Muddy Worries Fucked Up
la vera forza dei Muddy Worries è quella di essere poliedrici, di saper contaminare le loro canzoni con varie influenze restando assolutamente credibili.
Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.
la vera forza dei Muddy Worries è quella di essere poliedrici, di saper contaminare le loro canzoni con varie influenze restando assolutamente credibili.
Spiazzante. Non pensiamo esista aggettivo più appropriato per descrivere il nuovo album (il secondo del suo percorso da solista) di Kim Gordon. La ex bassista/chitarrista/cantante dei Sonic Youth è infatti tornata a inizio marzo, a cinque anni dall’esordio in proprio, “No home record“, con un nuovo capitolo della sua parabola artistica ormai completamente affrancata dal (glorioso) passato nella Gioventù Sonica, “The collective“, pubblicato su Matador Records. La frontwoman e artista multidisciplinare newyorchese/losangelina rinnova il sodalizio col producer Justin Raisen (già al lavoro anche con John Cale e Yeah Yeah Yeahs, tra gli altri) e da ormai diversi decenni ha iniziato a sperimentare con sonorità ostiche nei suoi progetti discografici solistici e/o paralleli ai SY (Body/Head, Free Kitten, la all-female band Harry Crews, Mirror/Dash, Glitterbust e il side-project/supergruppo Ciccone Youth) alimentando la combustione tra avant-elettronica e noise rock, ma in “The collective” (registrato nella natia Los Angeles) ha deciso di osare ancora di più, spingendosi fino all’azzardo di un crossover musicale-concettuale che ingloba no wave, abstract hip hop, rumorismo noise e contaminazioni trap. Ho scritto “TRAP”? Sì, avete letto bene: trap (ma niente a che vedere con Sfera Ebbasta, Tedua, Shiva altre baracconate all’italiana o all’americana, soprattutto a livello di testi) oltre all’ammissione, nei credits del full length, di aver fatto ricorso all’Intelligenza Artificiale nella composizione delle liriche di alcune canzoni. Un esperimento a metà strada tra i Suicide e il “Whitey album” degli stessi Ciccone Youth? Si potrebbe sintetizzare così la proposta musicale della “nuova” Kim Gordon, ma che alla fine poi tanto nuova non è, perché i flirt tra universo rock ‘n’ roll, arrangiamenti di natura industrial e battiti ritmici ripresi dall’hip hop vanno avanti dalla metà degli Eighties. Ma a rendere “The collective” un disco ugualmente contemporaneo (e, soprattutto, spigoloso) è il fatto che riesca a risultare comunque fresco perché rielabora modelli storicizzati, reinventandoli e attualizzandoli con la trap più radicale per dare vita a un disco non facile e divisivo, ma di cui va apprezzato il coraggio. La stessa Gordon aveva dichiarato, presentando il long playing, di volersi prendere dei rischi pubblicando un’opera che rompesse gli schemi col suo passato, con sonorità dub/trap (seppur trafitte da potenti distorsioni chitarristiche) presenti lungo tutte le undici tracce, condite da liriche che esprimessero l’assoluta follia che viviamo nel quotidiamo intorno a noi, in una società odierna bombardata da un’overdose di fake news (in cui l’etere abbonda di canali di informazione, ma nessuno dice la verità e informa davvero sui fatti e ognuno si costruisce la propria verità personale tra la propaganda politica televisiva e, soprattutto, la giungla dei social network) che intorbidiscono le acque e generano un sentimento tossico di paranoia universale, con la gente che si rifugia nelle droghe (reali, ma anche le dipendenze virtuali: TV shows, shopping, internet e le nuove tecnologie, ben esemplificate dall’immagine di un i-phone che sta per essere “scrollato” in copertina, vero e proprio oggetto-feticcio venerato che ha monopolizzato e cambiato gli usi e le abitudini, molto spesso in peggio, di miliardi di persone, sempre connesse col mondo intero, a condividere le proprie vite tramite un mezzo vuoto e freddo come un cellulare, ma in realtà succubi di una rivoluzione antropologica che ha lobotomizzato, omologandoli, i cervelli delle persone, favorendo l’ascesa dell’individualismo più egoistico a discapito del “collettivo” e delle masse che si organizzano e si associano per lottare per i propri diritti e condizioni di vita più dignitose per il 99% del pianeta che non detiene la ricchezza posseduta dal restante avido 1%) per scappare da una realtà fatta di guerre e conflitti bellici perenni, crisi economiche causate dalle storture del sistema capitalistico, disoccupazione, malattie, distruzione del pianeta Terra (per mano dell’essere umano) e diseguaglianze sociali. In un mondo globalizzato, in cui tutto è brandizzato e a portata di click, Kim sceglie di cambiare le carte in tavola, imboccando dei sentieri e percorsi musicali meno prevedibili e comodi (sarebbe stato facile, per lei, ricreare un surrogato dei Sonic Youth e comporre delle nuove “Bull in the heather” o “Kool Thing“) e si disfa delle etichette sbattendoci in faccia e nei timpani (probabilmente facendo anche storcere il naso ai fans dei SY che si aspettavano determinate sonorità da un’indiscussa icona rock ‘n’ roll come lei) un monolite sintetico dotato di una forza d’urto micidiale, avventurandosi tra battiti trap/hip hop (“The candy house“, “Trophies“) dubstep/chill out (“I don’t miss my mind“, “Shelf warmer“) bordate industrial-noise (“It’s dark inside“, “Psychedelic orgasm“, “Tree house“, “True believers” e la conclusiva “Dream dollar“) e testi anticonvenzionali (come nel caso di “I’m a man” – che descrive il senso di smarrimento metrosexual e lo sgretolamento delle certezze patiti dal “maschio alpha” del terzo millennio in piena crisi di identità – e vede la figlia Coco Gordon Moore protagonista del videoclip, e presente anche in quello di “Bye bye“). Se in Italia il mainstream ci propina ventenni che cantano di cumbie della noia, altrove (e meno male) esiste anche e ancora una Kim Gordon che a settant’anni esce dalla sua “comfort zone” e suona più moderna di tante presunte giovani eroine musicali, rimettendosi in gioco con un disco sperimentale, scomodo, impattante e “avveniristico” come “The collective“, che può piacere o meno, ma indipendentemente dai gusti personali, queste opere rientrano tra quelle che non lasciano subito il segno, e che magari non vengono capite-assorbite-digerite nell’immediato ma, in futuro, potranno/potrebbero essere rivalutate e incensate come “nuovi classici”. Una disturbante discesa agli Inferi che scatta una credibile fotografia alla delirante realtà che ci circonda, fedele ritratto di una società alienata e alienante, un faro sulle contraddizioni di questi tempi moderni (e se l’Intelligenza Artificiale, in un futuro non lontano, sarà in grado di creare musica e fare tutto da sé, sostituendo il lavoro degli esseri umani, poi come la mettiamo?) proponendo, come antidoto, la visione di una società anticapitalista e fondata su un collettivismo femminista che possa distruggere l’Io narcisistico degli algoritmi per rimettere al centro un “Noi” multiculturale e internazionalista, riprendersi le strade e il controllo delle proprie vite, tornare a unirsi e fare casino contro il modello imperante di società schiavista, basato sull’odio e sulla catena di sfruttamento perpetrata dai ricchi/forti a danno dei poveri/deboli, e che ci vorrebbe tutti automi come dei robot senza sentimenti. La creatività non manca a miss Gordon, e si spera che la deflagrante esplosione di questi solchi possa indurre più di una persona a spegnere gli smartphones e ad accendere il cervello e riflettere sul messaggio.
La musica dei Red Sun spazia tantissimo fra le nuvole del cielo e i gas dell’universo, con uno stile calmo e potente,…
Sonic Wolves: dalle nebbie del basso piemonte, torna quello che probabilmente è il mio gruppo stoner italiano preferito.
Disco omonimo di debutto per i Phorminx una formazione che fa della ricerca musicale il proprio cardine per orientarsi nell’universo musicale.
Albano Eroina C’eravamo tanto armati: riff campionati e ritmi ossessivi. È rock ma è anche elettronica.
Non è certo un’impresa facile quella di trattare del nuovo album di una band sapendo che in realtà (e con buona probabilità) potrebbe anche esserne l’ultimo perché, poco tempo prima della sua uscita, essa ha perso il suo frontman, membro fondatore e fulcro principale. C’è il rischio di (s)cadere nella retorica ma, nel caso della recente dipartita di Shelley Ganz (avvenuta appena tre mesi fa) si è trattato davvero un (altro) duro colpo inferto alla scena del rock ‘n’ roll indipendente lontano dai riflettori del mainstream, e in particolare agli amanti del garage punk. Nati dalla mente e dal cuore di Ganz – da sempre appassionato cultore del garage rock degli anni Sessanta, fervido ascoltatore e adulatore della compilation “Nuggets” e di band come Music Machine, Chocolate Watch Band, Count Five, Standells, Seeds, Electric Prunes, Shadows of Knight e Syndicate of Sound, e, in generale, un amante dei Sixties, dei quali ha cercato per tutta la vita, con cura maniacale, di tenerne in vita la musica, lo spirito, l’attitudine, l’estetica, l’atmosfera, lo stile e l’etica concettuale – gli Unclaimed hanno mosso i primi passi nella loro natia California agli inizi degli Eighties, avendo in testa la sola visione del recupero delle sonorità del garage rock americano pre-1967/Sgt Pepper’s e dando il via alla stagione del neo-garage e del febbrile ritorno, negli States e in Europa, delle sonorità garage rock e psichedeliche degli anni Sessanta, aggiornate e rinvigorite dalla lezione del punk rock, una scena che sarebbe stata chiamata “garage punk” o “garage rock revival”. Una parabola tanto eccitante quanto travagliata, perché l’ensemble losangelino avrebbe potuto fare molto di più ed essere maggiormente prolifico ma, al momento dell’esplosione del revival neo-Sixties, era di fatto già dissolto (e limitato dall’estremo perfezionismo dello stesso Ganz) poi riformato e tornato a pubblicare dischi sotto un altro moniker quando l’onda lunga del movimento si era ritirata, restando per sempre ancorato al ruolo di precursori del Sixties punk, e la cui importanza sarebbe stata riconosciuta solo diversi anni dopo l’uscita dell’Ep “Moxie“/omonimo e del mini-album “Primordial Ooze Flavored“. Dopo la reunion del 2013, che aveva fruttato un altro Ep, l’ultima testimonianza concreta degli Unclaimed è questo “Creature of the Maui Loon“, full length uscito a metà marzo, praticamente postumo, sulla benemerita label italiana Teen Sound Records/Misty Lane, ormai veterana creatura di Massimo del Pozzo. Un disco che si apre con l’inaspettato garage/bubblegum pop melodico di “The Heart Never Forgets“, un pezzo tra i più melodici mai incisi dal combo di Los Angeles, seguito dal fuzz-beat di “Hunters and gatherers” (tra ritmi primitivi con tanto di “ugh!” e cori pop) ma tutta l’opera è ben messa a fuoco e lo smalto è quello dei giorni migliori, sia nei momenti più leggeri (“Kemosabe“) sia in quelli più energici come nel garage punk DOP di “(Not so good) Queen Bess“, e in “I found a girl” il garage rock classico è venato di inflessioni tiki-surf, mentre la (quasi) title track “Maui Loon” chiude il lato A vinilico con fuzz-beat che omaggia Zakary Thaks e Syndicate Of Sound. “Guitar M’Sheen Gun” apre il lato B con un altro garage revival à la Stems, e un allegro Ganz si mette anche a fischiettare nell’orecchiabile garage/bubblegum pop di “Just Can’t Understand“, e “Calling all girls” è un garage-beat dal piglio grintoso e spensierato. L’intenso beat anthem “I’ll Always Cry For You” apre la parte conclusiva dell’Lp affidata al garage/folk di “Y.D. Girl” e a “Attila the hun“, chiaro rimando al vecchio moniker, posto in chiusura quasi a voler chiudere un cerchio lungo quarantacinque anni. “Creature of the Maui Loon” è, a suo modo, un disco di una bellezza struggente, se lo si considera attraverso l’ottica del rimpianto, pensando a quanto (buonissimo) materiale avrebbero potuto ancora regalarci Shelley Ganz e soci, e in ogni caso, al di là dell’aspetto emotivo (in ricordo del suo autore, questo long playing è già entrato di diritto nella lista degli album più suggestivi e importanti ascoltati, nel 2024, da chi vi scrive) rappresenta un eccellente commiato e il testamento sonoro che attesta definitivamente, e a futura memoria di chi vorrà goderne e trarne ispirazione, l’ottima caratura del materiale proposto dai nostri, sempre improntato sulla purezza del sound e di un ideale spazio-temporale (incentrato anche sul look e un immaginario underground di fumetti e B-movies) cristalizzato sulla prima metà degli anni Sessanta (al massimo 1966) ma riletta con un gusto e una maestria scintillanti. Grazie Shelley, (garage) rock in peace.
Chi l’ha detto che tutte le droghe fanno male? A giudicare dalla bontà del nuovo album dei Black Grape, “Orange Head“, non si direbbe. All’inizio di quest’anno, infatti, la band-supergruppo formata dal frontman Shaun Ryder (e che agli inizi vedeva in formazione anche Bez, altro ex Happy Mondays) e dall’artista hip hop Kermit ha pubblicato il suo quarto lavoro sulla lunga distanza (a sette anni dal precedente “Pop Voodoo“) in tre decenni di (sballato) percorso da combriccola di adorabili debosciati strafatti, tra scioglimenti e reunion. Come da “tradizione” baggy, e con uno spirito festaiolo che si riallaccia ai giorni migliori dell’universo MADchester (un lungo e allucinato happening indie-dance psichedelico, più che una scena musicale vera e propria) questo disco sprizza anni Novanta da tutti i solchi, colorato da un sound in cui, come sempre, convergono e si mischiano acid house, hip hop, rock ‘n’ roll, dance, funk e soul in un’orgia psicotropa che, per un’oretta abbondante, sembra riuscire a far catapultare l’ascoltatore – corpo e anima (e paradisi artificiali annessi, anche se oggi i nostri si sono ripuliti e rimessi in riga) – nell’atmosfera di un concerto all’Hacienda mancuniana di fine Eighties/inizio Nineties. Ryder e Kermit dimostrano di essere ancora in discreta forma e ogni brano del full length (registrato in Spagna e prodotto e mixato in maniera impeccabile da Youth, che ha anche suonato chitarra, basso e synth) è un potenziale banger da dancefloor: tra la slow techno rappata dell’apripista “Dirt“, le stramberie funk di “Pimp wars“, “Button eyes” (quest’ultima con fragranze latino-caraibiche) di “Quincy” e “Losers” (che suonano quasi come outtakes degli Happy Mondays), lo spaghetti-electro-western di “In the ground” (il cui testo amaro, e pieno di riflessioni sulla propria vita, è dedicato da Shaun Ryder al fratello Paul, ex membro degli Happy Mondays, deceduto due anni fa) l’acid house da rave party di “Panda” (in cui Ryder dice beffardamente che “we’re getting old like The Rolling Stones!”) il riuscito e trascinante big beat di “Milk” (forse il momento migliore dell’album, una dance song che punta tutto sulla pienezza del sound e su una formula che ha fatto le fortune, tra gli altri, dei Chemical Brothers) riletture del Peter Gunn theme (in “Self harm“) il trip hop “westernato” dubbato à la Massive Attack (in “Sex on the beach“) e le ottime bonus tracks (“Limelight“, la dark trip hop love song sui generis “Part of everything” e la lisergica, Underworldiana killer tune da loop notturno “Liquid sunshine“) il trip è assicurato. Ryder sa essere ancora credibile nel ruolo del raw from the suburbs, coatto ma a suo modo saggio perché consapevole della sua condizione di classe, con un approccio street che fa ancora breccia nella cultura popolare britannica e riesce a parlare e arrivare ai giovani e, in generale, a tutti quelli che si riconoscono in un’attitudine stradaiola e working class: non a caso un certo Tony Wilson lo elevò al rango di poeta di pari calibro di W.B. Yeats! “Orange head” si conquista, senza dubbio, un posto di rilievo tra le sorprese e i dischi più stravaganti e divertenti del 2024. Ryder e Kermit, nonostante tutte le loro vicissitudini, sono ancora vivi e sul pezzo, e già questa è una notizia da salutare con gioia. Still twisting melons, maaan!
Rock e fantascienza, argomento curioso che inevitabilmente tende ad allargarsi verso altri generi musicali, specialmente quelli in grado di creare effetti/illusioni sonore abili a rimandare all’immaginario futuristico, dai beep di una console di volo ai vari fuzz dei laser. Praticamente è facile scivolare nell’elettronica.
Esclusivo da Flamingo Records: Big Paws offre un dischetto unico nel suo genere. Scoprilo ora!
L’ultima volta che io e il mio socio abbiamo passato in radio gli Sdh, mi chiesi piuttosto oziosamente quali fossero le parole che si nascondono dietro l’acronimo, la sigla Sdh.
Con buona pace dei ragazzi di “Trainspotting“, alla fine essere scozzesi, in fondo, non è poi così merdoso, se si pensa che in quelle terre, circa quaranta anni fa, germogliò una scena indipendente minimalista jangle/guitar/bedroom/twee/dream/noise pop che ci ha regalato gruppi come Vaselines, Pastels, Shop Assistants, Primal Scream (o almeno, quelli pre-“Screamadelica”) e altre band meno note, ma ugualmente parte di un macrogenere (brillantemente raccolto nelle compilation “C86“) i cui tratti caratteristici risiedevano in un’idea concettuale fondata su un approccio primitivo, DIY e lo-fi alla materia musicale, basata su canzoni (generalmente della durata compresa tra i due e i tre minuti) con strutture melodiche pop deturpate da strati di feedback e distorsioni, una formula che a fine anni Ottanta/inizio Novanta raccolse entusiastici consensi soprattutto nell’universo indie rock statunitense (con gli “endorsement” ricevuti da Calvin Johnson della scena punk di Olympia e, specialmente, da Kurt Cobain che adorava i Vaselines e i primi album dei Teenage Fanclub, altra formazione indie/alternative scottish). Insomma, sarà pure stata “aria fresca che non cambia uno stracazzo di niente” – parafrasando ancora Mark Renton e soci – ma ha comunque delineato e definito un certo modo (sonoro ed estetico) di declinare il rock ‘n’ roll (proseguendo nel solco tracciato dalla rivoluzione “politica” del punk rock) riportandolo alla sua essenza e spogliandolo di orpelli virtuosistici e onanismi di tecnica strumentale. Di quella scena scozzese, sicuramente le figure di spicco e gli esponenti più importanti sono stati – e continuano a esserlo – i Jesus and Mary Chain, capitanati dai fratelli Jim e William Reid, che partendo dai dintorni di Glasgow a metà Eighties, dopo gli inizi sulla Creation Records del mitico Alan McGee (che li aveva notati e lanciati) arrivarono a sconquassare il mondo dell’indie britannico col loro folgorante Lp d’esordio “Psychocandy” che ha fatto scuola col suo concetto di rumorismo che si faceva melodia, con armonie pop affogate in un muro di suono chitarristico stordente. Dopo quell’album spartiacque (che aveva consacrato i JAMC come una tra le band più influenti della storia del rock ‘n’ roll, nonché precursora della scena shoegaze mondiale) i nostri hanno fatto parecchia strada, tra ottimi dischi (“Darklands“, “Automatic“, “Honey’s dead“) peccati di gioventù (soprattutto errori di valutazione discografica che hanno portato a dispute giudiziarie con le major) eccessi e problemi personali tra fratelli che causarono, nel 1999, un momentaneo scioglimento, poi interrotto nel 2007 con la ripresa delle attività che, dieci anni più tardi, avrebbe visto l’uscita di un Lp ufficiale a quasi due decenni di distanza dall’ultimo studio album (“Munki“) con la comparsa di “Damage & Joy“. Esauriti i problemi contrattuali con le multinazionali, per i Jesus and Mary Chain si è aperta una nuova fase con la firma, due anni fa, per la label indipendente londinese Fuzz Club Records, che ha segnato un nuovo inizio per i fratelli Reid, finalmente liberi di incidere materiale per una etichetta “a misura d’uomo”, che ha investito tanta pazienza ed energia su di loro, spinta dall’entusiasmo di avere nel roster una band che ha ispirato tutti i gruppi che hanno lavorato con Fuzz Club e che rappresenta un patrimonio musicale e culturale da tramandare. Dopo una serie di ristampe del catalogo e la pubblicazione del disco dal vivo “Sunset 666“, il primo frutto sostanzioso della collaborazione tra gruppo ed etichetta inglese si è concretizzato, senza dubbio, nell’uscita di questo nuovo long playing, “Glasgow Eyes“, ottavo lavoro sulla lunga distanza dei nostri, che avevano iniziato a registrare nuovo materiale poco tempo prima che esplodesse la pandemia da covid-19, che aveva ritardato il processo di creazione delle canzoni, per poi riprenderlo dopo due anni di assenza forzata, completando le incisioni, appunto, a Glasgow. A quaranta anni dai loro esordi, e risolti i dissidi tra fratelli-coltelli (o comunque tenuti al minimo, e di certo aiuta il fatto di vivere lontanissimi: uno in America, l’altro in Inghilterra) e coadiuvati dall’attuale line up (Mark Crozer al basso, Scott Von Ryper alla chitarra e Justin Welsh alla batteria) questo nuovo full length si apre subito con un duetto femminile nell’energico apripista “Venal joy” che, tra synth e distorsioni, vede come guest vocalist Fay Fife: uno schema simile, ma più cadenzato e dai risultati non brillantissimi, si ripete nella successiva “American born“, forse uno dei momenti più deboli e prevedibili del disco, mentre interessante è l’esperimento di elettronica dark in “Mediterranean X film“. Ma è senza dubbio il singolo “jamcod” il pezzo più esemplificativo del nuovo corso dei Reid, fondendo l’elettronica col caratteristico guitar sound grezzo e le consuete armonie vocali dei fratelloni. “Discotheque” è un’altra piccola chicca dell’Lp, con le sue ritmiche motorik robotiche à la Neu! impastate e fritte nel post-punk da rockoteca, a cui fa seguito il convincente drone stonato di “Pure poor“, una sorta di ballad dissezionata e allucinata. C’è spazio per un divertissement in “The Eagles and The Beatles“, che oscilla tra ritmi che sembra citare la celeberrima “I love rock ‘n’ roll” (nella versione di Joan Jett) e liriche goliardiche che tirano in ballo i Rolling Stones (Mick, Keith, Bill, Charlie and Brian Jones) i Beach Boys, Bob Dylan, gli Small Faces e i Sex Pistols (ai quali i fratellozzi furono paragonati, dalla stampa musicale, agli inizi della loro parabola artistica, a causa delle provocazioni e del “caos premeditato” con cui i Reid incendiarono le fantasie di pubblico e addetti ai lavori). “Silver strings” si regge ancora su un’anima sintetica che pervade anche la seguente “Chemical animal“, che si riallaccia al passato col suo beat di Spectoriana memoria che può far richiamare alla mente classici come “Just like honey” e “Some candy talking”. La parte conclusiva dell’opera è affidata a “Second of june” (altra semi-ballad, stavolta non ispiratissima), l’allegra – e con improbabili/involontari echi di Judas Priest – “Girl 71” che vede un’altra ospitata alla voce (quella di Rachel Conti, partner di Jim Reid) e “Hey Lou Reid“, altra boutade che suona come un omaggio a Lou Reed (manco a dirlo, e con tanto di gioco di parole tra Reed e il cognome Reid di Jim e William) e ai Velvet Underground, per poi stopparsi a metà percorso e diventare quasi un brano degli Spacemen 3. Un ritorno a casa? A parte il rimando alla terra natia e alle propre radici, sì e no. Perché il consueto maelstrom di melodie, feedback e noise controllato c’è ancora (anche se in maniera meno marcata rispetto al passato) ma in “Glasgow Eyes“, concepito per essere una ripartenza e un secondo capitolo che si apre nel percorso musicale dei Jesus and Mary Chain, sono presenti massicce influenze elettroniche di band come Suicide, Kraftwerk et similia (un mondo che ha da sempre affascinato i Reid brothers) oggi non più “tenute a bada” ma rese parte integrante del loro processo compositivo che, nonostante quaranta anni di scombinata avventura sul groppone, si basa sempre su un approccio creativo spartano e senza fronzoli, rimasto simile a quello dei primi album (soprattutto “Darklands”, che fu registrato con l’ausilio della batteria elettronica) ora aperto, però, anche a nuove soluzioni sonore, sebbene in linea con l’evoluzione discografica dei Reid, che quest’anno hanno in uscita anche una autobiografia e un documentario. Di certo questo semi-ritorno alle radici ha offerto, senza tema di smentite, il miglior materiale pubblicato dall’ensemble scozzese – al netto del temporaneo scioglimento – da venticinque anni a questa parte. E a sessant’anni può essere naturale (e fisiologico) non avere più la sfrontatezza e l’irriverenza sonica dei vent’anni, ma il dolce frastuono resiste ancora alla barbarie del tempo-mondo canaglia e, per adesso, va bene così.