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Recensioni Rock

Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.

THE STABBING JABS – S/T

“Screams, fuzz, dirt and RIFFS“. Questo è il manifesto programmatico sonoro dei Stabbing Jabs, nuovo incendiario progetto punk/blues/noise sparato fuori dall’underground statunitense che può vantare una line up dal pedigree rock ‘n’ roll di tutto rispetto, essendo formata da Peter Aaron (ex frontman dei Chrome Cranks) William G. Weber (anche lui ex Chrome Cranks e GG Allin & the Murder Junkies) e Chris Donnelly (con un passato nei Gang Green) alle chitarre, Jamie Morrison (Motorbike) al basso e Andy Jody (Barrence Whitfield & the Savages) alla batteria. Il quintetto ha dato alle stampe, il mese scorso, il proprio album di debutto, omonimo, uscito sulla label francese Beast Records. L’ensemble di Cincinnati (Ohio) è in pista da circa un lustro, caratterizzato da una corposa attività live, e arriva a questo Lp d’esordio (registrato ai Krakdhaus Studios di Weber) in cui ripropone solo in parte le atmosfere malate del blues/punk marcio e strascicato dei Chrome Cranks, shakerandole con altre influenze come Dead Boys, Black Flag, Stooges e MC5, ma il risultato è ugualmente esaltante e infuocato negli undici brani proposti. E già dall’opener “Broken brain” si viene investiti da una sarabanda garage punk stoogesiana (nonostante il riffone portante possa anche ricordare i primissimi Foo Fighters) magma lavico in salsa Dead Boys corretta Jon Spencer che incendia “Bad slime“, “Drowning girls” o “Little lamb“, tra vocals scorticate e un R’N’R wall of sound assassino. Tracce come “F-Bomb” e “Radiation love“, orgogliosamente grezze e cafone, che sembrano essere uscite da scatoloni di nastri analogici contenenti outtakes di “Raw power” ormai credute perse per sempre. E in “Uptown blues” si rimesta nel torbido, tornando sui sentieri del passato ChromeCranksiano, deturpando il blues e rendendolo delicato come il pulirsi il culo al cesso con la carta vetrata in sostituzione di quella igienica quando è finita. “Little in doubt” (cover di un pezzo dei Verbs inserito anche nella compilation “We were living in Cincinnati“, curata dallo stesso Aaron) è un glam punk in cui sembra di sentire dei New York Dolls on steroids, la vetriolica “Bone and breast” passa al setaccio i primi Black Flag Rollinsiani. L’altra cover del disco, “Go-go wah-wah” (originariamente dei Dennis the menace) dal feeling ramonesiano/motorheadiano, prepara l’urticante terreno per il gran finale con la delirante “You’re a drag“, in cui Aaron suona l’armonica e ci rispedisce ancora una volta nel putridume paludoso della depravazione punk-blues in cui nei Nineties i Chrome Cranks sguazzavano insieme a JSBE, Cheater Slicks, Gories, Bassholes, Oblivians, Jack O’Fire e altra rumorosa marmaglia. Amore al primo ascolto, e che ve lo dico a fare. A chi vi scrive sono bastati pochi secondi per indirizzare “The Stabbing Jabs” dritto dritto nella lista degli album preferiti del 2024, e per fortuna i nostri non si fermeranno e hanno già fatto sapere di avere in cantiere la preparazione di un nuovo long playing, perché non sembra siano rimasti tanti altri gruppi che sappiano ancora suonare questa musica sudicia e peccaminosa, e loro hanno ancora voglia di sfornare straight-up, hard, mean, noisy rock ‘n’ roll. E noi siamo ben felici di lasciarli agire. The Stabbing Jabs by The Stabbing Jabs

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THE BATTLEBEATS – MEET YOUR MAKER

Una copertina clamorosamente figa fa da cornice al ritorno sulla lunga distanza di Andresa Nugraha, cartoonist e musicista indipendente indonesiano che, da un lustro a questa parte, infiamma i nostri padiglioni auricolari col moniker Battlebeats, one man project dedito a un lo-fi garage punk rapido e selvaggio (coi giapponesi Teengenerate come ispirazione sonora principale) ma anche caratterizzato da influenze power pop. A quattro anni di distanza dal long playing di debutto, “Search and destroy“, e dopo aver pubblicato diversi Ep e uno split album, il nostro (che canta e suona tutti gli strumenti: chitarra e batteria) ha sfornato il suo secondo Lp, “Meet your maker“, uscito il mese scorso sulla label statunitense Sweet Time Records. Squadra che perde non si cambia, e allora ecco confermata la consueta ricetta sonica orgogliosamente loser a base di hi-octane rock ‘n’ roll devoto alla summenzionata band di Fifi (idolo dichiarato di Andresa) e a Guitar Wolf, Ramones, New Bomb Turks e Reatards. Niente track by track, solo fragore, pogo, sudore e litri di alcool. Se vi sanguinano ancora le orecchie a causa di quell’abominevole concentrato di musicademmmerda che è stato il Festivalbar di qualche giorno fa (ah no, scusate, era il “concertone” del primo maggio… vabbè, tanto ormai come livello di carrozzone inutile e dannoso siamo lì) allora ascoltare i ventitrè minuti elettrizzanti di un disco come “Meet your maker” può fare al caso vostro per disintossicarvi anima e corpo.   Meet Your Maker by The Battlebeats

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MELVINS – TARANTULA HEART

Non accenna a spegnersi il sacro fuoco creativo di Buzz Osborne, e questo non può essere altro che un bene per la comunità mondiale del rock ‘n’ roll. Il leggendario riccioluto frontman e chitarrista originario di Aberdeen (Washington) infatti, al netto di una discografia sterminata, poche settimane fa è arrivato a pubblicare l’album numero ventinove coi suoi Melvins, una cifra di incredibile longevità e prolificità che rende l’ensemble seattleite-californiano quasi una versione in miniatura (e in salsa alternative rock) dei Grateful Dead. “Tarantula Heart“, nuovo capitolo nel percorso della multiforme creatura dai tentacoli proto-grunge/stoner/sludge/alternative/punk/noise/psych/blues/heavy rock, ha visto “King Buzzo” e sodali (il fidato batterista Dale Crover e il bassista Steven McDonald) sperimentare, per la prima volta in studio (con l’aiuto del producer e collaboratore di lunga data Toshi Kasai) con un autentico taglia-e-cuci sonoro, nato dopo l’invito di Osborne ai musicisti – e amici – Ray Mayorga (alla batteria) e Gary Chester (alla chitarra) a suonare insieme alla band (tutto documentato in uno special sulla realizzazione del full length) elaborandone poi i riff e i fill di batteria e riassemblando le varie parti registrate con nuova musica scritta appositamente per riadattare e integrare il tutto, in modo da ricavarne cinque pezzi totalmente nuovi, un inedito processo (s)compositivo che ha trovato riscontri entusiastici tra i compagni di viaggio di “King B”. Il disco si apre con la mastodontica “Pain equals funny“, quasi venti minuti di allucinata suite heavy rock/sludge/doom, caratterizzata da diversi stop-and-go, in cui i nostri ribadiscono ancora una volta che, grazie al loro pot-pourri sonico summenzionato – e frullato fino a ottenere un sound “originale” – riescono a sfuggire a qualsiasi etichetta e catalogazione precisa nel R’N’R (se si esclude il calderone “alternative”, e ormai la definizione di “padrini del grunge” di Seattle gli va stretta) potendosi permettere di fare e disfare a loro piacimento, e conservando il pregio di non somigliare a nessun altro: i Melvins suonano solo come i Melvins. Due batterie che pestano all’unisono si possono udire in tutta la loro grezza magniloquenza soprattutto nel singolo “Working the ditch“, che si regge su pesanti riffoni Sabbathiani, proseguendo poi con “She’s got weird arms“, forse il pezzo più “orecchiabile” del lotto, ma comunque 100% Melvins (per quanto possa essere “melodica” una canzone o qualsiasi stramberia sfornata da questi simpatici energumeni) mentre con “Allergic to food” si costeggiano lidi noise-punk schizzati in un vulcanico rullo compressore sonoro che travolge tutto ciò che incontra. “Smiler” chiude l’Lp tra il fuoco e le fiamme di un altro rozzo heavy rock Osborniano. Uno, dieci, cento, mille Buzz Osborne: musicisti e personaggi genuini come lui andrebbero clonati. Abbiamo ancora un fottuto bisogno di dischi-schiacciasassi come “Tarantula Heart” e della lucida follia della mente che li ha partoriti, confidando nella speranza che tempo (e salute) preservino per tanti anni il sarcasmo fracassone dei Melvins.  

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THE DARTS – BOOMERANG

Avevamo già accennato, il mese scorso, all’imminente arrivo del nuovo album delle garage rockers statunitensi Darts (attraverso le parole della frontwoman e organista Nicole Laurenne) in un’intervista fatta al combo (in un inglese alquanto discutibile) da chi vi scrive. A distanza di un giro di calendario, ecco balzare davvero all’attenzione dei nostri timpani “Boomerang“, quarto lavoro sulla lunga distanza per la all-girl band originaria di Phoenix (in cui Nicole è affiancata da Christina Nunez al basso e backing vocals, Meliza Jackson alla chitarra e Mary Rose Gonzales alla batteria) a un solo anno di distanza dalla precedente prova “Snake oil“, e pubblicato sempre per la Alternative Tentacle Records, la label fondata da Jello Biafra, ormai vera e propria guida spirituale e consulente artistisco del gruppo. Registrato a Los Angeles insieme al producer Mark Rains, con l’obiettivo di catturare in studio la stessa ruvidezza, intensità e freschezza rock ‘n’ roll delle esibizioni delle nostre monelle streghette dal vivo, “Boomerang” riesce nell’intento di suonare energico, ma anche variegato quando è il momento di cambiare registro. Il disco inizia con “Hang around“, un brano che apre le danze nel consueto Darts style: esuberante garage rock guidato dal saltellante organo Farfisa di Nicole, composto durante le sessioni di registrazione per “Snake oil” (ed entrato nelle grazie di Biafra, insieme a “Your show“, altro pezzo risalente a quel periodo e riciclato per l’occasione, più cadenzato e con venature soul) già rodato dal vivo durante il tour promozionale relativo al loro antecedente Lp (oltre alla summenzionata “Your show” e all’altro singolo “Pour another“) proseguendo poi con la potente “Are you down” di ispirazione Sonics (soprattutto nel riff portante) e il garage/psych di “Liar” (che sembra essere la cugina della “Love tsunami” uscita l’anno scorso) mentre la notturna “Slither“, con la sua sensuale psichedelia (che fa il paio con “Night“, con una Nicole più suadente che mai) rallenta i tempi, che però tornano subito a galoppare veloce nel saliscendi emozionale della successiva “Photograph“, nel grintoso downtempo di “Hell yeah“, nella scatenata “Welcome to my doldrums” e nella beffarda “You disappoint me“. Ma, a sorprendere, è la parte finale del full length, affidata all’R&B di “Dreaming crazy” e che non si chiude – come si ci aspetterebbe da un gruppo come le Darts, che punta tutto sulla fisicità scenica dell’impatto sonoro, soprattutto in sede live – con un garage punk indiavolato, bensì con una ballad come “The middle of nowhere“. Un boomerang come metafora per dare una svolta alle proprie vite, quando si è costretti a fare delle scelte e delle rinunce pesanti (un po’ come decidere di radersi i capelli, di eliminare il caffè e le sigarette, farla finita con qualcuno o qualcosa… è una questione di qualità, o una formalità, non ricordiamo più bene…) ma che possono aprire nuove porte e far scorgere nuovi orizzonti. Un boomerang come metafora per descrivere l’iperattiva creatività della principale songwriter dell’ensemble, Nicole, che scrive canzoni a getto continuo e nel giro di un anno ha portato le sue compagne di band a incidere ben due long playing, con annesso viavai dagli studi di registrazione. Un boomerang come metafora sulle persone/relazioni tossiche e sulle situazioni di merda che nella vita possono andare e tornare, nonostante si faccia tutto il possibile per tenerle lontane. Qualunque sia il significato che vogliate assegnargli, questo “Boomerang”, da un punto di vista strettamente musicale, è un piccolo gioiellino di garage rock evoluto e moderno, che dimostra quanto queste quattro ragazze non abbiano paura di sperimentare e che, passo dopo passo, stiano anche evolvendo il loro sound, aggiungendo nuove fragranze al loro impianto rock ‘n’ roll. Non vi resta che prendervi mezz’ora del vostro tempo e continuare a lasciarvi ammaliare dal fascino di queste muse noir. Boomerang by The Darts (US)

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THE WYLDE TRYFLES – OUTTA TYME

Terzo lavoro sulla lunga distanza per i garage punkers francesi Wylde Tryfles che, a tre anni dal precedente “Fuzzed and confused“, tornano a eccitare i nostri timpani con nuovo incendiario full length, “Outta Tyme“, ancora una volta pubblicato sulla label tedesca Soundflat Records. Il quartetto di Bordeaux – che in questo lasso di tempo ha registrato un cambio nella line up, con l’arrivo del batterista Dorian Gardener, che ha unito le forze con la frontwoman Lubna Bangs (voce e organo) al suo coniuge “Francy Fuzz” (chitarra) e Olivier Dunet (basso) – rinnova, anche in questa occasione, il sodalizio col leggendario Mike Mariconda al mastering del disco, e ci regala dieci brani che, come consuetudine dei nostri, hanno come musa ispiratrice il garage rock dei mid Sixties (Sonics, Standells, Seeds) indurito dalla lezione garage revival di Fuzztones (e Cynics, e Pandoras, e Lyres and so on…) e imbastardito da una vena freakbeat/R&B. Insomma, la ricetta è sempre la stessa: linee di organo aggressive e vocals ora suadenti, ora selvagge che dettano la linea melodica dei pezzi sporcata da quintalate di fuzz guitars e una solida sezione ritmica a sostenere una formula collaudata ed esplosiva, eppure i Wylde Tryfles riescono sempre a cucinare la materia magmatica sonica in maniera efficace e a darle un sapore deciso, confezionando un album compatto, senza sbavature e in cui tutti gli ingredienti sono dosati sapientemente (dall’iniziale “I can’t get enough of your love” alla title track, o “Gonna be a change“, passando per “Don’t press your luck“, “I don’t need your lovin’“, la cover di “Can it be” dei Savoys o nella conclusiva e sguaiata “Monsters“) rinnovando gli stilemi del garage rock in modo da farlo suonare sempre fresco ed esuberante, e raggiungendo l’obiettivo di saziare la fame di R’N’R di weirdos and freaks. Un long playing che scende giù come un boccale di birrozza fresca e si lascia ascoltare che è un piacere, perfetto come soundtrack per scatenarsi a un rock ‘n’ roll party (magari corretto da qualche funghetto allucinogeno). Sarà che questi suoni primitivi non invecchiano mai, nonostante i sessant’anni e oltre sul groppone, ma a giudicare dalla bontà di dischi come “Outta Tyme” si può ben dire che il garage punk goda ancora di ottima salute nel “vecchio continente”, e anche se non è cool e non cavalca hype e algoritmi, chissenefrega. Cantare di essere fuori dal tempo (“out of ti(y)me”), oggi come non mai, in questa merda di mondo sempre più alla deriva, può solo essere motivo di orgoglio. Ready, steady, go and get it!   

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THE CAVEMEN – CA$H 4 SCRAP

One-two-three-four, cretins wanna hop some more! I cavernicoli neozelandesi Cavemen sono tornati dall’età della pietra usando le chitarre come clave e ricavando dalle pitture rupestri un nuovo album, “Ca$h 4 scrap“, uscito a inizio febbraio su Slovenly Recordings. Il sesto disco in studio dei quattro “trogloditi” neanderthaliani originari di Auckland (Paul, Nick, Jake e Jack, tutti accomunati dal “cognome” Caveman finale, proprio come i quattro finti fratelli portoricani) arriva a tre anni di distanza dal singolo “Am I a monster?” e confermano la loro proposta sonica – a base di uno scorticato punk ‘n’ roll di ispirazione Stooges, primi Damned, Radio Birdman, Saints, Ramones, Slaughter and the Dogs – che però stavolta sembra essere più “ragionata” e meglio messa a fuoco. Un caos organizzato in cui non mancano anche momenti più cadenzati, ma non meno rumorosi (come nel caso dei brani “Night of the demon“,”Leather boys“, la GG Alliniana “Drug man“, il Sixties punk di “Flowers on my grave” dal sapore rancido che non sfigurerebbe su garage compilation come “Back from the grave” e “Pebbles“, o la conclusiva “Satan II“) che fanno da contraltare al cuore pulsante dell’Lp che rappresenta l’essenza dei Cavemen, e cioè trash rock ‘n’ roll ad alto tasso alcoolico/demenziale suonato in modo veloce e feroce (nell’iniziale “Children of the dead” e in “Without you“, nelle tiratissime “Booze, ciggies ‘n drugs” ,”Can’t remember your name” e “Personal WWIII“, nelle fragranze à la Sonics di “Hangin up“, in “One leg and a waterbed” e nel punk ’77 di “You’re so vapid“). This is rock ‘n’ roll, baby: diretto, senza fronzoli, senza pretese, senza grazia, senza sofismi, senza pompose (iper)produzioni milionarie in prestigiosi studi di registrazione, senza futuro, ma a cazzo duro. Rough, sleazy, raw ‘n’ wild. Sicuri che i Cavemen non faranno prigionieri pure nel tour europeo che toccherà anche l’Italia in una data a Milano (coi Killer Kin di spalla) lasciate che l’autogru della copertina demolisca il “ruooock” da fighetti e la monnezza che passa sulle radio mainstream.

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SEX MEX – COLD, NOT CUTE Ep

Ad appena pochi mesi di distanza da un prolifico 2023 che li ha visti pubblicare due Ep e il loro ultimo studio album, “Sex Mex ’23” (rilasciato solo quattro mesi fa) i texani Sex Mex tornano a far uscire nuovo materiale, ed è un altro Ep, intitolato “Cold, not cute“, arrivato a fine febbraio su Wovie Zowie. Il quartetto di San Antonio (formato da Nicholas Devora alla voce e chitarra, Matthew James al basso e synth, Clark “Nathan” Gray alla batteria/voce e Rebecca “Becky” Moore alle percussioni) è attivo dal 2021 e fa del DIY il suo credo, sciorinando un R’N’R croccante e rigorosamente lo-fi, dandone prova anche in questo nuovo Ep, in cui rinnova la sua formula – in grado di risultare abrasiva e catchy allo stesso tempo – a base di garage/synth punk, power pop e glam rock, influenzata tanto da Jay Reatard quanto da DEVO e Ramones. Esuberante frastuono e ganci melodici a go-go sono preponderanti nella title track, in “Someone new“, “Nerds who play guitar” (più che un titolo, uno stile di vita) e “Losing her“, tutti brani in cui si riscontra l’abilità dei nostri nel saper combinare un rumoroso weird rock ‘n’ roll con la capacità di costruire armonie e ritornelli che si appiccicano in mente e ci restano per lungo tempo. Di certo uno dei dati di fatto più divertenti riguardo a questa band è che, per trovarli sui motori di ricerca del webbe, bisogna digitare anche “band” dopo il loro moniker, altrimenti l’algoritmo “intelligente” equivoca e ci propone solo una sfilza di link a siti porno, e già solo per questo meritebbe un ascolto: vi assicuriamo che non potrete più fare a meno di questi monellacci. Astenersi occasionali e “influencers” che infestano i festival musicali (e non solo quelli, purtroppo): il vero rock ‘n’ roll, come quello genuino e ruspante di “Cold, not cute“, non è affare da meme e stories da bimbiminchia sui social.

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