Cesare Basile è un nome che, per le masse, potrebbe risultare poco noto o sconosciuto. Ma, per chi bazzica l’underground rock ‘n’ roll (e non solo) italico dell’ultimo trentennio, non è (stato) affatto raro imbattersi nella sua figura, fautrice di una musica cangiante, ma molto apprezzata e che spesso – se non sempre – custodisce perle di saggezza e qualità. Musicista – prevalentemente cantante e chitarrista – e compositore siciliano attivo sulle scene dai primi anni Ottanta, ha fatto parte di band seminali del sottobosco R’N’R italiano come Candida Lilith e Quartered Shadows, trasferendosi con questi ultimi anche a vivere e suonare nella Berlino del periodo immediatamente successivo alla caduta del Muro (aprendo anche per i Nirvana). Tornato in Italia, dalla metà degli anni Novanta ha intrapreso un percorso solista (iniziato con l’album “La pelle“) che nel tempo lo ha portato a collaborare con musicisti come John Bonnar, John Parish, Hugo Race, Steve Wynn, Stef Kamil Carlens, Robert Fisher, Sanou Ag Ahmed, Nada Malanima, Manuel Agnelli e Alfio Antico. Nel corso degli anni, disco dopo disco, il cantautore catanese, partito da un background punk/alternative rock, ha iniziato a sperimentare con un nuovo ventaglio di sonorità e, da circa un decennio a questa parte, la sua ricerca artistica si è concentrata sulla musica popolare afro-mediterranea, adottando il dialetto delle sue terre per il canto e riscoprendo l’uso della lingua siciliana (un idioma forgiato dall’incontro di genti e civiltà millenarie, in una riconciliazione dell’autore con le proprie radici) per le liriche che, sovente, traggono spunto da riflessioni e leggende popolari, canti di impianto tradizionale, storie di “senzanome”, emarginati e sfruttati del passato e nell’attualità, e riferimenti letterari. Spirito anarchico, Basile è stato anche insignito per due volte della targa del premio Tenco, di cui uno rifiutato per motivazioni di lotta politica, in protesta contro il carrozzone Siae (che aveva osato condannare le esperienze di autogestione delle occupazioni del teatro Valle a Roma e del teatro Coppola di Catania, quest’ultima ispirata proprio dalle attività da agitatore culturale di Basile, creatore anche di un network di artisti siciliani, L’Arsenale). Perché un artista, nella sua visione del mondo, dovrebbe avere sempre il dovere di schierarsi, piuttosto che sottrarsi ai conflitti. Un concetto attuale dieci anni fa come oggi, in un mondo, come quello della musica leggera italiana, in cui regnano invece sovrani omertà, omologazione e disimpegno, e quasi nessun artista “di successo” prende posizione su argomenti scottanti “per quieto vivere”, e tanti si comportano come le tre scimmiette (non vedo, non sento e non parlo) o al massimo concedono “candidamente” i diritti delle proprie canzoni a spot pubblicitari capitalisti. Quest’anno il nostro, fresco sessantenne, ha pubblicato un nuovo album, “Saracena” (uscito su Viceversa records) il suo dodicesimo full length complessivo – arrivato a cinque anni di distanza dal precedente “Cummeddia“, e a quattro dall’Ep sperimentale, autoprodotto, di concrete music e sonorità industrial, “Pulicane tape: quattro movimenti in cattività” – in cui la ricerca musicale si affianca al racconto delle diaspore degli ultimi, partendo dall’esilio a cui furono costretti gli arabi in Sicilia ai tempi della conquista normanna, passando per i versi di Santo Calì (le strofe popolari dell’abbandono di un’isola saracena negli intervalli delle melodie dei suoi Cantaturi) fino ad arrivare al dramma umanitario dell’eterna Nakba che sta afflliggendo le popolazioni che abitano le terre della Palestina, da decenni vessate, bombardate e decimate da guerre di occupazione per mano dell’esercito israeliano. Un “instant concept album” – composto e inciso nell’arco di sole due settimane, e ispirato dai versi del poeta palestinese Mahmoud Darwish – incentrato proprio sul tema dell’esodo e dell’esilio imposto ai popoli che abitano determinate terre, forzati manu militari da altri popoli invasori a lasciare i territori in cui sono nati e cresciuti, col conseguente carico sentimentale di dolore, impotenza, nostalgia e rabbia che accompagna chi è costretto a subìre, sotto minaccia di morte, l’obbligo di lasciare le proprie case, le proprie radici linguistiche, le proprie tradizioni e abbandonare le terre natie che vengono calpestate dalle armate di occupanti senza rispetto per la storia dei luoghi invasi. Basile, ovviamente, sposa e narra il punto di vista dei perdenti e degli esclusi, prendendo le parti degli indifesi e identificandosi profondamente con la causa palestinese, in un momento storico in cui – a detta dello stesso cantautore – agli artisti si chiede solo di essere giullari di corte e trasformarsi in “divertimentifici” viventi per intrattenere le persone senza sollevare questioni scomode o prendere parola sulle ambiguità delle società democratiche. Il disco, di fatto, è un corpo unico, di quasi mezz’ora, suddiviso in otto brani/parti (di cui due strumentali, “Kafr Qasim” e l’intermezzo “Bbacilicò“) in cui viene musicata – riprendendo il vernacolo siciliano come spazio ricco di meticciato e pratica di libertà artistica e politica – l’epica del disastro, nell’esigenza di costruire un ponte fra luoghi storici e geografici apparentemente distanti ma vicini nelle conseguenze tragiche di sofferenza e disperazione, come il parallelo tra la Nakba palestinese e gli arabi allontanati dalla Sicilia nell’opener “C’è na casa rutta a Notu“. La matrice folk insulare si incontra-scontra con dissonanze elettriche, evocazioni cinematiche, echi di musica africana e spiragli di elettronica, forme arcaiche e contemporaneità, strumenti tradizionali ed esotici come rebab, mizwad, baglama e tanpura. Una misteriosa cupezza che vede in “Prisenti assenti” e “U iornu du Signuri” il suo apice qualitativo, mentre nella cantilena di “Caliti Ciatu” l’aspra carnalità dialettale viene mitigata da inserti di canto raffinato, in inglese, di Francesca Pizzo Scuto, tra i pochi collaboratori (insieme agli interventi strumentali di Tazio Iacobacci e Puccio Castrogiovanni) nel cesello di questa opera concepita interamente da Basile. E nella conclusiva “Cappeddu a Mari” il finale sembra restare aperto, o forse ambiguo: quel vociare bambinesco, le risate e quell’aria di festa, verso la chusura del pezzo, rappresenta gli ultimi istanti di gioia prima che sopraggiunga l’amarezza dei venti di morte, o è l’umanità che rinasce perché, prima o poi, si realizzerà l’utopia della fine di tutte le guerre? Sarebbe bello propendere per la seconda ipotesi. Cesare Basile prosegue nell’evoluzione della sua parabola artistica, ma resta sempre uno dei tesori meglio conservati della canzone italiana tutta, che rifugge il divismo e niente ha a che spartire con la monnezza del mainstream del business discografico consumista (tutto apparenza/immagine e poca sostanza) ma continua a dare lustro a una stagione di cantautorato sui generis che, negli ultimi anni, tra Basile e gli ultimi lavori di altre anime affini come Umberto Maria Giardini (ex Moltheni), Edda, Paolo Benvegnù, Gianni Maroccolo, Amerigo Verardi (e altri) in barba alle cicliche mode musicali, sta godendo di ottima salute. Questa non è musica per tutti, ma un ispirato flusso di coscienza e urgenza espressiva, politica e poetica che riannoda i fili del passato per leggere il presente, e invita a riflettere sulla malvagità del genere umano che, dopo millenni di storia, non ha ancora imparato a vivere in armonia con la natura, avvelenando il pianeta con guerre, soprusi, ingiustizie e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. “Saracena” è anche la speranza che si aggrappa a quell’ulivo (simbolo di pace) della copertina, affinché un giorno la Terra ritorni a essere un luogo di vita e rigenerazione delle coscienze.