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Recensioni Rock

Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.

SONGS THE WEB TAUGHT US VOL. 15

Bentornata, gentaglia di poca fede, nuovo appuntamento (primo di questo nuovo anno) con “Songs The Web Taught Us“. Perdonate la lunga assenza, ma il vostro Reverendo è stato parecchio indaffarato, tra gli ossequi all’immacolato cuore di Mari(juan)a, la consueta gita natalizia a Betlemme per salutare la nascita del Principale con due padri e una madre surrogata (perché noi kattolicy dobbiamo essere contro l’utero in affitto e dare la priorità alla famiglia naturale e tradizionale, come ci ricorda sempre anche Giorgiona la madre kristiana!) e il tour europeo di rosari e sermoni gospel in supporto alla musica del nostro vescovo e le sue suore groupies. Sempre più schifato dalla piega guerrafondaia in cui questo malandato pianetaterra continua a perserverare, eppur bisogna resistere e, finché si può, tenere la barra dritta e far fronte alle avversità con un’infornata di nuova musica da ascoltare, e che il vostro Rev ora vi consiglia per scaldare queste fredde (anzi, mica tanto) giornate d’inverno (speriamo mai nucleare). Cominciamo con l’album d’esordio dei Titane, trio pugliese (composto da “Fish McRave” alla voce e chitarra, Francesco Natilla al basso/chitarra e “Roy Frittata” alla batteria e percussioni) che negli ultimi mesi del 2023 fa ha pubblicato il suo Lp di debutto, intitolato “HYPERSPACE” e uscito sulla label tedesca Clostridium Records. Il terzetto di Bari propone otto brani caratterizzati da un sound ben messo a fuoco, e di pregevole fattura, che oscilla tra componenti stoner/psych e sonorità imbevute di doom corposo e oscuro, il tutto ammantato di un’aura psichedelica psicotropa. Mostri interiori, guerre per la sopravvivenza, sesso, violenza, litanie per dèi pagani e visioni desertiche sono le coordinate da impostare per affrontare questa discesa verso gli inferi più macabri e tetri. HYPERSPACE by titane Continuiamo con la seconda band consigliata, che stavolta proviene dalla Francia e si palesa, fragorosamente, sotto forma di un altro trio, i //LESS, la cui peculiarità risiede nell’essere un gruppo rock ‘n’ roll senza chitarra, ma composto soltanto da una batteria e ben due bassi iperdistorti e carichi di effetti, per una formula ugualmente incendiaria che deflagra in un noise/punk (con echi industrial e attitudine post-HC) torrenziale e urticante. I nostri hanno all’attivo un Ep intitolato “Social disappointment“, distribuito su varie etichette, in cui vengono sparati sei brani in cui riecheggiano, ferocemente, influenze che vanno a pescare in torbide acque sonore che puzzano di Killing Joke, Swans, Helmet, Godflesh, Jesus Lizard e compagnia rumorista. Una putrida palude da cui non uscirete salvi, se vi ci immergerete. SOCIAL DISAPPOINTMENT by //LESS Dalla Francia rientriamo in Italia e atterriamo nella città dalla Torre Pendente, Pisa, dove ad accoglierci troviamo i suoni ruvidi e grezzi di One Man Buzz!, one-man band che omaggia Buzz Osborne dei Melvins nel moniker, ha come musa artistica il blues (è la musica del diavolo, del resto…) e si definisce “nato da una relazione sessuale tra il diavolo e una donna messicana, mezzo umano e mezzo dèmone che conduce una vita dissoluta, fa i conti con le perversioni/contraddizioni della razza umana e con la sua chitarra fa ballare “gringos y chicas”, suscitando risate, disgusto e amore“. Il nostro, già ex frontman dei Bugz, canta on stage indossando una maschera demoniaca (ispirato da Bob Log III e altri funamboli) e suonando chitarra, drum machine e grancasse. Sul finire del 2023 ha rilasciato, dalle fiamme dell’inferno, diversi singoli e un nuovo album, “One man band from hell with love and flames“, completamente autoprodotto, composto da nove pezzi, tra riarrangiamenti di repertorio e nuove composizioni, che si rifanno alla (non) scuola dei “supereroi” monobanda (King Automatic, il nostro vescovo, Dead Elvis and so on…) ma rinforzati da una spolverata sonica di stoner à la Queens Of The Stone Age/Josh Homme (altra passione dichiarata). Si consiglia di accompagnare l’ascolto di questa musica incendiaria (particolarmente in sede live) con una bottiglia di tequila, whisky, rum, vino o, nel peggiore dei casi, una (o due, o tre, o quattro, o cinque…) strong ales! Col freddo e i rigori dell’inverno mi sembra più che appropriato proporre il moniker di un ensemble chiamato SPIRITO DI LUPO, italiano (di stanza tra Milano e Bologna) ma che ha inciso l’album di debutto, “Vedo la tua faccia nei giorni di pioggia” (2023) su etichette estere (prodotto e distribuito dalla Iron Lung Records di Seattle e dalla punk/HC label londinese La Vida Es Un Mus). I nostri, già attivi nel circuito underground (Kobra, Horror Vacui, Cerimonia Secreta, Skalp) avevano già esordito con un Ep (intitolato semplicemente “4 canzoni“) uscito su Sentiero Futuro Autoproduzioni, riprendono sonorità e tematiche cari alla scena anarcho-punk britannica e italiana, trasportando l’aggressività sonica-cacofonica dei Discharge, degli Indigesti e dei Wretched nel nuovo millennio, e fondendola a incursioni analogiche nell’elettronica minimale, il tutto sublimato furiosamente in un cantato a due voci (quella maschile di Francesco Goats, che ha curato anche l’artwork del disco, e quella femminile di Vittoria) che può rimandare ai Contrazione e squarcia l’aria con liriche che urlano di temi ambientalisti e pacifisti cari a Crass e compagnia. Inner peace punk! Vedo La Tua Faccia Nei Giorni Di Pioggia (LUNGS-250) by SPIRITO DI LUPO E chiudiamo questa rassegna immacUlata fermandoci in Puglia, dove troviamo i couchgagzzz, nuovo progetto a tinte budget rock formatosi nel 2021 in uno scantinato di Bari e composto da “JJ” (batteria e voce, già nei Santamuerte) “BB” (basso e voce) “Garko” (chitarra e voce) e “Snafu” (synth e chitarra). Ci fanno sapere che sono fissati con gli steroidi e con gli sport, e “gonfiano” le loro passioni assumendo grosse quantità di rock ‘n’ roll di matrice australiana. Budget rock dopato (appunto) che racconta di vittorie sudate e campioni sconfitti, chitarre nervose che mostrano i muscoli e synth-punk coi denti serrati. L’otto marzo è in arrivo il loro album di debutto, intitolato – tanto per gradire – “Gosports!!!“, che uscirà su Ciqala Records/Side 4 Records e conterrà 8 brani sotto steroidi (registrati a luglio 2023 presso il VDSS Recordings Studio) che corrono elettrici, veloci e taglienti al traguardo, dopo poco più di 20 minuti dall’inizio della gara, e che rappresenteranno la colonna sonora ideale per i vostri allenamenti all’aperto, a casa o in palestra. E ai primi dieci che telefoneranno, regaleranno un mese di abbonamento gratis. Chiamate subito il numero… ehmmm scusate, mi ero lasciato prendere dalla modalità televendita. Nell’attesa, hanno condiviso la title track e, ovviamente, non vediamo l’ora di ascoltare l’intero full length. E intanto cominciate a fare stretching. L’amore per l’underground dà solo buoni frutti. Come sempre, cari fratelli e sorelle, prendete e ascoltatene tutti, spargete il verbo e acquistate anche, se potete. Fuzzamen!

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J. MASCIS – WHAT DO WE DO NOW

J. Mascis è un porto sicuro in cui rifugiarsi quando si ha bisogno di certezze e si vuole scappare dalla mediocrità generale imperante e dalla musica dimmmerda che ci circonda (soprattutto in questo periodo in cui imperversa ancora l’olezzo maleodorante dell’onda lunga del pre- e post-festivàl di Sanscemo). Che pubblichi materiale come frontman dei Dinosaur Jr. (in veste più elettrica distorta) o come solista (in una dimensione più cantautoriale e intimista) sai sempre cosa aspettarti dal nostro: una formula consolidata che miscela la capacità di far piacere e rendere accattivanti alle nostre orecchie lo stile slacker, litanie miagolanti e gemiti scazzati, cantati con tono apatico e lamentoso (tipico di Neil Young) a un’incredibile abilità chitarristica che, all’interno del panorama dell’alternative rock/indie rock (americano e mondiale) hanno fatto del lungocrinito polistrumentista di Amherst (Massachusetts) una anomalia che, quasi quattro decenni fa, coi Dino, mandò in cortocircuito la scena HC punk statunitense “cooptandola” con un pot-pourri di heavy/hard rock, punk/post-punk e noise pop fatto di incredibili fraseggi e assoli alla chitarra talmente intricati e vorticosi da poterli considerare una sorta di bignami Hendrixiano frullato e sputato fuori alla velocità della luce, il tutto filtrato dal retaggio hardcore, riuscendo a creare un marchio di fabbrica trasversalmente apprezzato e aprendo una strada che contribuì a portare all’esplosione dell’universo del R’N’R underground e della sua irruzione nel mainstream nel fatidico 1991, l’anno in cui punk broke. E così, tra un “Fuck patriarcato” e uno “Stop al genocidio” (slogan più che giusto, peccato però che provenga da chi era, solo qualche anno fa, testimonial italiano degli spot pubblicitari di una nota multinazionale statunitense del fast food/cibo spazzatura che foraggia le politiche di pulizia etnica perpetrate da decenni da un certo Stato invasore ai danni di popoli confinanti a est del Mediterraneo, ma vabbè) per fortuna abbiamo ancora il potere di spegnere la televisione e ignorare il teatrino montato ad arte delle polemiche da social network, e allora torniamo nel mondo reale e accogliamo questo nuovo album solista di J Mascis, “What do we do now“, uscito a inizio febbraio su Sub Pop Records e arrivato a sei anni di distanza da “Elastic Days“. Il disco è stato concepito da J durante il periodo pandemico nel suo Bisquiteen studio, assemblando melodie in acustico e lavorando sulle canzoni con una dinamica differente rispetto alle composizioni create per la band madre (dove deve tenere conto delle parti di basso e batteria da assegnare a Lou Barlow e Murph) concentrandosi soltanto sulla sua sfera artistica personale ed elaborando il materiale prettamente in maniera acustica, anche se in “What do we do now” le chitarre elettriche non mancano e, senza dubbio, questo è forse il suo Lp in proprio (seppur coadiuvato dal pedal steel guitar di Matthew “Doc” Dunn, e al piano/tastiere da Ken Maiuri) che si avvicina maggiormente alle atmosfere dei Dinosaur Jr (soprattutto quelli post-Barlow dei metà Nineties di album come “Where You Been” e “Without a sound“) con parti di batteria stavolta onnipresenti e assoli chitarristici ben assestati. Mixato e masterizzato da due mostri sacri come Greg Calbi e il collaboratore di lunga data John Agnello, il full length è ben messo a fuoco, probabilmente difetta un po’ di prolissità (quasi tutti i pezzi superano i quattro minuti di durata e magari sarebbe stato meglio “asciugarne” la lunghezza) ma la sostanza c’è e si innesta, come detto in precedenza, su una impostazione acustica folk poi arricchita dalle distorsioni elettriche (con liriche che trattano di incomunicabilità, incomprensioni, alienazione dettata dalla fine di una relazione, ma c’è anche spazio per ottimismo, sogni e voglia di amare) e ne abbiamo subito dimostrazione nell’opener “Cant’ believe we’re here“, passando poi per la title track, “Right behind you“, “You don’t understand me” e “I can’t find you“, in cui influenze country-Americana si fondono con guitar solo classic rock. “Old Friends” e “It’s true” sono i momenti dell’opera che più si richiamano al feeling 90’s del Dinosauro, mentre la parte conclusiva ritorna al dualismo acustico/elettrico della matrice folk/Americana/country rock di partenza con “Set me down“, “Hangin’ out” e “End is gettin’ shaky“. E quindi, cosa facciamo adesso? Intanto aspettiamo Mascis in Italia in tarda primavera/inizio estate in tour coi Dinosaur Jr, e poi vorrei rivolgergli una frase magari banale, ma che in fin dei conti non lo é: Grazie per esserci ancora e continuare a sfornare album per noi appassionati. A 58 anni (di cui quaranta trascorsi sulle scene) J è un musicista affermato che ha collaudato uno stile, sa in che modo vuole suonare e si è meritato sul “campo di battaglia” – su cui ha combattuto non con le armi, ma da “inattivista” con le sue chitarre e un muro di ampli – gloria e riconoscimenti “indie” (da Kurt Cobain che lo avrebbe voluto nei Nirvana, alle collaborazioni con Mark Lanegan, ai Sonic Youth che, in una canzone, avevano fantasticato su di lui come ipotetico presidente degli Stati Uniti) non ha più nulla dimostrare a nessuno ma, forse, proprio in virtù di questa consapevolezza, si potrebbe leggere il titolo del long playing anche come il segnale di un momento di incertezza che potrebbe preludere a una pausa di riflessione sulla prossima mossa da compiere: tentare nuove strade musicali o restare fedeli a se stessi, riproponendo all’infinito la “comfort zone” di un ventaglio di sonorità che tutti noi amiamo, però a costo di difettare, alla lunga, di qualità e ispirazione? Non lo sappiamo, e “WDWDN” non passerà di certo alla storia del rock ‘n’ roll come un capolavoro o una pietra miliare, ma è un lavoro solido e intanto ci prendiamo questi dieci brani e ci piacerebbe preservare il talento di questo (anti)eroe ancora per tanto tempo a venire.

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FUZZTONES – LIVE AT THE DIVE ’85

Il Dive, a New York, è stato un mitologico club assurto a Mecca del garage punk, o “garage revival”, ossia quel (sotto)genere nato, agli albori degli Eighties, unendo in un matrimonio distorto e fuzzato il garage rock pre-1967 (anno in cui ci fu l’avvento del disco-monolite “Sgt Pepper’s” dei Beatles, evento considerato come una sorta di “perdita dell’innocenza” del beat/rock da ragazzini teenager scapestrati e l’inizio della stagione dei concept albums seriosi e della “istituzionalizzazione” dell’album pop-rock concepito alla stregua di un’opera d’arte e musica a cui prestare attenzione in maniera impegnata) e la furia iconoclasta del punk ’77, una riscoperta e rivalutazione (iniziata, già nel 1972, con la nota compilation “Nuggets“, e poi proseguita con la varie serie di “Pebbles“, “Back from the grave” e affini) delle sonorità del rock ‘n’ roll dei gruppi di metà anni Sessanta più oscuri (spesso semiamatoriali e quasi tutti composti da adolescenti) che registravano la propria musica – specialmente i singoli, come meteore a 45 giri – nei propri garage casalinghi, in modo volutamente sgraziato e con suoni grezzi, con l’idea di deturpare il pop smielato da hit parade. E, tra le punte di diamante di questa febbre “Neo-Sixties” che agli inizi degli anni Ottanta contagiò la Grande Mela (e non solo, leggasi la parabola degli sfortunati prime movers californiani Unclaimed) ci furono sicuramente i newyorchesi Fuzztones, tra i massimi esponenti di quel magma incandescente underground animato da zazzere, occhiali scuri, pantaloni di pelle nera, minigonne, go-go dance, riverberi, pedali Fuzz-Tone Maestro Gibson (ma anche Danelectro e Arbiter) organi Vox Continental (e Farfisa Combo Compact e Ace Tone) chitarre Rickenbacker (e Vox Starstream e Fender Mustang e Phantom Mark Iv) amplificatori Vox AC30, acidi, “funghi”, stivaletti e camicie Paisley, il tutto filtrato attraverso l’ottica del punk rock (le cui ceneri della prima ondata erano appena state sparse sul palco del CBGB’s, ma anche in Inghilterra e in Europa). La band, ancora oggi capeggiata da Rudi Protrudi, e sempre viva e attiva a suonare in giro per il mondo (con quaranta anni di percorso, fresca di un album celebrativo fatto di cover e inediti, e in procinto di realizzare un docufilm, oltre a un garage album solista di Protrudi) sin dagli esordi è stata tra i maggiori – e più noti – catalizzatori di questo movimento-culto che, come ogni “dogma” che si rispetti, aveva i suoi rituali (la vita notturna, i concerti a notte fonda, gli happening neopsichedelici di “Mind’s Eye”) e il suo tempio, che a New York fu appunto il Dive, un locale che poteva contenere fino a un massimo di cento persone, e frequentato assiduamente da weirdos, freaks e misfits (non il gruppo!), che ha visto esibirsi tutta la crema della scena garage punk di NY (The Vipers, Mad Violets, Tryfles, Outta Place, Cheepskates, Mosquitos) un luogo di perdizione oggetto del disco dal vivo che andiamo a trattare, “Live at the Dive ’85“, incisione di un concerto tenuto dai ‘Tones quasi quattro decenni fa, e pubblicato dalla benemerita label pisana Area Pirata, etichetta fieramente indipendente che ha fatto del DIY il suo credo etico e che continua a perseguire, da un lato, il presente delle uscite delle band del suo roster (in continua espansione) e a rinnovare, dall’altro, la sua meritoria opera di ripescaggi di chicche del passato come questo full length. Registrata a New York nel 1985, poco prima della chiusura dello stesso Dive, e alla vigilia del loro primo tour europeo (a supporto del loro secondo Lp, “Lysergic emanations“, tra i capisaldi del genere) questa esibizione cattura(va) su nastro i nostri in azione nella loro line up classica (con Rudi frontman/chitarrista e líder maximo del progetto, seguito da Deb O’ Nair alle tastiere e voce, Elan Portnoy alla chitarra, Michael Jay al basso e Ira Elliot alla batteria e voce) e perfettamente a loro agio nel relazionarsi con disinvoltura con un giovane e (si percepisce chiaramente) caloroso pubblico di appassionati, smaniosi di ballare e saltare e cantare con Rudi, rendendo l’atmosfera (già gonfiata da alcool, sesso e droghe) ancor più elettrizzante. Ma ciò che fa di questa gig una rarità è sicuramente la presenza, in scaletta, di cover di brani di ensemble contemporanei “rivali” come i Lyres (“Help you Ann“) i Cheepskates (“Run better run“) e i Chesterfield Kings (“She told me lies“) oltre al rifacimento di un pezzo garage rock 60’s (accanto a “1-2-5” degli Haunted e “Cinderella” dei Sonics, poi diventati classici del repertorio live) “Numbers” (Terry Knight & The Pack) mai più riproposto in seguito. E sono degne di essere menzionate anche le versioni di “Me Tarzan, you Jane“, “It came in the mail” e “One girl man“, tre canzoni all’epoca ancora non incise e inedite. La qualità lo-fi delle registrazioni, invece di penalizzare il risultato finale, enfatizza l’energia e la genuinità della prestazione on stage, e si possono avvertire nitidamente l’eccitazione e il divertimento che sprigionavano dalla serata, con la band galvanizzata dal responso entusiasta ricevuto dai Fuzzfreaks accorsi al concerto per godersi un gruppo nel pieno della sua teenage lust, che sciorina una setlist in bilico tra l’omaggio ai maestri (gli Shadows of Knight di “Bad little woman“, gli Human Expression di “Love at psychedelic velocity“, “Journey to Tyme” di Kenny & The Kasuals o nel singolone “We’re pretty quick” delle meteore Chob) e pezzi propri in cui dimostrano di aver assorbito la lezione del garage rock in maniera impeccabile (come in “She’s wicked“, divenuto negli anni un altro evergreen). Direi che ci sia abbastanza materiale per infiammare la vostra curiosità e voglia di R’N’R, quindi fate vostri questi solchi (a proposito, Protrudi ha detto che ha ancora conservati tanti live tapes degli anni Ottanta che magari, in futuro, vedranno la luce) e, se ne avete l’opportunità, andate a vedere i Fuzztones in concerto anche oggi, perché vale sempre la pena, l’età è relativa quando c’è ancora l’ardore e la volontà di mangiarsi i palchi e, nonostante le quattro decadi sul groppone (e le settanta primavere abbondanti di Rudi) il garage rock non presenta nemmeno un capello bianco, perché è una musica che suonerà sempre fresca, in quanto essenziale, esuberante, ricolma di quel nettare adolescenziale che ci farà sentire per sempre sbarbi e cool. Live At The Dive ’85 by The Fuzztones

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The Mourning After - Lately / Quit Bazar 7"

The Mourning After – Lately / Quit Bazar 7″

Pronti alla bisogna per assolvere nel migliore dei modi tale irrinunciabile esigenza ecco qui per me e per noi tutti, direttamente da quel di Sheffield, i veterani e collaudatissimi Mourning After ed il loro 7″ licenziato in questi giorni dalla Rogue Records.

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Louise Lemón – Lifetime of tears

Louise Lemón si colloca vicino ma oltre cantanti come Pj Harvey, Lana Del Rey etc, e un giorno si parlerà di lei come oggi si parla di loro, nel frattempo riscaldiamoci qui.

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THE DEVILS – LET THE WORLD BURN DOWN

Appena usciti dal delirio del circo sanremese (a proposito… se lagggente italica pensasse a risolvere i gravi problemi che flagellano l’Italia con la stessa attenzione maniacale e lo stesso fanatico trasporto emotivo, quasi da guerra santa religiosa, con cui si occupano del festivàl di Sanscemo, il nostro Paese sarebbe il posto migliore al mondo dove vivere) gli italiani devono (o almeno, dovrebbero…) disintossicare orecchie e cervelli. E un buon modo per farlo glielo fornisce un duo proveniente da Napoli. No, Napoli non è solo “Un posto al sole”, “Gomorra”, “Il castello delle cerimonie”, “Mare fuori”, disagiati semianalfabeti diventati “star” sui social network e altro trash mediatico/televisivo/telenovele/fiction stereotipate. Napoli, quando vuole, dalle sue viscere sa anche partorire figli che sanno offrire al mondo del sano e genuino rock ‘n’ roll, e i Devils ne sono un ottimo esempio. Dal 2015 a oggi, infatti, Erica “Switchblade” Toraldo (batteria e voce) e Gianni “Blacula” Vessella (chitarra e voce) hanno esportato un lato diverso (e, per certi versi, “insolito”) del capoluogo campano, “blasfemo”, selvaggio e alternativo ai soliti luoghi comuni partenopei sulla comicità/ospitalità (e soprattutto sulla piaga della musica neomelodica in odore di malavita organizzata) suonando in giro per i palchi italiani ed europei (e con qualche data anche in Canada) esibendosi in oltre cinquecento concerti. Questi ragazzi se ne fottono della solarità/empatia meridionale e del trademark napoletano pizza/cibo/mare/sole/ammmore/mandolino e quando salgono on stage ti sbattono in faccia uno spettacolo crudo, fragoroso, scorbutico e iconoclasta, con un immaginario che si nutre di b-movies, sonorità punk/blues/fuzz/noise, tanta sconceria e caos pagano. Erica e Gianni, dismessi ormai da qualche tempo i travestimenti in “abiti talari” da suora invasata e prete deviato (perché – come ci hanno spiegato in una nostra intervista – prima credevano che la genesi del male fosse la Chiesa cattolica con la sua farsa della divinità, mentre ora hanno scelto di colpire direttamente alla matrice: l’umano, cioè colui che ha partorito l’idea di dio perché il suo nemico non è il peccato ma la morte, e Dio è solo il marchio dell’impostura e della stupidità umana che oltraggia l’unica cosa realmente onnipotente, la Natura, e le religioni sono come le lucciole: per risplendere hanno bisogno dell’oscurità) non hanno certo ammorbidito la ragione sociale del loro moniker, ne hanno solo modificato i dettagli, ampliando il loro ventaglio sonico verso lidi heavy/psych rock (frutto della collaborazione col noto musicista e produttore Alain Johannes nel loro precedente long playing, “Beast must regret nothing“, datato 2021, che poteva vantare anche un featuring del compianto Mark Lanegan in un brano) affiancando, oltre alla tensione sessuale “scandalosa” dello show carnale sul palco, anche il concettuale disgusto per il genere umano, avversione esemplificata anche nel titolo del loro nuovo full length, “Let the world burn down“, quarto studio album complessivo dei nostri, nonché secondo pubblicato su Go Down Records (includendo anche il disco dal vivo “Live at maximum festival“, uscito lo scorso anno) dedicato espressamente “ai fratelli e alle sorelle che si sono rotti il cazzo della razza umana“. “Let The World Burn Down” è il quarto capitolo di questa “saga demoniaca” che vede confermato il sodalizio artistico tra i Devils e il navigato Johannes (molto apprezzato per il suo approccio versatile alla musica, e che in studio ha dato modo ai ragazzi di apprendere e sperimentare) che riesce ancora una volta a potenziare il sound del duo senza snaturarlo. Le nuove canzoni – come ha rivelato il power duo – sono nate dopo l’esperienza del lockdown pandemico, quando si temeva che non ci sarebbero più stati spazi per organizzare concerti e occasioni per suonare dal vivo, e al conseguente sconforto dovuto a questa probabile prospettiva (per fortuna scongiurata) Gianni ed Erica avevano reagito tuffandosi a capofitto nella composizione di nuovi brani, spinti dalla voglia di allargare i propri orizzonti musicali e traendo energia e ispirazione dall’ascolto di tanto blues e soul, genere omaggiato nella cover – riarrangiata alla Devils maniera, cioè rumorosa e fracassona – di “Big City Lights” (Wilkerson Brown). E non è l’unico rifacimento, perché i nostri mettono mano anche a un singolone rockabilly come “Teddy Girl Boogie” (col titolo riadattato da “Teddy Boy Boogie” di C. Grogan & L. Needs) con ottimi risultati. Ma il cuore del disco resta la conferma della formula adottata nel precedente full length: un mosaico sonoro compatto, smussato degli angoli più estremi del loro distorto muro di suono, che privilegia una maggiore messa a fuoco dei brani, arrangiati (sotto la sapiente guida di Johannes) e bilanciati in modo da far coesistere melodia e marciume. Questo processo coinvolge praticamente tutti i dieci pezzi dell’Lp, a cominciare dal singolo apripista “Divine is the illusion“, che parte cadenzato per poi deflagrare nei suoi dream beats tribali e il suo riffone blues imbevuto di heavy rock che riecheggia stilemi che hanno fatto le fortune di formazioni come Black Rebel Motorcycle Club e Queens of the Stone Age, e la successiva “Killer’s kiss” resta su lidi heavy/psych à la QOTSA/Blue Cheer corretto White Stripes. Le scorribande garage/glam/blues punk di “Mr Hot stuff“, “Shake ‘em” e del quasi-strumentale “Roar II” (che si ricollegano ai suoni più grezzi e feroci dei primi due album) sono mitigate dalla malinconica bluesy ballad “Til life do us part” (ma niente spazio alla tenerezza da lenti sentimentali, qui parliamo di passione che brucia le budella e, se chiedete alla band di essere più smielata, Erica potrebbe prendere un machete e tagliarvi la testa, così come raffigurato nella truculenta copertina del long playing, in cui a “farne le spese” è stato Gianni). La penultima traccia “The last rebel” lascia il posto alla conclusiva “Horror and desire“, autentica highlight dell’opera, col canto a due voci e la partecipazione attiva di mister Johannes con un azzeccato assolo di chitarra e le desert rock vibes qui sono garantite. Questi ragazzi continuano a flirtare con le fiamme dell’inferno e raramente deludono le aspettative, con “Let the world burn down” alzano ancora di più l’asticella diabolica e con la loro grinta, cazzimma e verace attitudine rock ‘n’ roll possono legittimamente aspirare (o almeno, glielo auguriamo vivamente, anche grazie alla buona pubblicità data da Johannes) a varcare l’oceano e sbarcare stabilmente anche negli States a fare una race with the devil sulle strade e i sentieri che il blues e il R’N’R lo hanno visto nascere e infuocarsi. Magari a quel famoso incrocio potrebbero trovare il fantasma di Robert Johnson che rinnova il patto con Lucifero commissionando ai Devils una colonna sonora da incidere per un nuovo immaginario film di Ken Russell. Finché questo (non) accadrà, correte a vederli suonare live (e ve lo dice il Reverendo, che a ‘sto giro esclama: “Vade retrock!”) se non volete che le vostre anime siano dannate in eterno e date in pasto a Satana!

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