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Recensioni Rock

Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.

REVEREND SHIT-MAN’S BEST OF 2024

Salve, peccatori, ecco una lista di album, recensiti nel 2024, che hanno maggiormente incontrato i favori e i gusti del vostro Reverendo, in ordine sparso e non gerarchico:

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Fleshtones – It​’​s getting late (​…​and more songs about werewolves)

Per motivi anagrafici (e geografici, e naturalmente economici) chi vi scrive non ha potuto vedere dal vivo tantissime band fighe del passato, ma nonostante questa mancanza, non ha avuto bisogno di ascoltare le loro canzoni su una serie tv “di successo” per scoprirle. Oggi, purtroppo, funziona così: in assenza di qualcuno che le guidi e le dia gli strumenti adatti (solo il formato cartaceo dei libri resiste ancora, ma è in una riserva indiana, in un Paese come l’Italia, nel quale la stragrande maggioranza delle persone usa i libri solo come oggetto scenografico per arredare il soggiorno, o come sostegno per raddrizzare le gambe di tavoli e sedie, o come sottobicchieri, ma fino a pochi anni fa c’erano tanti negozi di dischi, qualche canale televisivo tematico e un buon numero di riviste musicali a dare consigli e svolgere un’indispensabile funzione sociale e culturale, ma erano importanti anche la collezione di album dei genitori illuminati, o i dischi che i/le fratelli/sorelle più grandi acquistavano o registravano su cassetta, e poi li giravano a quelli più piccoli, oppure gli scambi reciproci che si facevano, con modalità quasi da Carboneria, con quei quattro gatti che ascoltavano rock ‘n’ roll negli istituti scolastici che frequentavamo, e coi quali inevitabilmente si finiva per solidarizzare e fare amicizia) e anche a causa della loro pigrizia che si accontenta della superficialità di algoritmi che, nel mainstream, gli fanno trovare la pappa già pronta (rinunciando a un lavoro di ricerca e curiosità, nell’era moderna dell’internet senza limiti, in cui si può reperire e ascoltare praticamente tutto lo scibile umano prodotto in musica) l’unico modo con cui le giovani generazioni potrebbero conoscere band come gli statunitensi Fleshtones – o comunque certo rock ‘n’ roll in generale – è solo “grazie” a Netflix o altre piattaforme simili, perché avranno sentito un motivetto orecchiabile tipo “Blitzkrieg Bop” dei Ramones, o si saranno fatti una risata con la cantilena di “Surfin’ Bird” dei Trashmen, opportunamente infilati come sottofondo che accompagna qualche scena “virale” dalla serie tv del momento (come capitò, un paio di anni fa, col caso clamoroso del “successo” riscosso dai Cramps con la cover di “Goo goo muck“) e identificheranno questa musica dagli i-phones tramite l’applicazione “Shazam” e poi forse la troveranno su Spotify per ascoltarne quindici secondi e inserirla in qualche “playlist”. Certo, in passato anche a “noi” capitava di restare folgorati o affascinati da una canzone inedita alle nostre orecchie, magari passata in radio o apprezzata dalla colonna sonora di un film o telefilm, e poi ci si avventurava a caccia di informazioni, stuzzicati da quel desiderio di mettere le mani (e i timpani) su qualche nuovo gruppo, ma il contesto storico pre-musica liquida imperante/social network era diverso, e il confronto con lo sconforto di oggi è qualcosa che, oggettivamente, mette addosso tristezza. Ok, esaurito il “momento boomer”, resta comunque difficile immaginarsi che una band come i Fleshtones riesca a diventare “di tendenza” su una piattaforma come TikTok, ma in realtà poco importa perché, chi ama davvero il rock ‘n’ roll, non ha certo necessità dell’ausilio delle nuove piattaforme social per sapere chi siano i veterani garage rockers newyorchesi, da sempre capitanati dal frontman Peter Zaremba e dall’infuocata chitarra di Keith Streng, che dal 1976 (l’anno della loro fondazione) a oggi ne hanno veramente fatte e viste tante: dal farsi le ossa coi concerti al mitico CBGB (e costruendosi un fedele zoccolo duro di appassionati anche in altri luoghi ugualmente simbolici come il Max’s Kansas City, il Club 57, Irving Plaza, 9:30 club, Pyramid club e il Maxwell’s) al prestare canzoni alla soundtrack di film, dall’aprire concerti per mostri sacri come Chuck Berry e James Brown alle ospitate televisive con Andy Warhol e al condurre (Zaremba) un vero e proprio format su MTV negli Eighties, oltre a officiare festival di garage rock revival come il Cavestomp. Tutto all’insegna del “SUPER ROCK“, ovvero il modo in cui hanno battezzato la loro proposta sonora (una miscela esplosiva di proto-punk dei mid-Sixties, R&B anni dei Fifties alla Little Richard e sprazzi di surf music, psichedelia e soul alla James Brown) che ha fruttato dischi come “Blast off!“, “Roman gods” e “Hexbreaker!“, tutti lavori che occupano un posto di prestigio tra gli Lp più importanti della storia del garage rock/punk. Emozione, liberazione, beat, ritmo e catarsi. Quest’anno gli highlander del garage rock sono giunti a pubblicare il loro ventesimo lavoro sulla lunga distanza, “It​’​s getting late (​…​and more songs about werewolves)” uscito su Yep Roc Records e arrivato a quattro anni di distanza dal pluri-rimandato (a causa della pandemia da covid) “Face of the screaming werewolf“. Nel mezzo, era stato rilasciato anche un 7″ con un due cover, “Festa Di Frankenstein” (rielaborazione di un brano degli Swinging Phillies, ma cantata interamente in italiano, anche grazie alla partecipazione dei Vindicators) e “The Dedication Song” (rivisitazione, con nuove liriche, della hit del 1966 di Freddy Cannon). “It’s getting late” è un discreto esercizio di mestiere, sfornato da una band che, dopo quasi mezzo secolo sulle scene, non ha certo nulla da dimostrare a nessuno, ma non è affatto imbolsita: la voglia di fare baldoria è ancora intatta, i Fleshtones sono animali da palcoscenico e uno dei migliori party groups sulla piazza (e chi vi scrive può confermarlo: visti una volta in concerto, una delle esperienze più coinvolgenti fatte dal vivo) forti di una stabilità ultradecennale della line up (che, oltre alla premiata ditta Zaremba-Streng, vede anche il bassista Ken Fox e il batterista Bill Milhizer) con la loro attitudine festaiola che si fonde con estetica e immaginari Fifties/Sixties che, a volte, può sconfinare nel trash, ma non teme confronti quando si tratta di far divertire e ballare il pubblico e gli estimatori – oltre, ovviamente, agli aficionados del quartetto del Queens -. I lupi sono affamati e si cibano di episodi grintosi (come l’opener “Pussywillow“, la kinksiana “Way of the world“, “You say you don’t mind it” o “Wah wah power“) goliardici (“Big as my balls“, “Come on Everybody Getting High with You Baby Tonight“) euforici SUPER-ROCK come marchio di fabbrica ‘Tones (“Morphine drip“, “The consequences“) strumentali (“The hearse“, cover di Lee Hazlewood/The Astronauts) carcasse di dinosauri (vedasi la Stonesiana “Empty sky” o la cover di “Love me while you can” di Johnny Rivers). Non è mai troppo tardi per danzare coi licantropi nel pallido plenilunio.  

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The Sick Rose – Don​’​t Give It Up Now / A Golden Boy 7″

Ben venga un massiccio ritorno dei singoli 7″, nell’epoca dell’eterno presente in cui tutto viaggia e scivola via rapidamente – e si perde presto nel dimenticatoio della memoria umana e nell’oblio di quel buco nero chiamato web – e la soglia di attenzione massima di una persona media, bombardata da miliardi di informazioni dell’internet (e rimbambita dai social network-s) è circa di otto secondi, e al massimo lagggente riesce a sostenere il livello di concentrazione per l’ascolto di un brano musicale in (poco meno di) trenta secondi, scorrendo distrattamente i “reels” e le “storie” tra balletti, “meme” e varie altre marchette assortite. Siccome oggi il prendersela comoda per godersi un disco e, in generale, la lentezza e il pensare sono ormai considerati un peccato da sfigati, perché la società obbliga tutti ad essere perennemente di corsa, impone di andare sempre velocissimi (e anche l’elaborare un pensiero richiede tempo, poi non appena si tenta di proporre qualcosa di più complesso, o una riflessione che vada oltre il trash, l’italiano medio si annoia e butta tutto in caciara con stronzate come: “Oh, ma checcefrega, facce ridere, facce divertì“, e infatti a forza di risate, ignoranza e disimpegno, l’Italia è diventata un Paese tra i meno istruiti al mondo, e quello europeo con più analfabeti funzionali, generando masse incolte che non leggono un libro neanche per sbaglio, ascoltano musicademmmerda, guardano film demmmerda, e fanno eleggere i neofascisti al governo) contro il logorio della vita moderna, ci vengono in soccorso i torinesi Sick Rose con, appunto, un singolo 7″, con due soli pezzi che vanno dritti al punto e dovrebbero colpire l’attenzione anche degli ascoltatori più distratti (ammesso che i nostri riescano mai a diventare “virali” su un social come TikTok, perché ormai le masse passive scoprono la musica, vecchia o nuova che sia, solo attraverso queste nuove tecnologie invadenti e totalizzanti). I veterani garage rockers/power poppers italiani (che hanno ormai scavallato i quarant’anni di percorso musicale, durante i quali hanno anche partecipato alla soundtrack per un film horror underground) tra i massimi alfieri della scena rock ‘n’ roll underground (da non confondere con “indie”, ché quella, declinata in salsa italiota, equivale a esclamare una bestemmia) nostrana, e apprezzati anche all’estero, autori di almeno un capolavoro del garage punk mondiale tutto – il debut album “Faces” – se ne vengono oggi fuori con un 7″ la cui copertina si richiama, nella grafica, a quella di “London calling” dei Clash (che, a sua volta, era quasi un plagio della front cover dell’album d’esordio di Elvis Presley…) e contenenti due pezzi registrati nel settembre 2023: uno è una riuscita cover di “Don’t give it up now” dei Lyres – resa in maniera efficace e personale, restando fedele all’originale – e l’inedito “A golden boy“, grintoso power pop dalla melodia fresca e coinvolgente. A questo giro, la line up del combo piemontese (formato dal frontman Luca Re, con Luca Mangani al basso, Diego Mese alla chitarra, Stefano Vacchetta all’organo Farfisa e Alberto Fratucelli alla batteria e backing vocals) a questo giro è impreziosita dalla presenza dell’italo-australiano Dom Mariani degli Stems (tra l’altro non nuovo a collaborazioni coi Sick Rose) ospite al canto in “Dove give it up now” e alla chitarra sulla B-side. Il 7″ è uscito su Onde italiane dischi, ed è distribuito dalla label pisana Area Pirata, è disponibile in sole 300 copie, quindi fareste meglio ad affrettarvi per non lasciarvelo scappare. Morale della favola: il popolino si scanni per un borgataro senza arte né parte (o altri rappettari/trappettari coatti di turno con l’autotune) che in nome della “libertà d’espressione”, e grazie a una operazione di marketing, diventa sempre più “famoso” grazie a una polemicuccia da salotto (causando un cortocircuito negli ambienti intellettualoidi “petalosi” neopuritani) e continui pure a rincoglionirsi con le tribute band di Fiasco Rossi, Ligabove e Giovanotti (e i video demenziali sui social) ché noi, in un universo parallelo, ci teniamo stretti i Sick Rose.   Don’t Give It Up Now / A Golden Boy by The Sick Rose

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Barmudas Pink Rock Society

Barmudas – Pink Rock Society

Barmudas Pink Rock Society: immergiti nelle sonorità di Message in your Butthole e scopri la potenza della loro musica rock, solo su Spotify!

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The Jackets – Intuition

Nel film “Il terzo uomo” Orson Welles diceva che “in Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù“. Ma in realtà l’Elvezia, oltre ai soliti stereotipi (cioccolato, formaggi e orologi) ha anche prodotto dell’ottimo rock ‘n’ roll, come testimoniato da una fervida scena underground documentata dalle attività della benemerita etichetta Voodoo Rhythm Records, di stanza a Berna, fondata dal mitologico Reverend Beat-Man. E, proprio da Berna, arriva uno dei gruppi svizzeri più interessanti in circolazione, i Jackets. Questo trio – composto dalla chitarrista e frontwoman (ma anche cineasta e drammaturga) Jack Torera aka Jackie Brutsche, Samuel Schmidiger al basso e backing vocals e Chris Rosales alla batteria e backing vocals – si è formato nel 2008 e, da allora, ha iniziato a suonare in giro per il mondo, creandosi una solida reputazione sulla scorta di concerti energici (in cui spicca la presenza carismatica e il look stravagante della Torera/Brutsche) e dischi convincenti, basati su una formula sonora che mischia garage rock, punk, ed elementi psych/fuzz. Il three-piece ensemble ha anche fondato una propria etichetta, la Wild noise records, con cui hanno rilasciato, lo scorso anno, il 7″ “Pie in the sky“. I nostri, nel mese di ottobre, e a cinque anni dal penultimo full length, “Queen of the pill” (prodotto da King Khan) hanno pubblicato il loro quinto album complessivo, “Intuition“, uscito sulla label portoghese Chaputa! Records (che l’anno scorso aveva già dato alle stampe il 7″ “Life is not like the movies“). Orchestrato e assemblato, in cabina di regia, dalle sapienti mani di Jim Diamond e Adi Flück, e contraddistinto dal notevole artwork di Olaf Jens, il disco continua nel solco del percorso del power trio, che propone un garage rock melodico e spigoloso allo stesso tempo, in cui lo spirito musicale e iconografico surreale e vibrante dei Sixties viene trasportato nel nuovo millennio, svecchiandolo e modernizzandolo. Dieci brani per una trama che assume echi e contorni post-punk à la Siouxsie and the Banshees nell’opener “Crossing streets“, per poi virare verso il classico, trascinante garage rock Fuzztonesiano in “Ours forever” (a giudizio di chi vi scrive, il migliore episodio del lotto) e “Gambling town” è musica per immagini, come una soundtrack di un musicarello beat degli anni Sessanta, decennio rievocato sonicamente anche nella kinksiana “I tried“. “Coco loco” è un anthem da ballare sul dancefloor e si regge su un azzeccato riff di basso, “Can’t take it back” rallenta un po’ i ritmi, ma senza rinunciare al consueto fabbisogno distorsivo e di fuzz, confermato anche in “Lies“. Se la title track può rimandare al garage rock dei primi Courettes, il garage pop di “One step ahead” prepara il terreno per il gran finale con la conclusiva “Master plan” che coi suoi stop-and-go elettrici farà sicuramente furore ai concerti. Se l’intuito non vi inganna, avrete capito che “Intuition” è un album che spacca e, in fatto di gusti nel R’N’R, il Reverendo (quello vero, non il cialtrone che vi sta scrivendo) raramente sbaglia, quindi fatelo vostro!

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The Sex Organs – We’re fucked

Se volete farvi quattro risate, ma senza rinunciare all’energia di un rock ‘n’ roll ruspante secondo lavoro sulla lunga distanza del folle progetto Sex organs

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