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Orizzonti Bloccati.

Orizzonti Bloccati.

Fregiandosi della libertà di fare ognuno la musica che più gli piace, estinti tutti i collegamenti con le grandi scene, oggidì nessuna band è portabandiera di una nuova filosofia (primariamente sonica) che inglobi valori nuovi e illuminanti per cui valga la pena di aderire anima e corpo: ossia, roba che faccia perdere realmente la brocca.

Di fatto non si aderisce a niente – i più fortunati seguono in surplace le piccolissime scene locali che poi potrebbero prendere piede, e nel migliore dei casi diffondersi notevolmente, interpretando quella sensibilità già serpeggiante tra i fruitori di quella nascente musica che non è ancora saltata fuori macroscopicamente tanto da richiedere l’intervento delle major, la cui funzione è di poterne fare un totem commerciale (ovviamente detto nella valenza positiva del termine, vedi ad es. la più che matura scena nù jazz inglese di questi ultimi lustri: A Comet Is Coming, Zara McFarlane, Yussef Dayes, Joe Armon-Jones and more…) – e perciò nel rimestamento del generale calderone musicale (l’archivio immenso della musica on line) le linee direttive creative restano notevolmente affini al genere di musica che piace ascoltare, ma soprattutto i musicisti diventano dei chimici, alchemici del suono, mescolando attraverso formule elementi forgianti e lambiccando nei laboratori sonori le personali ricette che pescano spesso (inevitabilmente) in un già sentito, semplicemente poi ricomposto secondo nuovi incastri.

Questa INTERLOCKING MUSIC (che si adatta bene alla filosofia standard IKEA e che sfocia nel bricolage) a mio parere è la semplice continuazione della contaminazione musicale che ha prodotto la migliore musica pop universale, nel senso di moderno ed epocale, e che non ha mai smesso di spingerne in avanti, avvalendosi dei suoi tempi di sviluppo, i confini.

Quello che asserisco è che, essendo diventato il bagaglio della musica pop talmente gonfio di cianfrusaglie (per carità tutte rilevanti), alla stregua dell’interno smisurato della borsa di Mary Poppins, ed essendo pure di pari passo aumentata la propensione a suonare musica dagli addetti ai lavori (gli artisti), qualcosa si è ingolfato nel fine ultimo di questo procedimento, stagnando nel mero esercizio di stile.

Il passo successivo sarebbe trovare un equilibrio musicale degno di nota che ponga gli artisti all’attenzione degli ascoltatori, ma non basta: la musica pop odierna è una reiterata riproposizione di vecchi e rodati schemi ove crogiolarvisi dentro, una sorta di alcova ben riscaldata e protetta dove fare buon pop, che ha un sapore, seppur nuovo, comunque oldie, benché produttori, ingegneri del suono, del remastering e della post-produzione, facciano del loro meglio per tentare di far distinguere il lavoro grezzo degli artisti accuditi e conferirgli quella freschezza, unicità e particolarità (già invero posseduta dagli artisti) migliorata secondo la loro esperienza e che tenga conto dell’aggiornamento della tecnologia e delle tendenze di fruibilità del mercato.

I più bravi, i più alchemici e ingegnerizzati, già tecnolocici in avvio, forniti di buone idee, di misture ritrovate ed esperite nei loro laboratori, non fanno altro che affinare sempre più il prodotto che dovrà fascinare il mercato degli ascoltatori, secondo una rinnovata proposta, e in tal modo plasmare la storia della musica pop (pensiamo a Beck)!

Niente di nuovo sotto il sole, d’accordo, ma di tutta questa miriade di geni e geniucci, cosa resterà se non attecchiranno al palo monolitico generazionale da cui far ruotare una rivoluzione universale che resterà memorabile segno di un’epoca e di un vissuto (di ricordi duraturi), foriera di ripercussioni e di imitazioni sgorganti a cascata?

In quest’ottica rimangono in piedi due teorie, o ci siamo frammentati l’anima con la sovrabbondanza di materiale sonoro oggi a disposizione incline a farci ascoltare di tutto (dal vecchio al contemporaneo) senza affiliarci, non più, a nulla in particolare di viscerale, oppure non c’è in atto alcuna rivoluzione sonora, tale nella portata, che coinvolga (e volevo scrivere, ‘i kids’) quell’alieno substrato rinvenibile nella popolazione che sono invece ‘gli ascoltatori’ in toto, dettandone tirannica legge in quanto apportatrice di novità e di una edificazione del credo (e del gusto) cui obbedire ciecamente e prima di tutto.

Probabilmente la colpa è di quelle band mostruosamente micidiali che, per un mix protratto di filosofie e atteggiamenti, di look e buona musica svisceratamente espressa, abbiano incastrato (intrippato) tutti con il proprio potere ammaliante ed infinitamente più mediatico del mediatico.

Citare a questo punto la saga dei Rolling Stones, dei King Crimson, della Swiging London, del Power Flower, del Be-Bop, dell’Heavy Metal, del pUNK e così via, non fa altro che sottolineare il valore intrinseco di quegli scenari che hanno attecchito lungo un sentimento diffuso, reale e genuino, permettendo di far filtrare la percezione di una consapevolezza che prevaricasse la stessa musica prodotta, senz’altro convertita, in second’ordine, a mezzo allegorico pertinente di dar voce ad altro da cogliere al volo e che fosse già presente nell’aria, ma appartenente esclusivamente a quel periodo preciso. Tanto che forse oggi – ad es. dopo i Nirvana o i Radiohead – non ha alcun senso riacciuffare o intercettare alla maniera passata tale percezione di consapevolezza, invece conducibile attraverso nuovi altri termini radicali, indicando con la parola ‘radicale’ le qualità sviluppatesi nel DNA dell’artista quale imprescindibile (e che non costituisca l’eccezione) espressione del suo tempo.

Sorgono naturali alcune domande. In quale tempo viviamo? Come gli artisti odierni incarnano e comunicano questo tempo contemporaneo? Artisticamente sono radicalmente valenti? I loro lavori rappresentano solo un supericiale easy listening perché i contenuti esposti comunicano temi e sensazioni da cogliere solo dal lato della leggerezza o da quello sempre uguale a se stesso? Cosa c’è di nuovo aprendo la scatola di montaggio di un disco o mirando la personale versione di un CD che ricorda la copia di altri trascorsi e famosi?

A distanza di 50 anni, dopo aver ingollato a ettolitri Led Zeppelin, Deep Purple, Black Sabbath, Uriah Heep, Motorhead e tutta la miriade di perle oscure che son da essi derivate (fedeltà di attitudine e di genere) accrescendone la leggenda e rafforzandola nelle decadi, si incappa però nella mancanza di sorpresa che soffre pesantemente del confronto, dell’anacronismo, della moda effimera che fa tendenza e mercato, dell’esperienza scaturita in nome di quella libertà di scelta che in fondo niente aggiunge e nulla toglie al già detto. Perché giunta ormai fuori tempo massimo e accomodata da un restyling.

Sarebbe opportuno ricordare che l’ascolto onnivoro della musica può certo raggiungere livelli maniacali fattivi e da ricovero, eppure passibili d’aprire il ventaglio uditivo nel senso di ampia tolleranza di generi, e questo va bene ed ancora meglio calzerà alle generazioni nate sotto lo scettro dello sharing e della youtube/spotify music: il sogno di possedere il patrimonio mondiale musicale a portata di click e ‘gratis’.

Ma allora da quel calderone ‘cloud’ illimitato, che comprende i più disparati generi, dovrebbe uscirne fuori una cosmic music che inabissi le esperienze passate di Brian Eno, di Miles Davis, di Frank Zappa, Sun Ra, Coltrane, che fulmini i The Doors, che distrugga i Rolling Stones facendoli apparire come Gli Antenati della Hanna & Barbera, che ridicolizzi i Depeche Mode, la techno, la dancing music e le colonne sonore tutte, e che si distanzi totalmente dai vecchi schemi risplendendo di un nuovo sentire che deve per forza conciliarsi con un risveglio attivo e controtendenza delle coscienze avverso le componenti esterne – sociali, politiche, di costume, di sviluppo e reazionarie – piombanti l’anima dell’artista, capace di suggerire il compimento di un atto trasgressivo reale (concreto e diversificato, non solo composto di note e pentagramma) che innalzi l’ascoltatore e/o il musicista.

Cosicché la conseguente rottura di questi schemi, la creazione e il rinnovamento artistico, potranno avvenire solamente sperimentando un nuovo mondo che ne attesti e decanti il sogno e la speranza di essere quello giusto, messo in pratica sul campo compiendo determinate azioni susseguenti alla formazione di idee e sentimenti che abbiano un valore estrinseco deflagrante da cui iniziare una nuova vita. Altrimenti, il nulla sarà dietro l’angolo. Avremmo giusto buoni professorini, una governance di tecno-burocrati della musica che hanno imparato bene la lezioncina e che in sostanza sanno fare bene i DJ, o scimmiottare diligentemente i loro predecessori artisti epocali strimpellando, o virtuosisticamente incantando, una tastiera, una chitarra, un bongo e un pc. Così come un po’ fanno anche i critici musicali.

Che convenga puntare le nostre scommesse sulla trap music?

 

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