LIBERI di LEGGERE:“Memorie intime” di Georges Simenon, edito da Adelphi Nel 1981, uscendo da un silenzio che dura dal 1972, Georges Simenon pubblica quello che rimarrà il suo ultimo libro, “Memorie intime”: una sorta di lunga confessione dove giganteggia un unico protagonista: lo stesso Simenon. Questo “romanzo autobiografico” narra la vita dell’autore e della sua famiglia dagli anni Venti sino al suicidio della figlia Marie-Jo, avvenuto il 19 maggio 1978. Un libro che aiuta a comprendere l’intera opera dello scrittore belga. Potrete leggere passaggi come questi: (…) avevo adottato il cappello nero a larghe tese e la cravatta, pure nera, annodata a fiocco; inoltre, mi ero lasciato crescere i capelli, che allora avevo folti e ondulati. Non equivale forse, anche questo, a indossare un’uniforme, e proprio da parte mia, che ho una diffidenza istintiva per divise, medaglie, diplomi, titoli e onori? Per me le questioni razziali non sono un problema: le ignoro. (…) era un comunista convinto e militante, cosa che a me non dava alcun fastidio ma aveva impedito a lui di trovar lavoro (…). Non mi sarei vergognato di essere ebreo, come di essere negro, cinese o irochese; ma non era così (…). (…) ci si abitua presto alla guerra quando viene combattuta altrove. Anche adesso, mentre scrivo, si combattono guerre, sanguinose e spietate come lo sono tutte, e sono in atto rivoluzioni, e uomini vengono rinchiusi in campi di concentramento a causa delle loro idee o della loro razza, o del colore della pelle, o perché malauguratamente si trovavano in un certo posto al momento di un attentato dopo il quale le cosiddette “forze dell’ordine” hanno fermato a caso tutti quelli su cui sono riusciti a mettere le mani. Per non parlare poi delle torture, che fin dai tempi più remoti sono state inflitte, e ancora si infliggono, sempre in nome dell’“ordine”, in tutti i paesi del mondo. Per quanto mi riguarda, non mi sono sentito straniero da nessuna parte, nella Savana dell’Africa come nelle isole dei Mari del Sud, in Australia come nelle Indie. C’è un termine americano che definisce questo mio sentimento: to belong, “appartenere”. In qualunque paese americano, you have to belong, “devi appartenere”. Alla comunità. E io credo di appartenere non solo a un paese, a un continente, alla nostra piccola sfera terrestre, ma all’intero universo. (…) siamo venuti a sapere che gli inglesi avevano bombardato il porto di Nantes e, mancato il bersaglio, avevano distrutto il più grande emporio della città causando più di centocinquanta vittime. A ogni scontro aereo, entrambe le parti dichiaravano di aver abbattuto cento o duecento apparecchi nemici, limitandosi ad ammettere che cinque o sei aerei delle proprie squadriglie “non avevano fatto ritorno alla base”. (…) non avevo fatto che viaggiare, spinto dall’irresistibile bisogno di trovare finalmente l’uomo senza patria e di tutte le patrie, sicché avevo avuto via via un gran numero di “nidi” più o meno transitori. (…) non si sentivano molte voci allegre. Erano persone che tiravano avanti fra mille difficoltà, e in tutti c’era diffidenza, se non addirittura rancore. Avevano sofferto la fame, e avevano pensato che la fine della guerra avrebbe portato a tutti una vita nuova. Invece avevano visto i pezzi grossi arricchirsi grazie alla borsa nera e ai più vergognosi compromessi. Insomma, per alcuni le cose andavano a gonfie vele, c’erano opulenza, boria, arroganza, mentre i poveri continuavano a penare e a far la coda negli uffici per farsi vidimare le tessere annonarie. (…) stiamo per vederli, quegli indiani che fanno sognare milioni di bambini in tutto il mondo. (…) Poverissimi, lo sguardo spento, fanno la commedia a uso dei turisti, e un totem scolpito e colorato segna l’ingresso al “villaggio”. Lì indossano il tipico costume reso popolare dal cinema e dai fumetti e, accovacciati davanti alle loro tende, offrono ai visitatori piccoli oggetti fatti con le loro mani. (…) di lì a poco, quando i turisti se ne saranno andati, quegli indiani si toglieranno i vestiti con le frange, si metteranno dei blue-jeans e una camicia a quadri e si ritireranno nelle loro casette. Vaste distese di sabbia e, sulla sinistra, il mare increspato e un capo, il famoso Cape Cod dove sono sbarcati i Padri Pellegrini che hanno fondato gli Stati Uniti dopo aver sterminato la maggior parte degli indigeni. Di questi indiani si conservano qua e là, nelle riserve, alcuni esemplari, così come in Africa si tutelano certe specie animali in via di estinzione. I cinesi avevano (…) inventato la polvere da sparo prima che esistesse l’Impero romano, ma non se n’erano serviti per uccidere, bensì per fare i fuochi d’artificio (…). (…) a Miami Beach gli ebrei non sono ammessi negli alberghi e neppure sulle spiagge. Sto parlando del 1946, quando anche ai neri del Sud era vietato l’ingresso nei ristoranti, negli alberghi, nei cinema e perfino nella parte degli autobus e dei tram riservata ai bianchi. Il potentissimo Ku Klux Klan nutriva lo stesso odio profondo per gli ebrei, i neri, i cattolici e, in generale, per tutti gli stranieri, compresi gli americani del Nord. A volte, durante le nostre escursioni a cavallo, scoprivamo un fuoco spento ancora fumante; gli Apache non erano lontani, quelle erano le tracce di un accampamento, ma non sono mai riuscito a trovarmi faccia a faccia con uno di quei guerrieri un tempo fieri e temibili, traditi ignominiosamente dai bianchi. (…) io credo solo nell’uomo, quale che sia, e non ho mai ammesso la superiorità di un individuo sull’altro in base alla classe sociale nella quale è stato artificiosamente collocato. (…) non ho mai creduto nel matrimonio, e ho ripetuto spesso, anche più tardi alla televisione, che era pazzesco, per gente di venti o venticinque anni, e anche per coppie più mature, giurare davanti a un sindaco, a uno sceriffo o a un curato, di amarsi per tutta la vita. Come conoscere in anticipo l’evoluzione di ciascuno? Vent’anni più tardi, con la progressiva trasformazione delle cellule, quell’uomo e quella donna saranno diversi, e si troveranno l’uno di fronte all’altro incatenati da un giuramento fatto tanto tempo prima. Siamo andati a vedere una clinica ginecologica di cui ci avevano parlato molto bene. Dicevano fosse la migliore. (…) era un convento (…). Mentre l’addetta alla reception continuava a rassicurare un marito ansioso, abbiamo letto un cartello incorniciato di nero: si avvertivano le partorienti che, in caso di gravi complicanze, la vita del bambino avrebbe avuto la priorità su quella della madre. Così avevano deciso il primario e la superiora. Un brivido ci è corso per la schiena e siamo usciti in punta di piedi. Non restava che l’ospedale di Tucson (…) qui non vi era traccia di monache, crocifissi e statuette della Vergine. (…) per fortuna posso anche rifugiarmi nei miei romanzi! (…) nei suoi film Chaplin si è sempre schierato dalla parte del “piccolo uomo” caro al mio cuore. Faccio la conoscenza di Fellini e di sua moglie, la deliziosa Giulietta. Spesso torniamo in albergo insieme, mentre lei, con molta discrezione, si tiene in disparte. M’interessa molto, quell’omone massiccio, dalle spalle larghe, che è al tempo stesso semplice, sincero e tormentato. Quello che non vi ho insegnato sono le “buone maniere”: dire “Buongiorno signora”, “Grazie signore” o dare la mano come si deve e come hanno insegnato a me. E me l’hanno insegnato così bene che ancor oggi, a quasi settantotto anni, quando qualcuno mi urta per strada sono io a dire automaticamente “scusi”. Avete imparato da soli, liberamente, quello che dovevate imparare, perfino a servirvi della coppetta sciacquadita, aggeggio di cui io, a sedici anni, ignoravo l’uso. Nessuno di voi è diventato un teppista, un emarginato, e neppure l’anarchico non violento che io sono rimasto per tutta la vita. Quella sera, io e Jean (Renoir) andiamo a cena da Charlie e Oona Chaplin, una cena intima, a quattro. (…) Un gran fuoco nel camino, un’atmosfera affettuosa, rilassata, un Chaplin straordinario che, dopo cena, ci racconta, ci mima, ci recita letteralmente il film di cui ha cominciato a scrivere la sceneggiatura e che lui “vive” davanti a noi. Seduta al suo fianco sul grande divano, Oona sorride come sempre con infinito amore, dolcezza, e, oserei aggiungere, indulgenza per quel genio di suo marito. Una magnifica serata che scalda il cuore e che evocheremo spesso io e quell’altro genio che è Renoir. La “buona educazione” genera spesso dei ribelli, come è stato per me, che continuo a sentirmi a disagio in una società in cui le “buone maniere” non impediscono una condotta “vergognosa” che non si pensa a correggere, ma solo a nascondere. (…) mi rimetto a dettare, così, per il mio piacere, per esprimere finalmente in piena libertà tutte le idee che erano latenti nei miei romanzi e per enunciarle in modo chiaro, cosa che mi varrà l’ostilità della grande borghesia e, a maggior ragione, di quella di destra e di estrema destra. (Marie-Jo) Seduta sul bracciolo di una poltrona, di fronte a me, canta accompagnandosi con la chitarra (…) Le plat pays di Brel, che lei interpreta, secondo me,