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Rileggiamoli

Leggendo la recensione di un libro, spesso si ha la sensazione che il recensore s’impegni più a dissezionare l’opera solo per il gusto di sfoggiare la propria cultura che non nel provare ad avvicinare il potenziale lettore al testo, oppure, che l’opera segnalata sia frutto di un giornalismo succube di mera informazione pubblicitaria. In queste recensioni sono i libri stessi a raccontarsi, e lo fanno con le sole parole in loro possesso, quelle stampate.

Grazie agli estratti dalle loro opere ci avvicineremo ad autori di tutto il mondo e di ogni epoca. Sono recensioni adatte a tanti usi, più o meno ortodossi: dar sfoggio di cultura, scegliere che cosa leggere davvero, trovare una mano per i compiti a scuola… ma anche una guida formidabile per librai e bibliotecari.

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One Big Union Di Valerio Evangelisti

LIBERI di LEGGERE   “One Big Union” di Valerio Evangelisti, edito da Mondadori   Robert Coates è un giovane meccanico americano, religioso, affezionato alla famiglia, con pregiudizi razziali e un patriottismo che sconfina nel nazionalismo. Per conto di agenzie investigative come la Pinkerton e la Burns (da cui nascerà l’FBI) – agenzie pagate da industriali e grandi proprietari – Bob s’infiltrerà nei sindacati col fine di combattere gli scioperi e riportare la disciplina fra i lavoratori. Attraverso le sue vicissitudini, seguiremo i grandi scioperi dei ferrovieri di fine Ottocento sino all’epopea, nei primi vent’anni del Novecento, dell’Industrial Workers of the World, l’organizzazione che cercò di unificare gli operai precari e non specializzati di tutte le etnie, usando armi inedite quali i volantini multilingue, la canzone e il fumetto.   Potrete leggere passaggi come questi:   La classe operaia è ai limiti della sopravvivenza. Un capitalista non può decidere di impoverirla ancora solo perché in un certo momento le sue speculazioni smettono di rendere come prima. (…) dovremmo essere noi a pagare la sua crisi? Che accordo ci può essere tra proletari e capitalisti? Tra sfruttati e sfruttatori? Da parte nostra è possibile una sola reazione: lo sciopero generale! (…) 4 maggio 1886. Quel giorno, in Haymarket Place, la polizia aveva ucciso alcuni manifestanti che reclamavano le otto ore quale tempo massimo di lavoro. Mentre la folla defluiva, una bomba aveva ucciso un agente. Erano stati arrestati otto anarchici a caso, nessuno dei quali presente al momento dell’esplosione. Un processo truffaldino ne aveva condannati cinque a essere impiccati; uno di loro si era tolto la vita in carcere. La sentenza era stata eseguita l’11 novembre 1887, malgrado un coro universale di proteste. Chiaramente si trattava di un monito contro chi cercava di alterare il sistema democratico americano, fondato sul censo. “Possiamo sparare?” chiese uno dei Pinkerton. Heinde fece una smorfia. “Certo che sì. Mentre smontate, fuoco a volontà. Siamo venuti a impartire una lezione memorabile a questa marmaglia. Che imparino a obbedire.” “Spariamo anche su donne e bambini?” “Soprattutto su loro. Padri e mariti capiranno che resistere non conviene… Forza, adesso. Basta chiacchiere. In fila lungo la passatoia. Toccato il suolo, correte e fate fuoco a casaccio.” (…) hai un’idea vaga di cosa sia la democrazia… In sostanza una catena di interessi. Il padrone peggiore è quello che si dice vostro amico. Che parla di comune interesse, di crescita collettiva, di collaborazione per il bene nazionale. È la fandonia più spudorata della storia. “Un beneficio per l’industria è un beneficio per tutti.” Balla madornale. Se udite qualcuno dire questo, prendetelo per ciò che è: un dannato bugiardo. Il contenuto degli articoli era fantasioso tanto quanto lo strillo. Cospirazioni, sbarchi notturni di terroristi di professione, manipolazione di dinamite in cantine ammuffite. Bob ne sorrideva, e al tempo stesso era grato ai giornalisti. Facili da comprare, pronti a ogni menzogna, erano gli alleati più sicuri della gente come lui, fedele all’ordine costituito. Quanto più la bugia era colossale, tanto più faceva presa. Se non fosse stato un agente infiltrato fra i sovversivi, e se avesse saputo scrivere, avrebbe fatto il giornalista. Un modo come un altro di servire la patria. Siamo usciti dalla crisi della fine degli anni Novanta. Stiamo entrando in un periodo di prosperità. C’è lavoro, si produce, la ricchezza aumenta. I poveri non sono più per strada a fare lavori inutili, disposti da sindaci e governatori troppo buoni. E chi ti salta fuori? Il rompicoglioni di sempre. Il sindacalista, il socialista, l’anarchico. La chiamavano Mamma Jones. Una fanatica utopista. Contrasta il lavoro minorile nelle miniere. Non pensa che, senza l’uso dei bambini, la nostra industria estrattiva andrebbe in malora. Nei cunicoli servono corpi piccoli. Pareva (…) che l’estrema sinistra fosse eternamente impegnata a dibattere su sfumature. Partecipare al voto o no, privilegiare l’organizzazione operaia o valorizzarne la spontaneità. Mentre il capitale era rapido a coagularsi, l’antagonismo si perdeva in differenziazioni di dubbia rilevanza. Fratelli (…) hanno cercato di persuadervi che il capitalismo sia inevitabile, che la disoccupazione che flagella il paese sia una catastrofe naturale. Ebbene, vi dico che non è così. La crisi non cade dal cielo: alla base ha il vostro sfruttamento oltre il lecito e l’avidità di sfruttatori che campano del lavoro altrui. In questo stesso momento, i ristoranti di lusso di Chicago, di Saint Louis e di New York sono pieni, e voi lo sapete. Parassiti oziosi consumano bottiglie di vino francese al fresco in secchielli pieni di ghiaccio. Tagliano la faraona e il vitello arrosto. Sono gli stessi che parlano di crisi. I politicanti e i giornalisti al loro servizio invocano la solidarietà nazionale. Tuttavia una forza giovane e vigorosa è nata per ribaltare il quadro, per unire gli sfruttati senza distinzione in una lotta comune. Sono i fottuti Industrial Workers of the World! A volte una chitarra conta più di un fottuto fucile. La stampa risponde a chi la possiede. Puoi trovare, occasionalmente, un giornalista onesto, che esprimerà le sue critiche in termini velati. In rubriche secondarie, ben nascoste. Quelli di prima pagina sono puttane.   Se avete letto i passaggi riportati sopra, ve ne sarete già accorti: in questo libro si narra qualcosa successo oltre cent’anni fa per parlare del presente, c’è la conferma che la storia si ripete sempre uguale a ogni latitudine e che il capitalismo – anche quello delle origini – non ha mai avuto alcunché d’illuminato.   Marco Sommariva    

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“Il popolo degli abissi” di Jack London

“il Popolo Degli Abissi” Di Jack London

LIBERI di LEGGERE  “Il popolo degli abissi” di Jack London, edito da Robin  Mentre altri autori suoi contemporanei si limitavano a cantare ciecamente le glorie dell’impero Britannico, allora giunto al suo massimo fulgore, London, travestitosi da marinaio, si addentrò, nel 1902, nell’East End della capitale britannica, e si calò completamente nella più disastrata delle realtà sociali: dormì nelle baracche, frequentò prostitute, poveri, ogni genere di umanità rifiutato dalla città “alta”. L’opera dimenticata del grande scrittore americano, un vero e proprio trattato sociologico. Potrete leggere passaggi come questi:   L’americano che viaggia in Europa, se non è ricco sfondato, si trova presto ridotto in una condizione cronica di consapevole abiezione dalle orde di ladri servili che gli stanno tra i piedi dalla mattina alla sera, e gli svuotano il portafogli con una velocità che farebbe arrossire le banche più voraci. (…) visto che gli uomini imprecano, preferisco la bestemmia all’indecenza: è più audace e avventurosa, e possiede un senso di sfida che manca all’oscenità nuda e cruda. Il mondo funziona così: chi dà da mangiare a un altro uomo diventa il suo padrone. Un proverbio cinese dice che se un uomo vive nell’ozio un altro muore di fame. Montesquieu ha scritto: “Il fatto che molti uomini lavorino per produrre vestiti per un solo individuo è la causa per cui molti sono privi di vestiti”. In una società decisamente materialistica e fondata sulla proprietà, non sull’anima, è inevitabile che la proprietà sia più pregiata dell’anima e che i crimini contro la proprietà siano considerati molto più gravi dei crimini contro la persona. Lo sfruttamento, i salari da fame, i disoccupati, la massa di persone senza casa né riparo sono inevitabili quando ci sono più uomini che vogliono lavorare che non lavori da fare. In ogni ramo dell’industria i meno efficienti vengono tagliati fuori. Essendo stati tagliati fuori per la loro inefficienza, non possono più risalire ma devono continuare a scendere finché non raggiungono un livello adatto a loro, un posto nella struttura industriale in cui risultano efficienti. Ne consegue in modo inesorabile che i meno efficienti devono scendere più in basso, fino al mattatoio in cui muoiono come bestie. L’uomo è spesso ingiusto verso l’uomo. E lo è sempre verso la donna. Un posto dove non vorremmo che le nostre mogli passassero la vita è un posto dove non dovrebbe passare la vita la moglie di nessuno. Quello che non va bene per te non va bene per gli altri, non c’è nulla da aggiungere. Un soldato, ha detto Bernard Shaw, è “in apparenza un eroico e patriottico difensore del suo paese, ma in realtà un disgraziato costretto dalla miseria a offrirsi come carne da cannone in cambio di un rancio regolare, un riparo e qualche vestito”. Gli uomini dipendono economicamente dai loro padroni e le loro donne dipendono economicamente dagli uomini; il risultato è che la donna si busca le botte che l’uomo dovrebbe riservare invece al padrone, e non può farci nulla. La legge è una menzogna, e gli uomini la usano per mentire nel modo più spudorato. Per esempio, una donna disgraziata, abbandonata, rifiutata da amici e parenti, avvelena se stessa e il suo bambino con del laudano. Il bambino muore, ma lei dopo qualche settimana all’ospedale se la cava, viene accusata di omicidio, imprigionata e condannata a dieci anni. Poiché è sopravvissuta, la legge la ritiene responsabile delle sue azioni; se fosse morta, la stessa legge avrebbe emesso un verdetto di temporanea insanità mentale. A Londra la strage degli innocenti ha assunto proporzioni sbalorditive che non hanno precedenti nella storia. E altrettanto sbalorditiva è l’insensibilità della gente che crede in Cristo, ringrazia il Signore e va in chiesa la domenica. Nel resto della settimana gozzoviglia con le rendite e i profitti che le giungono dall’East End macchiati dal sangue dei bambini. Ed è gente talmente bizzarra che ogni tanto prende da questi profitti mezzo milione e lo devolve all’educazione dei bambini neri del Sudan. Quando un figlio muore – e capita, visto che il cinquantacinque per cento dei bambini dell’East End non raggiunge i cinque anni – il corpo resta nella stanza. E se la famiglia è molto povera, viene tenuto lì fino al momento della sepoltura. Durante il giorno giace sul letto; nella notte, quando il letto è occupato dai vivi, il cadavere è disteso sul tavolo sul quale al mattino, dopo che il cadavere è stato rimesso sul letto, i vivi fanno colazione. A volte il corpo viene sistemato sullo scaffale che funge da dispensa. (…) fanno qualsiasi cosa per i poveri, tranne che smetterla di vivere alle loro spalle. Non ci si può sbagliare. La civiltà ha centuplicato le capacità produttive dell’uomo e, a causa della cattiva gestione, i suoi uomini vivono peggio delle bestie; hanno meno cibo, meno vestiti e meno calore di quanto non abbia, nel suo clima rigido, il selvaggio inuit, che vive oggi come viveva nell’età della pietra, diecimila anni fa.   Volete sapere qualcosa di più di questo libro? Ve lo faccio dire direttamente dall’autore: “Qualcuno ha detto che le mie critiche alla situazione inglese sono troppo pessimistiche. Devo ripetere, per l’ennesima volta, che io sono il più ottimista degli ottimisti. Ma valuto l’umanità più dal punto di vista degli individui che dei raggruppamenti politici. La società cresce, mentre i meccanismi politici cadono a pezzi e diventano ferri vecchi. Per quel che concerne umanità, salute, felicità, prevedo un lungo e radioso futuro per gli inglesi. Ma per gran parte dei meccanismi politici che oggi amministrano così male le loro vite, non vedo altra soluzione che il deposito dei rottami”. Marco Sommariva    

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Anatole France

“l’isola Dei Pinguini” Di Anatole France

LIBERI di LEGGERE   “L’isola dei pinguini” di Anatole France, edito da ISBN  “L’isola dei pinguini”, romanzo pubblicato nel 1908 e messo all’indice dalla Chiesa cattolica nel 1920, fu capace di far arrabbiare i bigotti e infuriare i borghesi. La storia è questa: siamo più o meno nell’anno mille e un vecchio monaco quasi cieco sbarca su un’isola bretone popolata di pinguini; scambiandoli per esseri umani, li battezza. Peccato che, dalla conversione in poi, i pinguini sviluppino avidità e invidia, prepotenza e conformismo, ambizioni e vergogna.   Potrete leggere passaggi come questi:   Coltivare la terra è una cosa, possederla è un’altra, e queste due cose non vanno confuse. In materia di proprietà, il diritto del primo arrivato è incerto e contestabile. Il diritto di conquista, invece, riposa su fondamenti solidi: è il solo rispettabile perché è il solo che si faccia rispettare. La proprietà ha per unica e gloriosa origine la forza: essa nasce e si conserva con la forza, e non cede che a una forza più grande. I morti non hanno altra vita all’infuori di quella che i vivi attribuiscono loro. La vita di un popolo non è che un susseguirsi di miserie, crimini e follie. Sotto ogni regime vi sono dei malcontenti. La repubblica, o cosa pubblica, in un primo tempo ne creò molti fra i nobili spogliati degli antichi privilegi (…). Poi creò malcontenti anche tra i piccoli commercianti che, per complesse ragioni economiche, non riuscivano più a guadagnare a sufficienza e ne attribuivano la colpa allo Stato, da cui si allontanavano ogni giorno di più. I banchieri, sia cristiani che ebrei, divennero, per la loro insolenza e cupidigia, il flagello del paese, che spogliarono e avvilirono, nonché lo scandalo di un regime che non intendevano abolire né conservare, sicuri com’erano di poter agire indisturbati sotto qualsiasi governo. Tuttavia le loro simpatie andavano a un governo assoluto, considerato l’arma migliore contro i socialisti, loro avversari deboli ma ardenti. Il popolo è stanco di un governo che lo rovina e non fa nulla per lui. Ogni giorno scoppiano nuovi scandali. La repubblica annega nella vergogna. È ormai perduta. Le promesse costano meno dei doni e valgono molto di più. Non c’è dono al mondo che valga più della speranza. Precedute dal drappo nero della povertà e da quello rosso della rivolta, sfilarono le delegazioni operaie, truci e rassicuranti. In tutti gli Stati civili la ricchezza è cosa sacra; nelle democrazie è l’unica cosa sacra. (…) facilmente si crede ciò che si desidera (…). (…) la facoltà di dubitare è rara fra gli uomini: solo un numero molto limitato di intelletti ne porta in sé i germi, che non si sviluppano senza cultura. È una facoltà rara, raffinata, filosofica, immortale, trascendente, mostruosa, piena di malizia, pericolosa per le persone e le proprietà, ostile alla polizia degli stati e alla prosperità degli imperi, funesta per l’umanità, negatrice dei princìpi divini, disprezzata dal cielo e dalla Terra. Le testimonianze false valgono più di quelle vere, perché vengono create espressamente per le necessità della causa, su ordinazione e su misura, e quindi risultano esatte e particolareggiate. Sono preferibili perché trasportano le menti in un mondo ideale e le distraggono dalla realtà, che, in questo mondo, purtroppo, non è mai senza ombre… Le brigate nere della polizia ponevano fine alle risse calpestando imparzialmente i sostenitori dei due partiti sotto le suole chiodate. Separata dallo Stato che la sosteneva, la Chiesa di Pinguinia sfiorì come un fiore reciso. Il governo della repubblica restò sotto il controllo delle grandi società finanziarie, l’esercito fu consacrato esclusivamente alla difesa del capitale, la flotta serviva soltanto ad arricchire gli armatori; i ricchi rifiutavano di pagare la loro quota di imposte che i poveri, come per il passato, pagavano al posto loro. La Pinguinia (…) si vantava della propria ricchezza. Chi produceva beni indispensabili per vivere, non era ricco, mentre lo era abbondantemente chi non produceva nulla. (…) Il grande popolo pinguino non aveva più tradizioni né cultura né arte. I progressi della sua civiltà si manifestavano nell’industria bellica, in speculazioni infami, nel lusso smaccato. La sua capitale, come tutte le capitali del tempo, aveva un carattere cosmopolita e finanziario; il brutto vi regnava in modo sconfinato e regolare. Il paese godeva di una perfetta tranquillità. Era all’apogeo. (…) i miliardari si dedicavano alle austere attività bancarie e industriali. Molti di loro, non concedendosi alcuna gioia né piacere né riposo, conducevano una vita miserabile chiusi in una camera priva di aria e di luce, arredata soltanto da apparecchiature elettriche. Lì vivevano cibandosi di pane e latte e dormendo in una branda. Grazie al semplice sforzo richiesto per premere con il dito un pulsante di nichel, quei mistici ammassavano ricchezze di cui non conoscevano nemmeno l’entità e si assicuravano l’inutile possibilità di soddisfare desideri che non provavano mai. L’irregolarità della produzione, dovuta al regime capitalista, determinava una forte disoccupazione e in molti rami dell’industria, non appena veniva dichiarato uno sciopero, gli operai licenziati prendevano il posto degli scioperanti. La ricchezza è un mezzo per vivere felici, ma oggi è diventata l’unico scopo della vita. I giornalisti credevano a quello che scrivevano, e avevano il loro tornaconto. Un mattino, all’improvviso, un albero mostruoso, una palma fantasma alta tre chilometri, fu vista alzarsi dal gigantesco palazzo dei telegrafi, che venne distrutto in un colpo.   Cos’altro aggiungere? L’autore, chiaroveggente al pari di Orwell, muore nel 1924 all’età di ottant’anni, portandosi nella tomba le mutandine di Madame de Caillavet, moglie di un ministro e cara amica. Marco Sommariva

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Georges Simenon

“memorie Intime” Di Georges Simenon

LIBERI di LEGGERE:“Memorie intime” di Georges Simenon, edito da Adelphi  Nel 1981, uscendo da un silenzio che dura dal 1972, Georges Simenon pubblica quello che rimarrà il suo ultimo libro, “Memorie intime”: una sorta di lunga confessione dove giganteggia un unico protagonista: lo stesso Simenon. Questo “romanzo autobiografico” narra la vita dell’autore e della sua famiglia dagli anni Venti sino al suicidio della figlia Marie-Jo, avvenuto il 19 maggio 1978. Un libro che aiuta a comprendere l’intera opera dello scrittore belga.   Potrete leggere passaggi come questi:   (…) avevo adottato il cappello nero a larghe tese e la cravatta, pure nera, annodata a fiocco; inoltre, mi ero lasciato crescere i capelli, che allora avevo folti e ondulati. Non equivale forse, anche questo, a indossare un’uniforme, e proprio da parte mia, che ho una diffidenza istintiva per divise, medaglie, diplomi, titoli e onori? Per me le questioni razziali non sono un problema: le ignoro. (…) era un comunista convinto e militante, cosa che a me non dava alcun fastidio ma aveva impedito a lui di trovar lavoro (…). Non mi sarei vergognato di essere ebreo, come di essere negro, cinese o irochese; ma non era così (…). (…) ci si abitua presto alla guerra quando viene combattuta altrove. Anche adesso, mentre scrivo, si combattono guerre, sanguinose e spietate come lo sono tutte, e sono in atto rivoluzioni, e uomini vengono rinchiusi in campi di concentramento a causa delle loro idee o della loro razza, o del colore della pelle, o perché malauguratamente si trovavano in un certo posto al momento di un attentato dopo il quale le cosiddette “forze dell’ordine” hanno fermato a caso tutti quelli su cui sono riusciti a mettere le mani. Per non parlare poi delle torture, che fin dai tempi più remoti sono state inflitte, e ancora si infliggono, sempre in nome dell’“ordine”, in tutti i paesi del mondo. Per quanto mi riguarda, non mi sono sentito straniero da nessuna parte, nella Savana dell’Africa come nelle isole dei Mari del Sud, in Australia come nelle Indie. C’è un termine americano che definisce questo mio sentimento: to belong, “appartenere”. In qualunque paese americano, you have to belong, “devi appartenere”. Alla comunità. E io credo di appartenere non solo a un paese, a un continente, alla nostra piccola sfera terrestre, ma all’intero universo. (…) siamo venuti a sapere che gli inglesi avevano bombardato il porto di Nantes e, mancato il bersaglio, avevano distrutto il più grande emporio della città causando più di centocinquanta vittime. A ogni scontro aereo, entrambe le parti dichiaravano di aver abbattuto cento o duecento apparecchi nemici, limitandosi ad ammettere che cinque o sei aerei delle proprie squadriglie “non avevano fatto ritorno alla base”. (…) non avevo fatto che viaggiare, spinto dall’irresistibile bisogno di trovare finalmente l’uomo senza patria e di tutte le patrie, sicché avevo avuto via via un gran numero di “nidi” più o meno transitori. (…) non si sentivano molte voci allegre. Erano persone che tiravano avanti fra mille difficoltà, e in tutti c’era diffidenza, se non addirittura rancore. Avevano sofferto la fame, e avevano pensato che la fine della guerra avrebbe portato a tutti una vita nuova. Invece avevano visto i pezzi grossi arricchirsi grazie alla borsa nera e ai più vergognosi compromessi. Insomma, per alcuni le cose andavano a gonfie vele, c’erano opulenza, boria, arroganza, mentre i poveri continuavano a penare e a far la coda negli uffici per farsi vidimare le tessere annonarie. (…) stiamo per vederli, quegli indiani che fanno sognare milioni di bambini in tutto il mondo. (…) Poverissimi, lo sguardo spento, fanno la commedia a uso dei turisti, e un totem scolpito e colorato segna l’ingresso al “villaggio”. Lì indossano il tipico costume reso popolare dal cinema e dai fumetti e, accovacciati davanti alle loro tende, offrono ai visitatori piccoli oggetti fatti con le loro mani. (…) di lì a poco, quando i turisti se ne saranno andati, quegli indiani si toglieranno i vestiti con le frange, si metteranno dei blue-jeans e una camicia a quadri e si ritireranno nelle loro casette. Vaste distese di sabbia e, sulla sinistra, il mare increspato e un capo, il famoso Cape Cod dove sono sbarcati i Padri Pellegrini che hanno fondato gli Stati Uniti dopo aver sterminato la maggior parte degli indigeni. Di questi indiani si conservano qua e là, nelle riserve, alcuni esemplari, così come in Africa si tutelano certe specie animali in via di estinzione. I cinesi avevano (…) inventato la polvere da sparo prima che esistesse l’Impero romano, ma non se n’erano serviti per uccidere, bensì per fare i fuochi d’artificio (…). (…) a Miami Beach gli ebrei non sono ammessi negli alberghi e neppure sulle spiagge. Sto parlando del 1946, quando anche ai neri del Sud era vietato l’ingresso nei ristoranti, negli alberghi, nei cinema e perfino nella parte degli autobus e dei tram riservata ai bianchi. Il potentissimo Ku Klux Klan nutriva lo stesso odio profondo per gli ebrei, i neri, i cattolici e, in generale, per tutti gli stranieri, compresi gli americani del Nord. A volte, durante le nostre escursioni a cavallo, scoprivamo un fuoco spento ancora fumante; gli Apache non erano lontani, quelle erano le tracce di un accampamento, ma non sono mai riuscito a trovarmi faccia a faccia con uno di quei guerrieri un tempo fieri e temibili, traditi ignominiosamente dai bianchi. (…) io credo solo nell’uomo, quale che sia, e non ho mai ammesso la superiorità di un individuo sull’altro in base alla classe sociale nella quale è stato artificiosamente collocato. (…) non ho mai creduto nel matrimonio, e ho ripetuto spesso, anche più tardi alla televisione, che era pazzesco, per gente di venti o venticinque anni, e anche per coppie più mature, giurare davanti a un sindaco, a uno sceriffo o a un curato, di amarsi per tutta la vita. Come conoscere in anticipo l’evoluzione di ciascuno? Vent’anni più tardi, con la progressiva trasformazione delle cellule, quell’uomo e quella donna saranno diversi, e si troveranno l’uno di fronte all’altro incatenati da un giuramento fatto tanto tempo prima. Siamo andati a vedere una clinica ginecologica di cui ci avevano parlato molto bene. Dicevano fosse la migliore. (…) era un convento (…). Mentre l’addetta alla reception continuava a rassicurare un marito ansioso, abbiamo letto un cartello incorniciato di nero: si avvertivano le partorienti che, in caso di gravi complicanze, la vita del bambino avrebbe avuto la priorità su quella della madre. Così avevano deciso il primario e la superiora. Un brivido ci è corso per la schiena e siamo usciti in punta di piedi. Non restava che l’ospedale di Tucson (…) qui non vi era traccia di monache, crocifissi e statuette della Vergine. (…) per fortuna posso anche rifugiarmi nei miei romanzi! (…) nei suoi film Chaplin si è sempre schierato dalla parte del “piccolo uomo” caro al mio cuore. Faccio la conoscenza di Fellini e di sua moglie, la deliziosa Giulietta. Spesso torniamo in albergo insieme, mentre lei, con molta discrezione, si tiene in disparte. M’interessa molto, quell’omone massiccio, dalle spalle larghe, che è al tempo stesso semplice, sincero e tormentato. Quello che non vi ho insegnato sono le “buone maniere”: dire “Buongiorno signora”, “Grazie signore” o dare la mano come si deve e come hanno insegnato a me. E me l’hanno insegnato così bene che ancor oggi, a quasi settantotto anni, quando qualcuno mi urta per strada sono io a dire automaticamente “scusi”. Avete imparato da soli, liberamente, quello che dovevate imparare, perfino a servirvi della coppetta sciacquadita, aggeggio di cui io, a sedici anni, ignoravo l’uso. Nessuno di voi è diventato un teppista, un emarginato, e neppure l’anarchico non violento che io sono rimasto per tutta la vita. Quella sera, io e Jean (Renoir) andiamo a cena da Charlie e Oona Chaplin, una cena intima, a quattro. (…) Un gran fuoco nel camino, un’atmosfera affettuosa, rilassata, un Chaplin straordinario che, dopo cena, ci racconta, ci mima, ci recita letteralmente il film di cui ha cominciato a scrivere la sceneggiatura e che lui “vive” davanti a noi. Seduta al suo fianco sul grande divano, Oona sorride come sempre con infinito amore, dolcezza, e, oserei aggiungere, indulgenza per quel genio di suo marito. Una magnifica serata che scalda il cuore e che evocheremo spesso io e quell’altro genio che è Renoir. La “buona educazione” genera spesso dei ribelli, come è stato per me, che continuo a sentirmi a disagio in una società in cui le “buone maniere” non impediscono una condotta “vergognosa” che non si pensa a correggere, ma solo a nascondere. (…) mi rimetto a dettare, così, per il mio piacere, per esprimere finalmente in piena libertà tutte le idee che erano latenti nei miei romanzi e per enunciarle in modo chiaro, cosa che mi varrà l’ostilità della grande borghesia e, a maggior ragione, di quella di destra e di estrema destra. (Marie-Jo) Seduta sul bracciolo di una poltrona, di fronte a me, canta accompagnandosi con la chitarra (…) Le plat pays di Brel, che lei interpreta, secondo me,

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