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Rileggiamoli

Leggendo la recensione di un libro, spesso si ha la sensazione che il recensore s’impegni più a dissezionare l’opera solo per il gusto di sfoggiare la propria cultura che non nel provare ad avvicinare il potenziale lettore al testo, oppure, che l’opera segnalata sia frutto di un giornalismo succube di mera informazione pubblicitaria. In queste recensioni sono i libri stessi a raccontarsi, e lo fanno con le sole parole in loro possesso, quelle stampate.

Grazie agli estratti dalle loro opere ci avvicineremo ad autori di tutto il mondo e di ogni epoca. Sono recensioni adatte a tanti usi, più o meno ortodossi: dar sfoggio di cultura, scegliere che cosa leggere davvero, trovare una mano per i compiti a scuola… ma anche una guida formidabile per librai e bibliotecari.

#Rileggiamo: Che ci faccio qui? di Bruce Chatwin

Che Ci Faccio Qui? Di Bruce Chatwin

“Che ci faccio qui?” è il libro in cui Chatwin raccolse, negli ultimi mesi primi della morte (1989), quei pezzi dispersi della sua opera che avevano segnato altrettante tappe di una sola avventura, di tutta una vita intesa come “un viaggio da fare a piedi”.

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Sull’oceano Di Edmondo De Amicis

Sull’oceano Di Edmondo De Amicis: prendendo le mosse dal viaggio Genova-Buenos Aires compiuto nel 1884 a bordo del piroscafo Nord-America (ribattezzato Galileo nel romanzo), Edmondo De Amicis descrive in questo libro la miseria e la tenacia del popolo dei migranti, costretti dalla fame ad abbandonare la terra natale.

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La donna abitata di Gioconda Belli

La Donna Abitata Di Gioconda Belli

“La donna abitata” è il romanzo della rivoluzione sandinista, scritto da chi ha partecipato attivamente alla lotta del Fronte sandinista contro la dittatura di Somoza, da colei che, oggi, è probabilmente la più nota scrittrice del Nicaragua.

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L’uomo invisibile di Herbert George Wells

L’uomo Invisibile Di Herbert George Wells

“L’uomo invisibile” – scritto nel 1881 e pubblicato per la prima volta nel 1897 – è un romanzo che narra le vicende di Griffin, un promettente fisico del XIX secolo che sviluppa un procedimento per rendere invisibile qualsiasi oggetto, e che lo sperimenta su se stesso.

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Sala 8 di Mauricio Rosencof

Sala 8 Di Mauricio Rosencof

“Sala 8” di Mauricio Rosencof, edito da Nova Delphi Nella Sala 8 dell’ospedale militare arrivano i prigionieri ridotti in fin di vita, per essere rimessi in sesto e di nuovo rimandati nella sala delle torture, oppure alla “soluzione finale”: un luogo senza possibilità di futuro, dove il tempo è fermo e il destino già deciso. La voce narrante è quella di un desaparecido che si muove proprio in questo spazio spettrale raccontandoci la terribile condizione delle vittime dell’ultima dittatura militare uruguaiana, private della loro stessa umanità da un regime deciso ad annientare ogni traccia, come se non fossero mai esistite. Potrete leggere passaggi come questi: • Omero aveva immaginato un atto di crudeltà. E lo era. Achille, dopo aver ucciso Ettore, volle trascinare il suo corpo davanti alle mura di Troia dove i suoi genitori, sconsolati, piangevano il valoroso guerriero, sangue del loro sangue. Ma l’ira di Achille, che aveva provocato anche la morte del suo amico Patroclo, ebbe un tempo, un limite. Diciamo un limite etico perché, alla fine, il corpo di Ettore era stato restituito alla famiglia per il rito funebre e l’ultimo addio. Omero non avrebbe mai concepito che Achille, il suo Achille, potesse spingere oltre la sua crudeltà. Per esempio, facendo sparire il cadavere di Ettore, buttandolo giù da un aereo, o cose del genere, con l’intento di far soffrire Priamo ed Ecuba in eterno, alla ricerca dei resti del figlio. No, non poteva immaginarlo, perché anche i guerrieri hanno una morale, un’etica, e una dose di umanità che abbiamo tutti, chi più, chi meno. Dunque, perché cazzo non sto con mia madre? • Possa mia madre riavermi perché io sia, perché sia qualcosa. Che dia riposo a quanto resta di me e che giace su di una barella, accanto ad altri anch’essi adagiati su barelle di ferro, nella stanza in cui raffreddano le birre. Vorrei sentirle dire: “Figlio, figlio mio.” E che le mie ossa le sussurrassero, scricchiolando: “Mamma.” E’ quanto manca per completare il mio essere. Amen. • (…) “compagno” (…) etimologicamente significa “colui con cui si condivide il pane.” • Gli conficcarono un manganello nel culo, fino al manico, dopo una tortura di quelle pesanti, chiedendogli: “Ti è piaciuto, negro? (…) Te lo muovo?” Ma a quel punto squillò la tromba del rancio, e avevamo fame. “Andiamo” disse uno. “Lo lasciamo così?” chiese l’altro. “Tiralo fuori, ne sentirà la mancanza. Dai, presto, si fredda la polenta.” Tolsero il manganello di scatto, si creò un vuoto e insieme al bastone estrassero venti centimetri di intestino. Una fatica staccare le viscere dal manganello ma alla fine ce la fecero. • Da qualche parte mi butteranno, fossa, forno, fondale marino, vattelappesca. “Cercami in giro, mamma. Cercami in giro.” • Era un uomo semplice, grigio, credente. Ma non in una religione qualunque. Faceva parte di una di quelle congregazioni che dispensavano perle di saggezza: “Dio è amore”, “smetti di soffrire”, il che non dipende né da te né da Dio. Dipende dal prossimo. Attenzione. • Conosco molte storie sulla mia vita come pane. Sono stato condiviso, tagliato, sminuzzato, mi hanno messo il nastro da pacchi sugli occhi, tre giri di nastro, mi hanno legato col fil di ferro, quieto, duro, mi hanno dovuto togliere dal bidone perché, a mollo, la mollica diventava poltiglia e si afflosciavano i giri di fil di ferro. (…) Mi hanno spezzato il cantuccio con le tenaglie, mi hanno lasciato senza crosta, mi hanno ridotto in briciole. Poi le hanno spazzate e, di sicuro, le hanno buttate sulla piazza d’armi dove immagino che passerotti e piccioni abbiano fagocitato i miei resti. Quello che è rimasto è andato a finire nella Sala 8. • Non c’è niente di peggio della sete: senti una fitta al petto, hai la gola secca, ti fanno male i reni. Non si salvano neanche le unghie. Mi avevano tenuto senza “acca due o” per pura ripicca, perché una volta non ero riuscito a trattenermi e avevo lasciato andare il fiotto, bagnando (…) il mio materasso. Ma esagerarono. Persi volume, le mie ossa erano diventate friabili come grissini, e non avendo più saliva in bocca non potevo rispondere “sissignore” e, per questo, mi colpivano rompendomi le ossa. • (…) non c’è guardiano che controlli i sogni. • Sul cancello del campo di sterminio di Auschwitz c’è una scritta in ferro battuto: “Il lavoro rende liberi.” Chi ha inventato quel motto? Un filosofo? Un’agenzia di pubblicità? O è una frase per arringare le folle sulle barricate? Chi può dirlo! Ma certo chi l’ha ideato aveva un certo talento. Era un uomo pensante. E un grande figlio di puttana. • Il radio-romanzo suscitava illusioni, creava sogni, accendeva fantasie. Riusciva a consolare. Ti faceva sentire parte di un mondo, ragazzo. Un mondo. È proprio questo che ora ci manca. • I ricordi sono come le fiamme dei cerini. (…) amico mio, non esiste nessun ricordo, nessuna fiamma di cerino che, per quanto resista, non si spenga, sia pur lentamente. Cos’altro aggiungere? Dirigente del Movimento di Liberazione Nazionale uruguayano (movimento Tupamaros), l’autore di questo libro viene fatto prigioniero nel 1972 e, a partire dal settembre 1973, tenuto in isolamento per undici anni, ostaggio della dittatura militare; Rosencof verrà liberato solo dopo tredici anni di prigionia, nel 1985. Marco Sommariva

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Germinal di Emile Zola

Germinal Di Emile Zola

Quando nel 1885 fu pubblicato Germinal, Zola venne accusato di calunniare i minatori, protagonisti di questo romanzo.

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“Tropico del Cancro” di Henry Miller

“tropico Del Cancro” Di Henry Miller

Cos’altro aggiungere? Ha detto George Orwell: “Quando il romanzo di Henry Miller Tropico del Cancro apparve, ebbe un’accoglienza solo cautamente laudativa, ovviamente condizionata in alcuni dal timore d’apparire amanti della pornografia.

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Luis Sepulveda

La Frontiera Scomparsa Di Luis Sepulveda

LIBERI di LEGGERE “La frontiera scomparsa” di Luis Sepulveda, edito da Guanda In America Latina è scomparsa una frontiera che portava nei territori della felicità, sono giunti tempi terribili e la strada è diventata un labirinto senza uscita. Ma un giovane che ha conosciuto il carcere, la tortura e l’esilio, continua a cercare quella frontiera. Libro di formazione di Sepulveda, del ‘94. Potrete leggere passaggi come questi: • Mio nonno. Un personaggio insolito e terribile. (…) Camminavamo per Santiago una mattina d’estate. Il vecchio mi aveva già offerto almeno sei gassose, altrettanti gelati si erano ben liquefatti nella mia pancia, e sapevo che aspettava di essere avvisato del mio bisogno di urinare. Forse si preoccupò davvero dei miei reni quando mi chiese: “Be’? Non vuoi pisciare? Accidenti, bambino mio. Con tutto quello che hai bevuto…” La mia risposta normale, quella solita, avrebbe dovuto suonare drammaticamente affermativa, con le gambe ben strette a sottolineare le parole. Allora lui, togliendosi di bocca il mozzicone di sigaro che gli penzolava sempre dalle labbra, avrebbe sospirato per poi esclamare nel più didattico dei toni: “Aspetta, bambino mio. Aspetta e tieni duro finché non troviamo la chiesa adatta”. Ma quella mattina avevo deciso di farmela addosso, se necessario, piuttosto che subire di nuovo gli insulti di qualche prete. La gag di gonfiarmi di gelati e gassose per poi farmi urinare sulle porte delle chiese la ripetevamo fin dal giorno in cui avevo imparato a camminare e il vecchio mi aveva trasformato nel suo compagno di scorribande, piccolo complice delle sue bricconate di anarchico in pensione. Su quante porte di chiesa avrò pisciato… Quanti preti e beghine mi avranno coperto di improperi… • La domenica precedente mi ero alleggerito la vescica contro la porta centenaria della chiesa di San Marcos. Non era la prima volta che le vetuste assi mi servivano da vespasiano, ma quel giorno evidentemente il prete era all’erta, perché mi sorprese nel momento migliore della pisciata, quando ormai è impossibile trattenere il getto, e tirandomi per un braccio mi obbligò a girarmi verso il nonno. Poi, indicando il mio pisello zampillante con un dito profetico, il prete sbraitò: “Si vede che è tuo nipote! Si nota la piccolezza della vostra razza!” Che domenica. Finii la pisciata sugli scalini della chiesa, guardando atterrito mio nonno che scaraventava via la giacca, si tirava su le maniche della camicia e sfidava il prete a cazzotti, duello che fortunatamente fu evitato dai chierichetti e dai baciapile del coro, perché anche il prete rispose alla sfida rimboccandosi le maniche della tonaca. Che domenica. • Mio nonno. Ricordo la prima volta che lo obbligai a leggere una copia di “Gente Joven”, la rivista dei giovani comunisti. Lesse attentamente tutte e quattro le pagine, e concluse che, pur essendo pubblicata da un gruppuscolo di accoliti del potere stalinista, non era male come primo passo verso la comprensione del vero ordine: “Non quello che impone lo stato, cazzo, ma quello naturale, quello che nasce dalla fratellanza tra gli uomini”. • La stanza degli interrogatori era preceduta da una sala d’aspetto, come un ambulatorio medico. Lì ci facevano sedere su una panca con le mani legate dietro la schiena e un cappuccio nero in testa. Non ho mai capito la ragione del cappuccio, perché una volta dentro ce lo toglievano e potevamo vedere chi ci interrogava, i soldatini che con espressione di panico giravano la manovella del generatore elettrico, gli infermieri che ci applicavano gli elettrodi all’ano, ai testicoli, alle gengive, alla lingua, e poi ci auscultavano per decidere chi fingeva e chi era davvero svenuto sulla “griglia”. Quel giorno il primo a essere interrogato fu Lagos, un diacono degli straccivendoli di Emmaus. Da un anno lo tartassavano chiedendogli la provenienza di una dozzina di vecchie uniformi militari trovate nei magazzini degli straccivendoli. Erano una donazione di un commerciante che vendeva residuati militari. Lagos urlava per il dolore e continuava a ripetere tutto quello che la soldatesca voleva sentire: quelle uniformi appartenevano a un esercito invasore che si apprestava a sbarcare sulle coste cilene. • Il pedicure era un civile, un latifondista a cui la riforma agraria aveva espropriato varie migliaia di ettari, che si vendicava partecipando come volontario agli interrogatori. La sua specialità era sollevare le unghie dei piedi, il che provocava terribili infezioni. • (…) venne il golpe militare e il resto è storia nota. (…) Di Alicia e di Juanjo, per quanto indagassi, non riuscii mai a sapere nulla, neppure se erano ancora vivi. Così quella sera d’agosto del 1977, camminando per Montevideo, continuavo a pensare a loro. Erano tempi duri quelli. Montevideo era ed è una città che amo. Ho avuto molti amici laggiù, ma nel 1977 era meglio non avvicinarsi ad alcuna casa per chiedere notizie. La paura inondava tutto. E nella paura si annida il sinistro uccello della delazione. • (…) mi aprì Juanjo, più vecchio, più robusto, con qualche capello bianco, ma col suo impeccabile sorriso di bel tipo. (…) Mentre prendevamo un mate mi raccontò in fretta che lui e Alicia avevano passato sei mesi nello Stadio Nazionale di Santiago, un campo sportivo che la dittatura aveva trasformato in campo di concentramento, che da lì se ne erano andati a Panama, e che poi erano tornati in Uruguay per continuare la lotta contro la dittatura. • Accanto al vecchio c’era un tavolo, e su di esso un bicchiere d’acqua e delle zollette di zucchero. Cercai sulle mattonelle una testimonianza della mia infanzia, ed era lì, in due o tre gruppi di mosche schiacciate e seccate al sole. Mio nonno ammazzava il tempo nello stesso modo: si infilava in bocca un po’ di zucchero, lo inumidiva con un sorso d’acqua, e subito sputava il miscuglio. Poi metteva un piede leggermente sollevato su quella dolce trappola e aspettava che arrivassero le mosche. E allora, ciaf. “Ma Geraldo! Come puoi essere così cattivo?” lo rimproverava la nonna. “E’ un favore che faccio all’umanità. Se queste bestiacce si evolvono, diventano o preti o militari”, rispondeva il nonno. • Uno è di dove si sente meglio. Marco Sommariva

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