Combambient, Tre storie per chitarra
comambient è il nom de plume di Riccardo Komesar da Pesaro un chitarrista autodidatta che esplora il mondo e le sensazioni attraverso il solo suono della sua chitarra.
Il meglio del mondo della musica indipendente (pop e folk) messo in evidenza con una particolare attenzione per la scena italiana
comambient è il nom de plume di Riccardo Komesar da Pesaro un chitarrista autodidatta che esplora il mondo e le sensazioni attraverso il solo suono della sua chitarra.
Cesare Basile è un nome che, per le masse, potrebbe risultare poco noto o sconosciuto. Ma, per chi bazzica l’underground rock ‘n’ roll (e non solo) italico dell’ultimo trentennio, non è (stato) affatto raro imbattersi nella sua figura, fautrice di una musica cangiante, ma molto apprezzata e che spesso – se non sempre – custodisce perle di saggezza e qualità. Musicista – prevalentemente cantante e chitarrista – e compositore siciliano attivo sulle scene dai primi anni Ottanta, ha fatto parte di band seminali del sottobosco R’N’R italiano come Candida Lilith e Quartered Shadows, trasferendosi con questi ultimi anche a vivere e suonare nella Berlino del periodo immediatamente successivo alla caduta del Muro (aprendo anche per i Nirvana). Tornato in Italia, dalla metà degli anni Novanta ha intrapreso un percorso solista (iniziato con l’album “La pelle“) che nel tempo lo ha portato a collaborare con musicisti come John Bonnar, John Parish, Hugo Race, Steve Wynn, Stef Kamil Carlens, Robert Fisher, Sanou Ag Ahmed, Nada Malanima, Manuel Agnelli e Alfio Antico. Nel corso degli anni, disco dopo disco, il cantautore catanese, partito da un background punk/alternative rock, ha iniziato a sperimentare con un nuovo ventaglio di sonorità e, da circa un decennio a questa parte, la sua ricerca artistica si è concentrata sulla musica popolare afro-mediterranea, adottando il dialetto delle sue terre per il canto e riscoprendo l’uso della lingua siciliana (un idioma forgiato dall’incontro di genti e civiltà millenarie, in una riconciliazione dell’autore con le proprie radici) per le liriche che, sovente, traggono spunto da riflessioni e leggende popolari, canti di impianto tradizionale, storie di “senzanome”, emarginati e sfruttati del passato e nell’attualità, e riferimenti letterari. Spirito anarchico, Basile è stato anche insignito per due volte della targa del premio Tenco, di cui uno rifiutato per motivazioni di lotta politica, in protesta contro il carrozzone Siae (che aveva osato condannare le esperienze di autogestione delle occupazioni del teatro Valle a Roma e del teatro Coppola di Catania, quest’ultima ispirata proprio dalle attività da agitatore culturale di Basile, creatore anche di un network di artisti siciliani, L’Arsenale). Perché un artista, nella sua visione del mondo, dovrebbe avere sempre il dovere di schierarsi, piuttosto che sottrarsi ai conflitti. Un concetto attuale dieci anni fa come oggi, in un mondo, come quello della musica leggera italiana, in cui regnano invece sovrani omertà, omologazione e disimpegno, e quasi nessun artista “di successo” prende posizione su argomenti scottanti “per quieto vivere”, e tanti si comportano come le tre scimmiette (non vedo, non sento e non parlo) o al massimo concedono “candidamente” i diritti delle proprie canzoni a spot pubblicitari capitalisti. Quest’anno il nostro, fresco sessantenne, ha pubblicato un nuovo album, “Saracena” (uscito su Viceversa records) il suo dodicesimo full length complessivo – arrivato a cinque anni di distanza dal precedente “Cummeddia“, e a quattro dall’Ep sperimentale, autoprodotto, di concrete music e sonorità industrial, “Pulicane tape: quattro movimenti in cattività” – in cui la ricerca musicale si affianca al racconto delle diaspore degli ultimi, partendo dall’esilio a cui furono costretti gli arabi in Sicilia ai tempi della conquista normanna, passando per i versi di Santo Calì (le strofe popolari dell’abbandono di un’isola saracena negli intervalli delle melodie dei suoi Cantaturi) fino ad arrivare al dramma umanitario dell’eterna Nakba che sta afflliggendo le popolazioni che abitano le terre della Palestina, da decenni vessate, bombardate e decimate da guerre di occupazione per mano dell’esercito israeliano. Un “instant concept album” – composto e inciso nell’arco di sole due settimane, e ispirato dai versi del poeta palestinese Mahmoud Darwish – incentrato proprio sul tema dell’esodo e dell’esilio imposto ai popoli che abitano determinate terre, forzati manu militari da altri popoli invasori a lasciare i territori in cui sono nati e cresciuti, col conseguente carico sentimentale di dolore, impotenza, nostalgia e rabbia che accompagna chi è costretto a subìre, sotto minaccia di morte, l’obbligo di lasciare le proprie case, le proprie radici linguistiche, le proprie tradizioni e abbandonare le terre natie che vengono calpestate dalle armate di occupanti senza rispetto per la storia dei luoghi invasi. Basile, ovviamente, sposa e narra il punto di vista dei perdenti e degli esclusi, prendendo le parti degli indifesi e identificandosi profondamente con la causa palestinese, in un momento storico in cui – a detta dello stesso cantautore – agli artisti si chiede solo di essere giullari di corte e trasformarsi in “divertimentifici” viventi per intrattenere le persone senza sollevare questioni scomode o prendere parola sulle ambiguità delle società democratiche. Il disco, di fatto, è un corpo unico, di quasi mezz’ora, suddiviso in otto brani/parti (di cui due strumentali, “Kafr Qasim” e l’intermezzo “Bbacilicò“) in cui viene musicata – riprendendo il vernacolo siciliano come spazio ricco di meticciato e pratica di libertà artistica e politica – l’epica del disastro, nell’esigenza di costruire un ponte fra luoghi storici e geografici apparentemente distanti ma vicini nelle conseguenze tragiche di sofferenza e disperazione, come il parallelo tra la Nakba palestinese e gli arabi allontanati dalla Sicilia nell’opener “C’è na casa rutta a Notu“. La matrice folk insulare si incontra-scontra con dissonanze elettriche, evocazioni cinematiche, echi di musica africana e spiragli di elettronica, forme arcaiche e contemporaneità, strumenti tradizionali ed esotici come rebab, mizwad, baglama e tanpura. Una misteriosa cupezza che vede in “Prisenti assenti” e “U iornu du Signuri” il suo apice qualitativo, mentre nella cantilena di “Caliti Ciatu” l’aspra carnalità dialettale viene mitigata da inserti di canto raffinato, in inglese, di Francesca Pizzo Scuto, tra i pochi collaboratori (insieme agli interventi strumentali di Tazio Iacobacci e Puccio Castrogiovanni) nel cesello di questa opera concepita interamente da Basile. E nella conclusiva “Cappeddu a Mari” il finale sembra restare aperto, o forse ambiguo: quel vociare bambinesco, le risate e quell’aria di festa, verso la chusura del pezzo, rappresenta gli ultimi istanti di gioia prima che sopraggiunga l’amarezza dei venti di morte, o è l’umanità che rinasce perché, prima o poi, si realizzerà l’utopia della fine di tutte le guerre? Sarebbe bello propendere per la seconda ipotesi. Cesare Basile prosegue nell’evoluzione della sua parabola artistica, ma resta sempre uno dei tesori meglio conservati della canzone italiana tutta, che rifugge il divismo e niente ha a che spartire con la monnezza del mainstream del business discografico consumista (tutto apparenza/immagine e poca sostanza) ma continua a dare lustro a una stagione di cantautorato sui generis che, negli ultimi anni, tra Basile e gli ultimi lavori di altre anime affini come Umberto Maria Giardini (ex Moltheni), Edda, Paolo Benvegnù, Gianni Maroccolo, Amerigo Verardi (e altri) in barba alle cicliche mode musicali, sta godendo di ottima salute. Questa non è musica per tutti, ma un ispirato flusso di coscienza e urgenza espressiva, politica e poetica che riannoda i fili del passato per leggere il presente, e invita a riflettere sulla malvagità del genere umano che, dopo millenni di storia, non ha ancora imparato a vivere in armonia con la natura, avvelenando il pianeta con guerre, soprusi, ingiustizie e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. “Saracena” è anche la speranza che si aggrappa a quell’ulivo (simbolo di pace) della copertina, affinché un giorno la Terra ritorni a essere un luogo di vita e rigenerazione delle coscienze.
De Francesco Cupio Invenire: “Cupio invenire” è il nuovo disco dei De Francesco per Snowdonia Dischi, gruppo fondato dal bresciano Mario “Marix” De Francesco che suona il basso e canta
Nidoja – Ubt _ Angapp Music: Un disco prezioso, suonato e sentito in maniera molto diversa rispetto alla maggioranza dei dischi attuali
Giulio Cantore: Ci sono dischi come questo che hanno un’apertura mentale e musicale talmente vasta che vanno ascoltati spesso per cogliere le diverse sfumature.
Chi l’ha detto che tutte le droghe fanno male? A giudicare dalla bontà del nuovo album dei Black Grape, “Orange Head“, non si direbbe. All’inizio di quest’anno, infatti, la band-supergruppo formata dal frontman Shaun Ryder (e che agli inizi vedeva in formazione anche Bez, altro ex Happy Mondays) e dall’artista hip hop Kermit ha pubblicato il suo quarto lavoro sulla lunga distanza (a sette anni dal precedente “Pop Voodoo“) in tre decenni di (sballato) percorso da combriccola di adorabili debosciati strafatti, tra scioglimenti e reunion. Come da “tradizione” baggy, e con uno spirito festaiolo che si riallaccia ai giorni migliori dell’universo MADchester (un lungo e allucinato happening indie-dance psichedelico, più che una scena musicale vera e propria) questo disco sprizza anni Novanta da tutti i solchi, colorato da un sound in cui, come sempre, convergono e si mischiano acid house, hip hop, rock ‘n’ roll, dance, funk e soul in un’orgia psicotropa che, per un’oretta abbondante, sembra riuscire a far catapultare l’ascoltatore – corpo e anima (e paradisi artificiali annessi, anche se oggi i nostri si sono ripuliti e rimessi in riga) – nell’atmosfera di un concerto all’Hacienda mancuniana di fine Eighties/inizio Nineties. Ryder e Kermit dimostrano di essere ancora in discreta forma e ogni brano del full length (registrato in Spagna e prodotto e mixato in maniera impeccabile da Youth, che ha anche suonato chitarra, basso e synth) è un potenziale banger da dancefloor: tra la slow techno rappata dell’apripista “Dirt“, le stramberie funk di “Pimp wars“, “Button eyes” (quest’ultima con fragranze latino-caraibiche) di “Quincy” e “Losers” (che suonano quasi come outtakes degli Happy Mondays), lo spaghetti-electro-western di “In the ground” (il cui testo amaro, e pieno di riflessioni sulla propria vita, è dedicato da Shaun Ryder al fratello Paul, ex membro degli Happy Mondays, deceduto due anni fa) l’acid house da rave party di “Panda” (in cui Ryder dice beffardamente che “we’re getting old like The Rolling Stones!”) il riuscito e trascinante big beat di “Milk” (forse il momento migliore dell’album, una dance song che punta tutto sulla pienezza del sound e su una formula che ha fatto le fortune, tra gli altri, dei Chemical Brothers) riletture del Peter Gunn theme (in “Self harm“) il trip hop “westernato” dubbato à la Massive Attack (in “Sex on the beach“) e le ottime bonus tracks (“Limelight“, la dark trip hop love song sui generis “Part of everything” e la lisergica, Underworldiana killer tune da loop notturno “Liquid sunshine“) il trip è assicurato. Ryder sa essere ancora credibile nel ruolo del raw from the suburbs, coatto ma a suo modo saggio perché consapevole della sua condizione di classe, con un approccio street che fa ancora breccia nella cultura popolare britannica e riesce a parlare e arrivare ai giovani e, in generale, a tutti quelli che si riconoscono in un’attitudine stradaiola e working class: non a caso un certo Tony Wilson lo elevò al rango di poeta di pari calibro di W.B. Yeats! “Orange head” si conquista, senza dubbio, un posto di rilievo tra le sorprese e i dischi più stravaganti e divertenti del 2024. Ryder e Kermit, nonostante tutte le loro vicissitudini, sono ancora vivi e sul pezzo, e già questa è una notizia da salutare con gioia. Still twisting melons, maaan!
A distanza di dieci anni dall’ultima apparizione discografica torna il Blocco Nero, una delle più interessanti avventure musicali degli ultimi anni. Il Blocco Nero tornano con “ Cronache” un disco che racchiude 8 canzoni che sono otto date importanti per la storia italiana e non solo. Questo gruppo fa orgogliosamente neofolk ( o come volete scriverlo) e lo fa in maniera nettamente e volutamente politica, in contrasto alla penetrazione dell’estrema destra in questo magnifico genere, che possiede al suo interno la decadenza e l’andamento delle musiche di epoche passate, e che permette più di altri generi di veicolare messaggi politici. Non tutto il neofolk è fascista, ma certamente ci sono molto gruppi che veicolano messaggi quantomeno ambigui come i Death In June o altri marcatamente nazisti. Il Blocco Nero si contrappone a tutto ciò portando la sua identità fortemente anarchica e libertaria all’interno del gioco del neofolk, e non sono soli come si può vedere dal blog di riferimento del genere https://antifascistneofolk.com/ , con delle canzoni che vanno ben oltre la musica, che è antica, acustica, sognante e meravigliosa, e che riporta la nostra memoria alle date indicate, facendo diventare il disco un documento storico molto prezioso. La musica è composta molto bene, con i codici del neofolk interpretati molto bene e in maniera personale, con un andamento onirico che ci fa immergere nei documenti storici registrati attraverso le voci dei protagonisti che sono il cantato del disco, come se fosse una tragedia greca, ed è davvero coinvolgente. Il Blocco Nero ci riporta la visione anarchica della storia, da Malatesta e Bakunin in poi, per una maggiore comprensione di ciò che abbiamo vissuto e di ciò che stiamo vivendo in un paese che è fascista nel midollo prima e oltre di Mussolini. Cosa rimane allora ? La musica, lo studio della storia e la comprensione del mondo nel quale viviamo. “Croanche” è un disco di una profondità immensa, pari solo alla sua bellezza, a come ti porta con dolcezza e al contempo crudezza dentro la storia mentre ti affonda dolcemente il coltello sotto il cuore, e ti bacia mentre esali l’ultimo respiro,. Musicalmente ricchissimo, cosparge tutto di nero, ma non il nero fascista, ma il nero della sofferenza e della lotta, perché anche il nero non è dei fascisti, come non lo è il neofolk, splendido linguaggio musicale che qui viene liberato e vola fra le barricate e le morti di chi ha lottato. Blocco Nero – Cronache Cronache by BloccoNero Tracklist 1. 9 aprile 03:18 2. 25 aprile 04:32 3. 1 giugno 03:48 4. 1 settembre 06:56 5. 3 ottobre 04:13 6. 18 ottobre 04:15 7. 20 novembre 04:20 8. 3 marzo 06:32
Canaan: musica coltello che penetra dentro che fa uscire sangue caldo fuori in un ambiente gelido, provando piacere a curarsi le ferite.
Louise Lemón si colloca vicino ma oltre cantanti come Pj Harvey, Lana Del Rey etc, e un giorno si parlerà di lei come oggi si parla di loro, nel frattempo riscaldiamoci qui.
Una canzone che ricorda le filastrocche dei They Might Be Giants, sia pur essendo assai meno sghemba dei componimenti proposti dal duo americano, ma suonata con l’approccio di un Robyn Hitchcock.
Questo, in estrema sintesi, quello che ho provato ascoltando l’ultimo lavoro del compositore ligure Davide Cedolin.
Le mere categorie musicali, i generi, sono totalmente inadeguati per poter far capire di cosa si tratta, bisogna ascoltare e farlo anche con calma, come siamo davvero disabituati a fare, ma gli Aguirre sono davvero un’altra cosa.