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Recensioni Rock

Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.

FUZZTONES – LIVE AT THE DIVE ’85

Il Dive, a New York, è stato un mitologico club assurto a Mecca del garage punk, o “garage revival”, ossia quel (sotto)genere nato, agli albori degli Eighties, unendo in un matrimonio distorto e fuzzato il garage rock pre-1967 (anno in cui ci fu l’avvento del disco-monolite “Sgt Pepper’s” dei Beatles, evento considerato come una sorta di “perdita dell’innocenza” del beat/rock da ragazzini teenager scapestrati e l’inizio della stagione dei concept albums seriosi e della “istituzionalizzazione” dell’album pop-rock concepito alla stregua di un’opera d’arte e musica a cui prestare attenzione in maniera impegnata) e la furia iconoclasta del punk ’77, una riscoperta e rivalutazione (iniziata, già nel 1972, con la nota compilation “Nuggets“, e poi proseguita con la varie serie di “Pebbles“, “Back from the grave” e affini) delle sonorità del rock ‘n’ roll dei gruppi di metà anni Sessanta più oscuri (spesso semiamatoriali e quasi tutti composti da adolescenti) che registravano la propria musica – specialmente i singoli, come meteore a 45 giri – nei propri garage casalinghi, in modo volutamente sgraziato e con suoni grezzi, con l’idea di deturpare il pop smielato da hit parade. E, tra le punte di diamante di questa febbre “Neo-Sixties” che agli inizi degli anni Ottanta contagiò la Grande Mela (e non solo, leggasi la parabola degli sfortunati prime movers californiani Unclaimed) ci furono sicuramente i newyorchesi Fuzztones, tra i massimi esponenti di quel magma incandescente underground animato da zazzere, occhiali scuri, pantaloni di pelle nera, minigonne, go-go dance, riverberi, pedali Fuzz-Tone Maestro Gibson (ma anche Danelectro e Arbiter) organi Vox Continental (e Farfisa Combo Compact e Ace Tone) chitarre Rickenbacker (e Vox Starstream e Fender Mustang e Phantom Mark Iv) amplificatori Vox AC30, acidi, “funghi”, stivaletti e camicie Paisley, il tutto filtrato attraverso l’ottica del punk rock (le cui ceneri della prima ondata erano appena state sparse sul palco del CBGB’s, ma anche in Inghilterra e in Europa). La band, ancora oggi capeggiata da Rudi Protrudi, e sempre viva e attiva a suonare in giro per il mondo (con quaranta anni di percorso, fresca di un album celebrativo fatto di cover e inediti, e in procinto di realizzare un docufilm, oltre a un garage album solista di Protrudi) sin dagli esordi è stata tra i maggiori – e più noti – catalizzatori di questo movimento-culto che, come ogni “dogma” che si rispetti, aveva i suoi rituali (la vita notturna, i concerti a notte fonda, gli happening neopsichedelici di “Mind’s Eye”) e il suo tempio, che a New York fu appunto il Dive, un locale che poteva contenere fino a un massimo di cento persone, e frequentato assiduamente da weirdos, freaks e misfits (non il gruppo!), che ha visto esibirsi tutta la crema della scena garage punk di NY (The Vipers, Mad Violets, Tryfles, Outta Place, Cheepskates, Mosquitos) un luogo di perdizione oggetto del disco dal vivo che andiamo a trattare, “Live at the Dive ’85“, incisione di un concerto tenuto dai ‘Tones quasi quattro decenni fa, e pubblicato dalla benemerita label pisana Area Pirata, etichetta fieramente indipendente che ha fatto del DIY il suo credo etico e che continua a perseguire, da un lato, il presente delle uscite delle band del suo roster (in continua espansione) e a rinnovare, dall’altro, la sua meritoria opera di ripescaggi di chicche del passato come questo full length. Registrata a New York nel 1985, poco prima della chiusura dello stesso Dive, e alla vigilia del loro primo tour europeo (a supporto del loro secondo Lp, “Lysergic emanations“, tra i capisaldi del genere) questa esibizione cattura(va) su nastro i nostri in azione nella loro line up classica (con Rudi frontman/chitarrista e líder maximo del progetto, seguito da Deb O’ Nair alle tastiere e voce, Elan Portnoy alla chitarra, Michael Jay al basso e Ira Elliot alla batteria e voce) e perfettamente a loro agio nel relazionarsi con disinvoltura con un giovane e (si percepisce chiaramente) caloroso pubblico di appassionati, smaniosi di ballare e saltare e cantare con Rudi, rendendo l’atmosfera (già gonfiata da alcool, sesso e droghe) ancor più elettrizzante. Ma ciò che fa di questa gig una rarità è sicuramente la presenza, in scaletta, di cover di brani di ensemble contemporanei “rivali” come i Lyres (“Help you Ann“) i Cheepskates (“Run better run“) e i Chesterfield Kings (“She told me lies“) oltre al rifacimento di un pezzo garage rock 60’s (accanto a “1-2-5” degli Haunted e “Cinderella” dei Sonics, poi diventati classici del repertorio live) “Numbers” (Terry Knight & The Pack) mai più riproposto in seguito. E sono degne di essere menzionate anche le versioni di “Me Tarzan, you Jane“, “It came in the mail” e “One girl man“, tre canzoni all’epoca ancora non incise e inedite. La qualità lo-fi delle registrazioni, invece di penalizzare il risultato finale, enfatizza l’energia e la genuinità della prestazione on stage, e si possono avvertire nitidamente l’eccitazione e il divertimento che sprigionavano dalla serata, con la band galvanizzata dal responso entusiasta ricevuto dai Fuzzfreaks accorsi al concerto per godersi un gruppo nel pieno della sua teenage lust, che sciorina una setlist in bilico tra l’omaggio ai maestri (gli Shadows of Knight di “Bad little woman“, gli Human Expression di “Love at psychedelic velocity“, “Journey to Tyme” di Kenny & The Kasuals o nel singolone “We’re pretty quick” delle meteore Chob) e pezzi propri in cui dimostrano di aver assorbito la lezione del garage rock in maniera impeccabile (come in “She’s wicked“, divenuto negli anni un altro evergreen). Direi che ci sia abbastanza materiale per infiammare la vostra curiosità e voglia di R’N’R, quindi fate vostri questi solchi (a proposito, Protrudi ha detto che ha ancora conservati tanti live tapes degli anni Ottanta che magari, in futuro, vedranno la luce) e, se ne avete l’opportunità, andate a vedere i Fuzztones in concerto anche oggi, perché vale sempre la pena, l’età è relativa quando c’è ancora l’ardore e la volontà di mangiarsi i palchi e, nonostante le quattro decadi sul groppone (e le settanta primavere abbondanti di Rudi) il garage rock non presenta nemmeno un capello bianco, perché è una musica che suonerà sempre fresca, in quanto essenziale, esuberante, ricolma di quel nettare adolescenziale che ci farà sentire per sempre sbarbi e cool. Live At The Dive ’85 by The Fuzztones

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The Mourning After - Lately / Quit Bazar 7"

The Mourning After – Lately / Quit Bazar 7″

Pronti alla bisogna per assolvere nel migliore dei modi tale irrinunciabile esigenza ecco qui per me e per noi tutti, direttamente da quel di Sheffield, i veterani e collaudatissimi Mourning After ed il loro 7″ licenziato in questi giorni dalla Rogue Records.

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Louise Lemón – Lifetime of tears

Louise Lemón si colloca vicino ma oltre cantanti come Pj Harvey, Lana Del Rey etc, e un giorno si parlerà di lei come oggi si parla di loro, nel frattempo riscaldiamoci qui.

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THE DEVILS – LET THE WORLD BURN DOWN

Appena usciti dal delirio del circo sanremese (a proposito… se lagggente italica pensasse a risolvere i gravi problemi che flagellano l’Italia con la stessa attenzione maniacale e lo stesso fanatico trasporto emotivo, quasi da guerra santa religiosa, con cui si occupano del festivàl di Sanscemo, il nostro Paese sarebbe il posto migliore al mondo dove vivere) gli italiani devono (o almeno, dovrebbero…) disintossicare orecchie e cervelli. E un buon modo per farlo glielo fornisce un duo proveniente da Napoli. No, Napoli non è solo “Un posto al sole”, “Gomorra”, “Il castello delle cerimonie”, “Mare fuori”, disagiati semianalfabeti diventati “star” sui social network e altro trash mediatico/televisivo/telenovele/fiction stereotipate. Napoli, quando vuole, dalle sue viscere sa anche partorire figli che sanno offrire al mondo del sano e genuino rock ‘n’ roll, e i Devils ne sono un ottimo esempio. Dal 2015 a oggi, infatti, Erica “Switchblade” Toraldo (batteria e voce) e Gianni “Blacula” Vessella (chitarra e voce) hanno esportato un lato diverso (e, per certi versi, “insolito”) del capoluogo campano, “blasfemo”, selvaggio e alternativo ai soliti luoghi comuni partenopei sulla comicità/ospitalità (e soprattutto sulla piaga della musica neomelodica in odore di malavita organizzata) suonando in giro per i palchi italiani ed europei (e con qualche data anche in Canada) esibendosi in oltre cinquecento concerti. Questi ragazzi se ne fottono della solarità/empatia meridionale e del trademark napoletano pizza/cibo/mare/sole/ammmore/mandolino e quando salgono on stage ti sbattono in faccia uno spettacolo crudo, fragoroso, scorbutico e iconoclasta, con un immaginario che si nutre di b-movies, sonorità punk/blues/fuzz/noise, tanta sconceria e caos pagano. Erica e Gianni, dismessi ormai da qualche tempo i travestimenti in “abiti talari” da suora invasata e prete deviato (perché – come ci hanno spiegato in una nostra intervista – prima credevano che la genesi del male fosse la Chiesa cattolica con la sua farsa della divinità, mentre ora hanno scelto di colpire direttamente alla matrice: l’umano, cioè colui che ha partorito l’idea di dio perché il suo nemico non è il peccato ma la morte, e Dio è solo il marchio dell’impostura e della stupidità umana che oltraggia l’unica cosa realmente onnipotente, la Natura, e le religioni sono come le lucciole: per risplendere hanno bisogno dell’oscurità) non hanno certo ammorbidito la ragione sociale del loro moniker, ne hanno solo modificato i dettagli, ampliando il loro ventaglio sonico verso lidi heavy/psych rock (frutto della collaborazione col noto musicista e produttore Alain Johannes nel loro precedente long playing, “Beast must regret nothing“, datato 2021, che poteva vantare anche un featuring del compianto Mark Lanegan in un brano) affiancando, oltre alla tensione sessuale “scandalosa” dello show carnale sul palco, anche il concettuale disgusto per il genere umano, avversione esemplificata anche nel titolo del loro nuovo full length, “Let the world burn down“, quarto studio album complessivo dei nostri, nonché secondo pubblicato su Go Down Records (includendo anche il disco dal vivo “Live at maximum festival“, uscito lo scorso anno) dedicato espressamente “ai fratelli e alle sorelle che si sono rotti il cazzo della razza umana“. “Let The World Burn Down” è il quarto capitolo di questa “saga demoniaca” che vede confermato il sodalizio artistico tra i Devils e il navigato Johannes (molto apprezzato per il suo approccio versatile alla musica, e che in studio ha dato modo ai ragazzi di apprendere e sperimentare) che riesce ancora una volta a potenziare il sound del duo senza snaturarlo. Le nuove canzoni – come ha rivelato il power duo – sono nate dopo l’esperienza del lockdown pandemico, quando si temeva che non ci sarebbero più stati spazi per organizzare concerti e occasioni per suonare dal vivo, e al conseguente sconforto dovuto a questa probabile prospettiva (per fortuna scongiurata) Gianni ed Erica avevano reagito tuffandosi a capofitto nella composizione di nuovi brani, spinti dalla voglia di allargare i propri orizzonti musicali e traendo energia e ispirazione dall’ascolto di tanto blues e soul, genere omaggiato nella cover – riarrangiata alla Devils maniera, cioè rumorosa e fracassona – di “Big City Lights” (Wilkerson Brown). E non è l’unico rifacimento, perché i nostri mettono mano anche a un singolone rockabilly come “Teddy Girl Boogie” (col titolo riadattato da “Teddy Boy Boogie” di C. Grogan & L. Needs) con ottimi risultati. Ma il cuore del disco resta la conferma della formula adottata nel precedente full length: un mosaico sonoro compatto, smussato degli angoli più estremi del loro distorto muro di suono, che privilegia una maggiore messa a fuoco dei brani, arrangiati (sotto la sapiente guida di Johannes) e bilanciati in modo da far coesistere melodia e marciume. Questo processo coinvolge praticamente tutti i dieci pezzi dell’Lp, a cominciare dal singolo apripista “Divine is the illusion“, che parte cadenzato per poi deflagrare nei suoi dream beats tribali e il suo riffone blues imbevuto di heavy rock che riecheggia stilemi che hanno fatto le fortune di formazioni come Black Rebel Motorcycle Club e Queens of the Stone Age, e la successiva “Killer’s kiss” resta su lidi heavy/psych à la QOTSA/Blue Cheer corretto White Stripes. Le scorribande garage/glam/blues punk di “Mr Hot stuff“, “Shake ‘em” e del quasi-strumentale “Roar II” (che si ricollegano ai suoni più grezzi e feroci dei primi due album) sono mitigate dalla malinconica bluesy ballad “Til life do us part” (ma niente spazio alla tenerezza da lenti sentimentali, qui parliamo di passione che brucia le budella e, se chiedete alla band di essere più smielata, Erica potrebbe prendere un machete e tagliarvi la testa, così come raffigurato nella truculenta copertina del long playing, in cui a “farne le spese” è stato Gianni). La penultima traccia “The last rebel” lascia il posto alla conclusiva “Horror and desire“, autentica highlight dell’opera, col canto a due voci e la partecipazione attiva di mister Johannes con un azzeccato assolo di chitarra e le desert rock vibes qui sono garantite. Questi ragazzi continuano a flirtare con le fiamme dell’inferno e raramente deludono le aspettative, con “Let the world burn down” alzano ancora di più l’asticella diabolica e con la loro grinta, cazzimma e verace attitudine rock ‘n’ roll possono legittimamente aspirare (o almeno, glielo auguriamo vivamente, anche grazie alla buona pubblicità data da Johannes) a varcare l’oceano e sbarcare stabilmente anche negli States a fare una race with the devil sulle strade e i sentieri che il blues e il R’N’R lo hanno visto nascere e infuocarsi. Magari a quel famoso incrocio potrebbero trovare il fantasma di Robert Johnson che rinnova il patto con Lucifero commissionando ai Devils una colonna sonora da incidere per un nuovo immaginario film di Ken Russell. Finché questo (non) accadrà, correte a vederli suonare live (e ve lo dice il Reverendo, che a ‘sto giro esclama: “Vade retrock!”) se non volete che le vostre anime siano dannate in eterno e date in pasto a Satana!

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Duocane – rAmen

Duocane – rAmen : seconda avventura discografica per il duo pugliese Duocane, con l’autoprodotto “rAmen”.

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Angel Face: gruppo che vanta Fifi, ex Teengenerate, in formazione, viene proprio spontaneo ripensare a quei giorni fatti di incomprensioni, incapacità di uniformarsi ad un modello poco chiaro anche a chi te lo imponeva

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Nikki and the Corvettes

Nikki and the Corvettes

Dentro ci troverete la stupefacente freschezza adolescenziale di He’s a Mover, You’te the One, Let’s Go e I Wanna Be Your Girlfriend, freschezza che è poi la vera e propria cifra stilistica della band.

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