto avere. Un’ora e mezza tirata e senza pause tra una canzone e l’altra, una scaletta che ha ripercorso quasi tutta la discografia del gruppo, tra brani della primissima ora come “Baron Samedi” (contenuta nell’Ep “Strange Dolls” del 1982, registrato prima dell’arrivo di Dome La Muerte) altre gemme provenienti dagli “altri” anni Ottanta come “Goin’ down“, “Crawling” (ripescata dall’Ep “Black ‘n’ wild“) “Land of nothing” (dal mini-album del 1983, ma pubblicato solo nel 2003 da Area Pirata) “I stopped yawning” (da “Flash on you“) lo strumentale “Surfin’ dead blues” (posto in apertura delle danze e tratto dall’Ep “Jesus loves his children“) “Lost bay” e “Suicide temple” (dal primo vero e proprio Lp, “Sinnermen“) passando per il nuovo corso (“Lady Wine“, dall’Ep omonimo, e poi una selezione di pezzi del nuovo long playing: “Love beat“, “Down she goes“, “Dirty time“, “Deep eyes“, “Don’t give up“) il tutto condito dalla consueta manciata di cover: dal classico surf “Pipeline” (che negli anni Ottanta gli valse i complimenti di Johnny Thunders, il quale diceva che la loro versione suonasse meglio della sua!) “Primitive” dei Groupies/Cramps, “I need somebody” degli Stooges, “Venus in furs” dei Velvet Underground, una concitata “Fire of Love” dei Gun Club e l’incendiario rifacimento di “I just wanna make love to you” di Willie Dixon con cui i NM chiudono sempre le loro esibizioni. Un concerto dei Not Moving (LTD) è sempre un evento da ricordare. Lo stile e la mentalità sono qualità che si acquisiscono con pratica, sudore, attitudine ed esperienze di vita e non si comprano al (super)mercato (e del resto, se hanno ricevuto apprezzamenti e attestati di stima da gente come Joe Strummer/Clash e Johnny Thunders, tra gli altri, non è certo per grazia ricevuta, ma per la caparbietà/costanza della loro proposta e del loro talento. P.S.: Iggy Pop, smettila di fare il coglionazzo coi Maneskin e passa i Not Moving sul tuo programma radiofonico alla BBC!) e i nostri confermano di essere parte, in Italia, dell’underground che resiste alle mode mainstream e alle derive del mercato/marketing musicale di algoritmi, autotune e altre aberrazioni spersonalizzanti. E finalmente la loro autenticità è stata omaggiata da un riconoscimento (meritatissimo, aggiungiamo) “alla carriera” assegnato a Dome e soci alla ventiseiesima edizione del premio intitolato al cantautore Piero Ciampi a Livorno, un avvenimento che sicuramente ripaga questi/e eterni/e ragazzi/e di tanti sforzi e sacrifici fatti, dal 1981 a oggi, per portare in giro la loro musica senza compromessi e coltivare un sogno R’N’R. La battaglia va avanti (speriamo ancora per tanti anni) e lo spirito continua.  Lunga vita agli outsider!  

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Intervista a Martina Di Roma

In occasione dell’uscita del suo disco di debutto “Invisible pathways” abbiamo avuto il privileglio di fare due chiacchere con la cantante, compositrice e improvvisatrice Martina Di Roma, artista molto interessante e dalle idee molto chiare.

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Doom Heart Festival V – Paderno Dugnano 21/10/23

Lo scorso 21 ottobre si è svolta presso lo Slaughter di Paderno Dugnano la quinta edizione del Doom Earth Fest, una rassegna che è diventata ormai un punto fisso per gli appassionati del doom estremo, organizzata come sempre da Alberto Carmine (alias Morpheus, fondatore e motore della pagina FB Doom Heart), anche quest’anno coadiuvato dai musicisti appartenenti band death doom bresciana (Echo).

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Kirk Dominguez

Kirk Dominguez

IN YOUR EYES EZINE e TRUE LOVE ATELIER * presentano * ✦ Mostra Fotografica di KRK DOMINGUEZ a cura di IN YOUR EYES EZINE ✦ Ore 18: Mostra e DJ Set HellPacso (DSA COMMANDO) https://www.facebook.com/events/2233955646937449 – Parte 1 Intro allargata: un percorso suggerito – prospettive  Assumendo l’impossibilità, fosse anche trattata per brevissimi cenni, di ripercorrere in questa panoramica la centralità della fotografia nello sviluppo delle culture giovanili e, in particolare nel più generale rapporto con l’evoluzione della musica rock, ci limiteremo a ricordare che essa, con la deflagrazione operata dal punk, si libera del tutto di ogni suo eventuale residuo artistico. Così, l’emancipazione dalle forme d’arte visivo-figurative ritenute tradizionalmente più colte, appare, finalmente, completata.  Infatti, proprio nell’originarsi stesso dell’esplosione, si assiste a figure professionali già affermate – Bob Gruen, su tutti – capaci di rimettersi in gioco e fondersi con ricercatori e sperimentatori quali Dennis Morris, Kevin Cummins, Roberta Bailey, David Godlis… che, a loro volta, si ricombinano e influenzano giovanissimi drop-out integrali, e/o giovani artisti in formazione, provenienti dalle scuole d’arte e dai corsi serali di fotografia sperimentale. Improvvisazione, approccio tecnico informale, teorie artistico-politiche avanguardiste, mutuate dall’intera storia del ‘900, si compenetrano con la più totale libertà artistico-espressiva garantita dalla pletora dei nuovi linguaggi sonori emergenti dalle più fetide cantine urbane. Descritto in meno di due righe e mezzo, ambiziosamente, il punk. Un’alchimia capace di generare il sostrato perfetto per una vasta serie di nuovi talenti che, non a caso, andranno a delineare buona parte dell’immaginario musicale e “pop” contemporaneo. La scena californiana, più di ogni altra, partorisce alcune delle figure più coinvolgenti-emozionanti per creatività, longevità e capacità di cogliere l’essenza del nascente movimento e di influenzare le future generazioni. F-Stop Fitzgerald, Spot, Ruby Ray, G. E. Friedman, Jenny Lens… un nome su tutti, Gary Panther, per un’immagine su tutte: lo sconvolgente, rabbioso minimalismo, esaltato dall’apparente semplicità del piano americano, su cui pone, rendendolo immortale, il logo degli Screamers. E verrebbe da pensare che una così perfetta consonanza, nel cogliere il nesso, misteriosamente ignoto, che intercorre tra suono, estetica e attitudine, sia inarrivabile, eppure… All’alba dell’hardcore infatti, sebbene formatosi già nel milieu del Masque, la Mecca del punk Losangelino, si staglia la figura di Edward “Ed” Colver. Se, in termini puramente musicali, l’hardcore si pone in linea diretta con l’autonomia e la radicalità espressa dal punk originario, continuando insieme ad altri linguaggi sonori post-punk a smantellare la rigidità dei generi, definendo futuri, nuovi, inediti,  possibili – altro che l’interpretazione letterale del “no future”, o, della “blank generation” come ancora qualche imbolsito burocrate della stampa musicale vorrebbe convincervi – specularmente si potrebbe dire dell’arte di Colver.  Dal Jello Biafra che, come un sorta di Cristo post-moderno, sacrifica il corpo del suo stesso-se stesso Padre al tumulto delle folle, alle convulsioni di Stevo dei Vandals. Dai Red Cross colti nella loro furia pre-adolescenziale a Johanna Went impressa nella sua ferocia “azionista”, passando per il barrage poliziesco durante la prima del film “Decline of Western Civilization”. Per non parlare della più iconica di tutte le innumerevoli foto dell’originariamente fuori controllo, e, autenticamente selvaggio, stage diving che mai siano state scattate: “The Wasted Youth flip shot”.  E non finisce certo qui… “Damaged” 12” lp e “Damaged I/Luoie Louie” 7” dei Black Flag, “Fear of life” 12” lp degli Channel Three, e “Group Sex” de… dei.. non ricordo più bene – per la creazione-composizione grafica di un celeberrimo vinile, creata in squadra con Diane Zincavage e Shawn Kerri (Frontier rec., flp 1002, XI/1980, ma avevate capito, daiiiii!). Cruda fotografia di strada + retaggio pop-art + fumetto, nell’allegato: sublimazione! E’ sufficiente? Sarebbe ancora possibile parlare di fotografia in campo musicale dopo… di che tipo, quale angolatura possibile, dove poter provare a ricostruire? Quale senso e quale originalità? La risposta, forse l’unica corretta, è ambivalente. Da una parte, verrebbe da dire ovvio che no: che senso? Cosa? Perchè? Da un’altra prospettiva, ovvio che sì, ma, a una sola, e, intuitivamente unica condizione: spingere al massimo grado possibile tanto la deframmentazione angolare-visiva quanto il rapporto intimamente-intrinseco con i performer, i gruppi, la loro base e i singoli scenester. Gli strumenti stessi, lo spazio, i club, i bar, le cantine, e, certi attraversamenti da individuare, in qualche punto, tra le interzone urbane, lo wasteland periferico e certe penombre intraviste, inseguite, allo spasimo, negate, integralmente, incorporate. Sopra e sotto i cavalcavia, nelle colonne di sopraelevate infinite, o nella pancia di canali perduti-assorbiti dall’incalzare dei deserti, tra cactus, stazioni di rifornimento, a fianco degli sfasciacarrozze, con l’immancabile McDonald e l’ultima fermata del greyhound. Strutturalmente la forma del nulla, tra il “Repoman” di Alex Cox  e “To live and die in LA” di William Friedkin, giusto per gettare sul piatto anche una sorta di microscopico itinerario cinematografico. E, ancora, tra un backyard e lo sprofondare in un basement sia esso utilizzato per un gig improvvisato-clandestino, o servibile per una sala prove continuativa-immaginaria.  Un processo del resto parallelo a quello dell’atomizzazione sonora, rappresentata dalle varie fughe in avanti costituite dal noise puro, al grugnito claustrofobico del grind. Dal trash, dal crossover, dal grunge, senza dubbio, l’industrial-ambient-dub-elettronico – Scorn, Godflesh, per capirci, sino al techno-core – i Ministry evoluti, i Lard, Babyland, Tit Wrench – stop! Seguendo tale solco, impossibile, seppur di passaggio, non menzionare la “Revolution Summer” di DC – Cynthia Conolly, Sharon Cheslow, Leslie Plague, Amy Pickering, o, a maggior ragione, non ricordare una figura chiave come Murray Bowels. Si veda, al riguardo, “If life is a bowl of cherries, why am I in the pit?” fotozine (MRR edizioni, 1986), insieme all’omaggio che ne ha offerto Matt Saincome, fondatore del sito satirico punk “Hard time”: “My friends and I, we threw a show at a barn in Clayton when I was 16,” Saincome said. “There were 12 people there, out in the middle of nowhere, up this mountain, it didn’t even have an address. Absolutely no one came. No popular bands. And all of a sudden, Murray popped up. It’s me and 12 of my friends, and then him… His dedication to punk went so far that he wasn’t just going to a couple venues here and there. He said, ‘I’m gonna drive up this mountain in Clayton, to a barn with cows and chickens”. Parte 2 – Sintesi: mente, occhio e… cuore. Forse nessuno, nessuno più dei narratori per immagini, dei fotografi punk, con esso cresciuti e formatisi, sono stati in grado di cogliere il potere e la forza dirompente della sua progressività e del groviglio di nessi che continuava a tessere a partire dalla seconda meta degli anni ’80. Interpreti e testimoni, sul campo stesso, di stagioni non meno irripetibili di quelle “classiche” dei 70’s, o dei primi anni ’80. Ecco che, nell’occhio di Kirk Dominguez, spesso pubblicati per impreziosire le copiose pagine di Flipside – la più duratura e intelligente delle fanzine sputate fuori dal ’77 internazionale – vengono per sempre scolpiti intensi attimi di “birre, sudore e  anarchia” capaci di restituire la profondità con cui il punk va a costituirsi rete di relazioni – spina dorsale dell’anticonformismo suburbano nord americano. Butthole Surfers, Mentors, RHCP, Exploited, X, Cramps, decine di “minori”, e, le band in movimento dalla/per la sterminata “provincia” americana, tra cui sarebbe criminale non isolare i Nirvana pre-successo planetario.  Catturati nel 1989, presso “Al’s Bar”, nel centro storico di LA, a un concerto condiviso con i gloriosi locali Claw Hammer, davanti a un pubblico, a stento, numerato in venti spettatori: un muro di suono post-hardcore che scatenava vibrazioni cristalline. Cobain e accoliti, ritratti fuori da ogni clichè, e ben prima, molto prima, che i famosi burocrati, sempre loro e chi altri – altre menti – li etichettassero alfieri del grunge. Certo, il gruppo per antonomasia, che “conquistò tutto”, e, che, nella più aderente delle attitudini punk, di lì a un paio di anni getterà via tutto. Lo sguardo di Kirk c’era e, come a suggellare lo stimolo rivoltogli da Al “Flipside”: “Sii più di un testimone”, ha immortalato decine di altre band in tour che, ispirate dal punk di LA – facciamo cinque nomi, impossibile, soltanto cinque, a provarci: Weirdos-Germs-X-Black Flag-Screamers – alla non-capitale del Regno di California tornavano, quasi attratti da una potente calamita, come per pagare un tributo dovuto a quella stessa scena che aveva contribuito a generarli per, letteralmente, GERM(S)/minazione.  Per una fortuita coincidenza, la mostra dedicata a Dominguez si inaugura in parallelo con l’evento benefit che SonicReducer e Raindogs House hanno organizzato per sostenere la realtà bolognese musico-culturale “Vecchio Son”. Ora, con accesso a partire dalle 20.30, nell’ambito di tale iniziativa ci sarà la possibilità di visitare la sezione genovese delle esposizioni qui tratteggiate, cornice della presentazione del libro “Nabat sopra e sotto i palchi” curato e realizzato da Fabrizio “Fritz” Barile stesso (Red Star Press, Bologna 2023).  Fritz attacca a fotografare con regolarità in un periodo particolarmente delicato per la storia del punk italiano. Precisamente gli anni in cui la canea mainstream si lanciava nel fornire l’identikit del nazi-skin, infangando vent’anni di storia e plasmando dal nulla la figura del folk

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STRIKE ANYWHERE, LEGEND CLUB MILANO, 10-10-2023

STRIKE ANYWHERE, LEGEND CLUB MILANO, 10-10-2023

Gli Strike Anywhere sono uno di quei gruppi che delineano in maniera netta un periodo della mia vita. Li vidi live quasi per caso al Pacì Paciana di Bergamo, 25 agosto 2002 (grazie internet, non ho una memoria così sviluppata), e rimasi folgorato.

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STRIKE ANYWHERE

STRIKE ANYWHERE

Dopo più di dieci anni di attesa, tornano in Italia gli Strike Anywhere! L’iconica band melodic-hardcore punk americana sarà in concerto in Italia il prossimo 10 ottobre al Legend Club di Milano. 

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CONFESSIONI DI UNA MASCHERA

CONFESSIONI DI UNA MASCHERA ”Settembre Nero” IX MMXXIII

L’estate si sta dissolvendo, portandosi via quel poco di empatia che mi è rimasta. L’ho sempre voluta nascondere, per paura di mostrarmi, nudo, agli occhi avvelenati di tutti coloro che mi stanno intorno, in attesa di potermi assalire con le proprie richieste. Giocando proprio su questa mia disponibilità. L’isolazionismo estivo, figlio di una canicola insopportabile, mi ha aiutato a riflettere su tutte le dinamiche che puntualmente si ripetono nel metaverso in cui vive e opera Toten Schwan. Nel dilaniarsi dei miei pensieri, schiacciato dal peso di una stagione che odio sempre di più, sono arrivato alla conclusione che, in quell’irreale realtà così fortemente digitalizzata, le cose siano diventate – per me – insostenibili. Inevitabile quindi porre sempre maggiore distanza tra il mio [soprav]vivere e quegli ”inner circle” in cui tutti finiscono per sostenersi a vicenda, impossibilitati a rivelare la loro vera natura, pena la perdita dell’altrui sostegno. Circoli viziosi da cui ho sentito, forte, se non fortissima, la necessità di fuggire, in preda ad un’insostenibile intolleranza verso tutta questa finzione retta sull’opportunismo. C’è un proliferare di esaltazioni collettive, si sprecano complimenti e si celebra l’avvento di almeno una ”the next big thing” al giorno. Questa la quotidianità di tutti quelli che – come direbbe Mr. Wolf – si fanno i pompini a vicenda. In pratica veniamo a sapere, bontà loro, che c’è un grandissimo numero di dischi di cui non potevamo fare a meno, che però poi nessuno ascolta, dato che la regola numero uno del #club è parlare bene di tutti, aprioristicamente, perché ”può sempre tornare comodo.” Ovviamente, è bene non scordarlo mai, stiamo parlando di ”artisti”. Guai a non riconoscerli come tali. Questa, come potete ben capire, è la regola numero due del #club. ”Artisti” non persone. La regola numero tre è la prima delle non scritte. Ed è la più importante, proprio perché non esplicitata. A nessuno interessano gli altri, se li tengono vicini finché servono, finché non arriva il momento di passare ad altro/altri. Punto e a capo. Ecco, io di tutto questo non ho assolutamente bisogno. Lì, in quei postriboli del dogmatismo, dove il dissenso non è ammesso, nasce, si sviluppa e prolifera quella morbosità deviata da cui voglio e devo emanciparmi. L’altra grande questione su cui mi arrovello, in questi giorni di fine estate, verte intorno a Toten Schwan in maniera più diretta, e quindi – inevitabilmente – ancor più dolorosa. Come detto e scritto più volte in passato, c’è una grande e innegabile perversione che tende ad accomunare tutti coloro che gravitano online. Sono tutti in cerca di consensi e visibilità. A tutti i livelli e in ogni contesto. Soprattutto quello musicale. Non sono io che posso modificare le regole del gioco, mi sta bene. Posso però, per lo meno porre una domanda? A me, chi mi considera? C’è davvero qualcuno che mi avvicina per il piacere di farlo, senza esser mosso da un fine più o meno esplicito già in partenza? Sono consapevole che, rappresentando un’etichetta, la maggior parte delle persone si rivolge a me nella speranza di una produzione. Ci sta. C’è un però, che considero tutt’altro che secondario. Perché proprio Toten Schwan e non un’altra etichetta? In altre parole, vieni da me in modo consapevole, e mirato oppure uno vale l’altro? Vuoi uscire con noi perché condividi le nostre idee, la nostra etica, e sei concettualmente legato a quello che proponiamo? Oppure, come si diceva poco sopra, sono i soldi quelli che cerchi, per cui che siano i miei o quelli di un’altra persona poco cambia? Da anni cerco di far capire come Toten Schwan si regga – o almeno cerchi di farlo – sulle differenze, sulle distanze, sulla trasparenza, sui distinguo, non solo in ambito musicale, ma anche e soprattutto nella vita, nelle prese di posizione. Ogni nostra scelta ha alle spalle una ponderata valutazione. Ogni dinamica che si presenta mi mette in crisi, perché cerco di capire che cosa e/o dove possa portarmi. Ho sempre il terrore di quelle che possono essere le conseguenze delle mie scelte, soprattutto – e qui torna prepotente il mio lavoro a condizionare il mio pensiero – se vanno a toccare gli altri, se hanno effetti potenzialmente nocivi ai loro danni. Per cui, da oggi, da questo ”settembre nero” in poi, credo sia inevitabile andare verso un new world order retto su una selezione che porti a sfoltire le figure con cui finora ho interagito. Non è più ammissibile ”vivere alla giornata”, occorrono visioni comuni che guardino a un domani che abbia qualcosa in grado di tenerci vicini. Il resto non mi interessa più. Non ho il tempo dalla mia parte, e non intendo passare le giornate dietro a situazioni statiche, ”di plastica”. Il lavoro mi assorbe gran parte della giornata e delle energie, il resto del tempo – quello sottratto alla mia famiglia, per intenderci – decido io come passarlo, con quali ritmi, per cui, a tutti quelli che – anche involontariamente – mi stanno addosso non ho nulla da dire, se non che se vogliono far parte del nostro carrozzone, indipendentemente da quello che possa essere il motivo che li spinge a farlo – devono aspettare e rispettare i miei tempi. L’attesa è parte della vita, anzi ne occupa lo spazio più grande, occorre farsene una ragione. Se avete fretta, passate oltre. Non sentirò la vostra mancanza. Mi piacerebbe avere la forza, la voglia e il tempo per venirvi incontro. In passato ho cercato spessissimo di farlo. Ora è cambiato tutto. E non per colpa vostra, non sono qui per fare la morale a nessuno. Sono io che ho ridistribuito e riequilibrato le priorità, mettendo al centro di tutto me stesso, e solo in un secondo momento Toten Schwan. Non posso, e non voglio essere al vostro servizio sempre e comunque. Ci sono e ci sarò alle mie condizioni, quando avrò soddisfatto tutte le altre priorità. Non mi sono stufato di fare dischi. Mi sono stufato che tutti chiedano senza dare nulla in cambio, senza capire che prima vengo io e poi vengono i loro dischi. Non si tratta di una ”chiusura” totale, ma un invito a rivedere la considerazione che avete non solo nei miei confronti, ma verso le persone in generale. Siete, anzi siamo diventati troppo egoisti, troppo autoreferenziali, troppo egocentrici e molto poco disponibili verso gli altri, soprattutto se ”non ci servono” nell’immediato. Siamo nel pieno di un processo tutt’altro che breve – iniziato con la digitalizzazione – che sta dimostrandoci ora le sue prime conseguenze, un processo che abbiamo sottovalutato ma che è ben lontano dall’essere concluso.     [button size=’medium’ style=” text=’Date un’occhiata a tutte le confession! ‘ icon=’fa-arrow-circle-o-left’ icon_color=” link=’https://www.iyezine.com/articoli/confessioni-di-una-maschera’ target=’_self’ color=” hover_color=” border_color=” hover_border_color=” background_color=” hover_background_color=” font_style=” font_weight=” text_align=” margin=”]  

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