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Recensioni Rock

Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.

The Sick Rose – Don​’​t Give It Up Now / A Golden Boy 7″

Ben venga un massiccio ritorno dei singoli 7″, nell’epoca dell’eterno presente in cui tutto viaggia e scivola via rapidamente – e si perde presto nel dimenticatoio della memoria umana e nell’oblio di quel buco nero chiamato web – e la soglia di attenzione massima di una persona media, bombardata da miliardi di informazioni dell’internet (e rimbambita dai social network-s) è circa di otto secondi, e al massimo lagggente riesce a sostenere il livello di concentrazione per l’ascolto di un brano musicale in (poco meno di) trenta secondi, scorrendo distrattamente i “reels” e le “storie” tra balletti, “meme” e varie altre marchette assortite. Siccome oggi il prendersela comoda per godersi un disco e, in generale, la lentezza e il pensare sono ormai considerati un peccato da sfigati, perché la società obbliga tutti ad essere perennemente di corsa, impone di andare sempre velocissimi (e anche l’elaborare un pensiero richiede tempo, poi non appena si tenta di proporre qualcosa di più complesso, o una riflessione che vada oltre il trash, l’italiano medio si annoia e butta tutto in caciara con stronzate come: “Oh, ma checcefrega, facce ridere, facce divertì“, e infatti a forza di risate, ignoranza e disimpegno, l’Italia è diventata un Paese tra i meno istruiti al mondo, e quello europeo con più analfabeti funzionali, generando masse incolte che non leggono un libro neanche per sbaglio, ascoltano musicademmmerda, guardano film demmmerda, e fanno eleggere i neofascisti al governo) contro il logorio della vita moderna, ci vengono in soccorso i torinesi Sick Rose con, appunto, un singolo 7″, con due soli pezzi che vanno dritti al punto e dovrebbero colpire l’attenzione anche degli ascoltatori più distratti (ammesso che i nostri riescano mai a diventare “virali” su un social come TikTok, perché ormai le masse passive scoprono la musica, vecchia o nuova che sia, solo attraverso queste nuove tecnologie invadenti e totalizzanti). I veterani garage rockers/power poppers italiani (che hanno ormai scavallato i quarant’anni di percorso musicale, durante i quali hanno anche partecipato alla soundtrack per un film horror underground) tra i massimi alfieri della scena rock ‘n’ roll underground (da non confondere con “indie”, ché quella, declinata in salsa italiota, equivale a esclamare una bestemmia) nostrana, e apprezzati anche all’estero, autori di almeno un capolavoro del garage punk mondiale tutto – il debut album “Faces” – se ne vengono oggi fuori con un 7″ la cui copertina si richiama, nella grafica, a quella di “London calling” dei Clash (che, a sua volta, era quasi un plagio della front cover dell’album d’esordio di Elvis Presley…) e contenenti due pezzi registrati nel settembre 2023: uno è una riuscita cover di “Don’t give it up now” dei Lyres – resa in maniera efficace e personale, restando fedele all’originale – e l’inedito “A golden boy“, grintoso power pop dalla melodia fresca e coinvolgente. A questo giro, la line up del combo piemontese (formato dal frontman Luca Re, con Luca Mangani al basso, Diego Mese alla chitarra, Stefano Vacchetta all’organo Farfisa e Alberto Fratucelli alla batteria e backing vocals) a questo giro è impreziosita dalla presenza dell’italo-australiano Dom Mariani degli Stems (tra l’altro non nuovo a collaborazioni coi Sick Rose) ospite al canto in “Dove give it up now” e alla chitarra sulla B-side. Il 7″ è uscito su Onde italiane dischi, ed è distribuito dalla label pisana Area Pirata, è disponibile in sole 300 copie, quindi fareste meglio ad affrettarvi per non lasciarvelo scappare. Morale della favola: il popolino si scanni per un borgataro senza arte né parte (o altri rappettari/trappettari coatti di turno con l’autotune) che in nome della “libertà d’espressione”, e grazie a una operazione di marketing, diventa sempre più “famoso” grazie a una polemicuccia da salotto (causando un cortocircuito negli ambienti intellettualoidi “petalosi” neopuritani) e continui pure a rincoglionirsi con le tribute band di Fiasco Rossi, Ligabove e Giovanotti (e i video demenziali sui social) ché noi, in un universo parallelo, ci teniamo stretti i Sick Rose.   Don’t Give It Up Now / A Golden Boy by The Sick Rose

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The Dictators – s/t

The Dictators: col loro proto-punk del debut album “Go girl crazy!” e dischi come “Manifest destiny” e “Bloodbrothers”, e capeggiati dal frontman Handsome Dick Manitoba, sono stati tra le band che, nella prima metà dei Seventies, hanno inaugurato (e anche chiuso, trent’anni più tardi)

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Barmudas Pink Rock Society

Barmudas – Pink Rock Society

Barmudas Pink Rock Society: immergiti nelle sonorità di Message in your Butthole e scopri la potenza della loro musica rock, solo su Spotify!

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The Anomalys – Down the hole

Make rock ‘n’ roll dangerous again. No, non è un endorsement verso quel parruccone fascista di Trump(et) appena rieletto (sigh… del resto gli italiani hanno sempre avuto fiuto nello scegliersi i propri colonizzatori) ma è la missione che anima l’esistenza degli Anomalys, trio di Amsterdam che suona “psychotic, unpredictable and primitive rock ‘n roll” e ha incendiato i club di mezzo mondo da un ventennio a questa parte, arrivando all’Lp di debutto (omonimo) nel 2010. I tre giovinastri (Bone, già nei Sex organs, alla voce e chitarra; Looch Vibrato alla chitarra; Remy Pablo alla batteria) fanno a meno del basso e quest’anno hanno pubblicato il loro terzo lavoro sulla lunga distanza, “Down the hole“, uscito su Slovenly Recordings (e registrato in Francia, agli Swampland studios, con Lo’Spider) due anni dopo il precedente “Glitch“. E, come sempre, non fanno prigionieri: dall’opener strumentale “Anxiety” e proseguendo con “Despair” e “Go away” che, già dai titoli, catapultano l’ascoltatore nell’angoscia dei liquami del caos urbano metropolitano odierno, dove il genere umano è sempre di corsa come macchine impazzite, e ansia, burnout psicofisico e depressione sono accettate come condizioni esistenziali “normali” e non più come patologie perché il mondo capitalista non ha più tempo da perdere coi soggetti fragili e vulnerabili e predica la fretta per “ottimizzare” e produrre (e consumare, di conseguenza) freneticamente merci e profitti sempre di più; e l’altro pezzo strumentale, “Flat top“, accentua il senso di paranoia e alienazione che fa scivolare l’individuo e la collettività “giù nel buco” (sia esso quello del rifugio nelle droghe, reali o virtuali, come mezzo per evadere dalla realtà, autodistruggendosi perché ci si annoia facilmente e si vuole provare qualcosa di diverso dalla routine quotidiana, sia il buco nero della ragione che porta ad altre atrocità come le guerre, che sono quasi sempre generate dalla sete di potere e dalla avidità della summenzionata società capitalista); a tutta questa follia, i nostri cercano di rispondere combattendola con un esorcismo sonoro garage/lo-fi, anche se non sembra esserci redenzione né speranza riposta negli esseri umani, come pare confermare il mood schizofrenico senza via di uscita di “On my way” e “Coke head“, e se “Innocence” pare concedere ancora un barlume di luce verso un futuro migliore, la disperazione più buia raggiunge il culmine nella conclusiva “Slaughterhouse“, assolutamente fuori di testa nel suo incedere bipolare, a metà tra una punkavalcata e una melma rallentata di fuzz e distorsione, che scende a spirale in un profondo oblio garage/psych. In poco più di venti minuti, gli Anomalys sparano fuori otto brani in cui ognuno può dare la sua interpretazione al “buco” del titolo, ma di certo non è musica gioiosa da periodo natalizio e, anzi, sembra essere una sorta di bignami sonico, più efficace di tanti pipponi e papiri interminabili di sociologia/antropologia, che fotografa nitidamente la follia umana infognata in un marciume morale che dilaga nel mondo moderno (soprattutto nel cosiddetto Occidente globalista elitista, dove contano solo il denaro, l’apparenza borghese finto bigotta e l’ingordigia del potere economico/finanziario/militare) e che, lungi dal trovare alternative di pace/giustizia sociale universale, sta trascinando un intero pianeta in un vortice di distruzione. Nessuno ne uscirà vivo da questi solchi.

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The Jackets – Intuition

Nel film “Il terzo uomo” Orson Welles diceva che “in Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù“. Ma in realtà l’Elvezia, oltre ai soliti stereotipi (cioccolato, formaggi e orologi) ha anche prodotto dell’ottimo rock ‘n’ roll, come testimoniato da una fervida scena underground documentata dalle attività della benemerita etichetta Voodoo Rhythm Records, di stanza a Berna, fondata dal mitologico Reverend Beat-Man. E, proprio da Berna, arriva uno dei gruppi svizzeri più interessanti in circolazione, i Jackets. Questo trio – composto dalla chitarrista e frontwoman (ma anche cineasta e drammaturga) Jack Torera aka Jackie Brutsche, Samuel Schmidiger al basso e backing vocals e Chris Rosales alla batteria e backing vocals – si è formato nel 2008 e, da allora, ha iniziato a suonare in giro per il mondo, creandosi una solida reputazione sulla scorta di concerti energici (in cui spicca la presenza carismatica e il look stravagante della Torera/Brutsche) e dischi convincenti, basati su una formula sonora che mischia garage rock, punk, ed elementi psych/fuzz. Il three-piece ensemble ha anche fondato una propria etichetta, la Wild noise records, con cui hanno rilasciato, lo scorso anno, il 7″ “Pie in the sky“. I nostri, nel mese di ottobre, e a cinque anni dal penultimo full length, “Queen of the pill” (prodotto da King Khan) hanno pubblicato il loro quinto album complessivo, “Intuition“, uscito sulla label portoghese Chaputa! Records (che l’anno scorso aveva già dato alle stampe il 7″ “Life is not like the movies“). Orchestrato e assemblato, in cabina di regia, dalle sapienti mani di Jim Diamond e Adi Flück, e contraddistinto dal notevole artwork di Olaf Jens, il disco continua nel solco del percorso del power trio, che propone un garage rock melodico e spigoloso allo stesso tempo, in cui lo spirito musicale e iconografico surreale e vibrante dei Sixties viene trasportato nel nuovo millennio, svecchiandolo e modernizzandolo. Dieci brani per una trama che assume echi e contorni post-punk à la Siouxsie and the Banshees nell’opener “Crossing streets“, per poi virare verso il classico, trascinante garage rock Fuzztonesiano in “Ours forever” (a giudizio di chi vi scrive, il migliore episodio del lotto) e “Gambling town” è musica per immagini, come una soundtrack di un musicarello beat degli anni Sessanta, decennio rievocato sonicamente anche nella kinksiana “I tried“. “Coco loco” è un anthem da ballare sul dancefloor e si regge su un azzeccato riff di basso, “Can’t take it back” rallenta un po’ i ritmi, ma senza rinunciare al consueto fabbisogno distorsivo e di fuzz, confermato anche in “Lies“. Se la title track può rimandare al garage rock dei primi Courettes, il garage pop di “One step ahead” prepara il terreno per il gran finale con la conclusiva “Master plan” che coi suoi stop-and-go elettrici farà sicuramente furore ai concerti. Se l’intuito non vi inganna, avrete capito che “Intuition” è un album che spacca e, in fatto di gusti nel R’N’R, il Reverendo (quello vero, non il cialtrone che vi sta scrivendo) raramente sbaglia, quindi fatelo vostro!

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Snüff – That’s Amore

That’s Amore. Snüff. Primo album del trio padovano composto da Andrea Davì (voice, guitar), Giorgia Malagò (voice, drums) e Alessandro Maroso (bass).

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The Sex Organs – We’re fucked

Se volete farvi quattro risate, ma senza rinunciare all’energia di un rock ‘n’ roll ruspante secondo lavoro sulla lunga distanza del folle progetto Sex organs

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