iye-logo-light-1-250x250
Webzine dal 1999

Recensioni Rock

Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.

Varanasi – Cattedrali per principianti

Quando si incontra un disco come “Cattedrali per principianti” si entra in qualcosa di molto bello, di una bellezza al tramonto e dai colori ancora più forti e vividi, uno degli ultimi cantici autentici e sentiti rimasti.

LEGGI »
The Mosquitos - In the Shadows

The Mosquitos In the Shadows

The Mosquitos In the Shadows: Ci vorrebbe qualcosa che cambi tutto, ad esempio un gran bel disco. Niente paura ragazz* ci pensa, al solito, Area Pirata a fornirvelo.

LEGGI »

NIGHT BEATS – RAJAN

La neopsichedelia incontra Bollywood (?). Da questa esotica mistura prende corpo il nuovo corso di Danny Lee Blackwell, unico membro fondatore attivo del progetto garage-psych statunitense dei Night Beats, giunti al sesto studio album con “Rajan” (titolo che prende spunto da uno dei nomi del frontman, e che in sanscrito significa “re”) pubblicato nel luglio di questo 2023 che sta per volgere al termine. Americano di nascita, ma per metà di origini indiane da parte di madre, una danzatrice pratica dell’arte neo-classica Bharatanatyam che ha influenzato gli ascolti del giovane Blackwell, che sin da teenager ha imparato a combinare l’ascolto di musica indiana (Mohammed Rafi) iraniana e orientale con la psichedelia di 13th Floor Elevators, Seeds, Electric Prunes e altre band della stagione del Western Sixties garage rock, con le quali coglieva similitudini, nonostante ci fosse un oceano (terrestre e culturale) di differenza tra i due mondi. Tutto ciò gli ha permesso di convogliare queste ispirazioni verso un sound più arioso, che mantiene le consuete coordinate artistiche dei Night Beats, da sempre orientate su un canovaccio fatto di melodie accattivanti e ritmi ipnotici psych-pop, ma oggi aperte a più possibilità e soluzioni che spaziano attraverso atmosfere orientaleggianti che si fondono con l’R&B e il soul, un bagaglio musicale figlio dell’insegnamento e degli incoraggiamenti della madre, che lo ha sempre esortato e spronato a essere libero di creare, suonare e incidere, senza preconcetti, tutta la musica che gli procuri emozioni. E l’opener del disco, nonché singolo di lancio, “Hot Ghee“, incapsula perfettamente il concetto in quasi quattro minuti in cui si fondono elementi di raro deep funk anatolico underground col garage/psych rock, per poi proseguire coi sei minuti di morbida psichedelia sognante di “Blue” e tuffarsi nel garage/soul con un tocco di tropicalismo brasiliano in “Nightmare“. Melodie alla Velvet/Lou insaporiscono “Motion picture“, mentre “Anxious mind” e “Dusty jungle” si adagiano placidamente su lidi soft psych e “Thank you” sembra quasi fare il verso al soul-pop dei Black Keys più mainstream. “Osaka” (che vede la partecipazione di Ambrose Kenny-Smith all’armonica e ai cori) torna felicemente su sentieri da trip lisergico vicini al suo adorato Roky Erickson e “Cautionary Tale” sfiora il crooning, seppure imbevuto di guitar tremolo blues/psych. La (forse un po’ troppo) rilassata “9 to 5” prepara il terreno per il brano finale del disco, “Morocco blues“, di gran lunga il pezzo migliore del lotto (almeno per chi vi scrive) in cui si sublima in modo convincente il melting pot, patrocinato da Blackwell, tra il garage/blues/psych di stampo Night Beats e fragranze “Eastern“. Il menestrello texano, insomma, va dritto per la sua strada, portando avanti un processo di maturazione artistica, anche se sinceramente i Night Beats si facevano preferire maggiormente nei loro momenti più ruspanti e meno mosci, ma nel complesso “Rajan” è un long playing che si fa apprezzare e che necessita di diversi ascolti per essere assimilato in tutte le sue sfumature.

LEGGI »

HALF JAPANESE – JUMP INTO LOVE

Stralunati, imprevedibili, scanzonati, geniali, spigolosi, folli, outsider, pionieristici: tutto ciò sono (stati) gli Half Japanese, veterani art punkers del Maryland, un ensemble tra i più originali e irregolari della stagione del post-punk di fine Seventies (ma formati addirittura nel 1974 dai fratelli David e Jad Fair, che hanno debuttato a inizio Eighties con un triplo album, “1/2 Japanese Not Beasts“) che poi ha forgiato e ispirato la scena DIY/noise/lo-fi/alternative rock statunitense (con pubblici attestati di stima arrivati nei loro confronti da parte di Kurt Cobain e Daniel Johnston) dei decenni successivi, col chitarrista e frontman Jad Fair (e le sue infinite collaborazioni con svariati artisti quali lo stesso Johnston, J. Mascis, Richard Hell, Teenage Fanclub, The Pastels, Thurston Moore, Moe Tucker, John Zorn, Yo La Tengo e altri) consacrato a paladino dell’indie rock mondiale. Il mezzo giapponese è un progetto che, tra pause e reunion, va avanti da quasi mezzo secolo, e non accenna minimamente a voler chiudere baracca, infatti quest’anno ha dato alla luce “Jump into love“, ventesimo studio album dei nostri (Jad Fair coadiuvato da John Sluggett, Gilles-Vincent Rieder, Mick Hobbs e Jason Willett alle chitarre, al basso, alle tastiere e alle percussioni) uscito su Fire Records e arrivato a tre anni di distanza dal precedente capitolo, “Crazy Hearts“. Registrato tra Europa e States, il disco è caratterizzato dal consueto caleidoscopio di colori e sonorità variegate che spaziano dalla sarabanda free-form jazz à la Pere Ubu nell’opener “It’s OK” al post-punk concitato in stile Fall in “True love will save the day” a quello più sfaccettato e angolare in “Here she comes“, “The answer is yes” e “This isn’t funny“, dalla world music di matrice Talking Heads in “Listen to the bells chime“, all’alt. rock dal sapore Nineties in “We are giants“, a incursioni nel “baggy” sound della MADchester di Happy Mondays e affini in “Shining sun“, al proto-punk distorto di MC5 e Stooges in “Shining stars“, da suggestioni dark/goth psych in “Step inside” al folk distopico della conclusiva “Zombie world” che rovescia il feeling di pace e amore universale che trasuda entusiasticamente dai suoni “tribali” della title track, a sovvertire le regole di un long playing che si nutre di emozioni contrastanti, com’è sempre stato nella natura musicale del gruppo. Jad Fair è vivo e lotta (e suona) insieme a noi, e se qualcuno cerca ancora di capire dove abiti e risieda ancora oggi l’essenza dell’indie rock (quello vero) americano (e non) citofoni lui.  

LEGGI »

THE TELESCOPES – OF TOMORROW

Quindicesimo studio album per i Telescopes, indie/garage/noise/shoegaze/psych/drone/experimental band inglese attiva dal 1987 (con in mezzo un temporaneo scioglimento durato otto anni) e fondata dal frontman polistrumentista Stephen Lawrie – vero e proprio factotum del progetto e unico membro presente in tutte le incarnazioni del gruppo – insieme a Joanna “Jo” Doran e David Fitzgerald (nel frattempo passato a miglior vita nel 2020) che ha sviluppato un sound, ispirato da Velvet Underground, Suicide, krautrock, Lydia Lunch, Sonic Youth, Stooges, e 13th Floor Elevators che ha influenzato gente come Anton Newcombe, Black Rebel Motorcycle Club, Mogwai, Portishead e Radiohead (tra gli altri). L’ensemble originario dello Staffordshire (e oggi creatura forgiata a immagine e somiglianza di Lawrie) sembra vivere un momento prolifico a livello artistico, avendo realizzato, nel 2023, sia un disco di folk music sperimentale registrata con piccoli synth e altri aggeggi, senza chitarre (“Experimental Health“, interamente composto e registrato dal solo Lawrie) sia questo long playing propriamente detto, “Of Tomorrow“, uscito a maggio sulla label tedesca Tapete Records e arrivato a due anni di distanza da “Songs of love and revolution“. I nostri (cioè Lawrie e i musicisti che lo accompagnano in tournée) che di recente sono passati anche per l’Italia durante il tour a supporto del full length, mettono in scena in sette brani (anche questi creati, registrati e prodotti da Lawrie nel suo studio in Shropshire) all’insegna di solidi groove motorik scanditi da synth e organi, in un cambio di dinamica che si allontana dalla passata matrice rumorista ed è maggiormente improntato su suoni psichedelici/space e melodie più lineari. Un blocco compatto, permeato da un’aurea dark, in cui una canzone sfuma nell’altra in modo omogeneo, dall’acid psych dell’opener “Butterfly” a fragranze stonate à la Jesus and Mary Chain/Spacemen 3 in “Everything belongs“, a suggestioni berlinesi in “Where do we begin?”, alla malinconia Velvet/Lou con un feeling alla Mazzy Star in “Only lovers know“, al drone incessante à la Black Angels di “[The other side]“, al jangle psych pop dronizzato in stile JAMC/Primal Scream/Spiritualized di “Under starlight” fino agli otto minuti conclusivi di “Down by the sea” che riempiono, con eteree atmosfere dream pop, gli spazi lasciati liberi dal fragore del noise rock degli Lp precedenti. In attesa loro sedicesimo Lp (la cui pubblicazione è già stata annunciata per febbraio 2024 su Fuzz Club Records) potete lasciarvi cullare dalla surrealtà di queste melodie monocromatiche imbevute di assenzio.

LEGGI »