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Recensioni Rock

Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.

NEBULA – LIVEWIRED IN EUROPE

Le principali stazioni radio mainstream italiane (incluse quelle che millantano uno “style rock“, anzi ruoooock, ma alla fine trasmettono sempre le solite band famose, senza mai osare né rischiare di proporre qualcosa che sia fuori dai radar commerciali delle multinazionali discografiche) sono un disimpegnato calderone fatto di aria fritta che passa musica frivola che parla solo di stronzate ed è frullata come una marmellata informe che non ha più nessuna rilevanza culturale e serve solo ad amalgamarsi con gli spot pubblicitari, un meccanismo perfido che non intrattiene né fa pensare l’ascoltatore (anzi, lo inebetisce) e si ripete sempre col solito schema: conduttori/speakers (molto spesso incompetenti/raccomandati) che mitragliano, come insulsi automi, innocue banalità alla velocità della luce (perché bisogna fare presto, sintetizzare i concetti e ridurre tutto al minimo e con un linguaggio stringato tipo caratteri degli sms, perché quando si è on air i secondi sono contati, il tempo è denaro e bisogna fatturare e ottimizzare i profitti) poi dalla catena di montaggio parte una canzone (o al massimo due brani, e neanche completi) e, di seguito, vengono sparate sequenze interminabili di inquinamento acustico chiamate “pubblicità” che, ormai, si è mangiata anche il mercato dell’etere radiofonico. Ecco, fatta questa doverosa premessa, converrete con chi vi scrive che su quel tipo di radio, tossiche per l’udito e nocive per l’anima, sicuramente non ascolterete mai la musica dei Nebula, stoner/psych band losangelina che, a un anno di distanza dall’ultimo studio album “Transmission From Mothership Earth“, torna a pubblicare nuovo materiale, e precisamente un disco dal vivo (il terzo della loro discografia) “Livewired in Europe“, uscito il mese scorso sulla label italiana Heavy Psych Sounds, e che raccoglie dodici brani registrati, in primavera, nelle date in Svezia e Olanda durante il tour europeo dei nostri a supporto dell’ultimo Lp (che, tra l’altro, è passato anche in Italia recentemente). Il trio californiano, nell’anno intercorso tra “Transmission” e questo live album, ha dovuto far fronte a una gravissima perdita, perché purtroppo il bassista Tom Davies ci ha lasciati a soli quarantotto anni (a settembre, a causa di una leucemia) e il suo ruolo è stato ricoperto dal touring bassist Ranch Sironi, che ha confortato i compagni di viaggio Mike Amster alla batteria e il chitarrista/frontman/membro fondatore Eddie Glass. Il long playing è stato descritto, dall’etichetta, come “a massive psychedelic trip into outerspace” e, onestamente, non si può dargli torto: sin dai primi solchi (ottimamente prodotti e mixati da Glass, Sironi e dal romano Claudio “Pisi” Gruer) l’ascoltatore viene investito dalla consueta colata lavica di fuzziness e di monolitica potenza heavy/hard/pysch rock a cui i Nebula ci hanno abituato (tra pause e reunion) da venticinque anni. Killer riffs e feedback si sprigionano fin dai primi secondi, quando Glass ci spara nei timpani la chitarrozza satura di “Man’s best friend“, passando per “Down the highway“, “Let it burn“, “Highwired“, “Aphrodite“, “Out of your head” o “Full Throttle“, ma tutta la setlist (in totale dodici brani, bonus tracks comprese, che vanno a ripercorrere quasi tutto il loro passato remoto e recente) con le sue digressioni schizzate e la vigoria della martellante sezione ritmica, è una dichiarazione d’amore per la psichedelia dei Sixties, per Hendrix, Stooges, MC5, Blue Cheer e l’hard-heavy rock della prima metà dei Seventies, in particolare per i suoni truci “doom and gloom” dei primi Black Sabbath aggiornati al nuovo millennio e refreshati dalla dimensione anfetaminizzata di una esibizione live. Un’ora di esuberante tempesta elettrica in cui pezzi vecchi e nuovi coesistono e forgiano un compatto e deflagrante trip stonato. Continuare a suonare e fare ciò per cui si è nati, anche per esorcizzare un lutto. Combattere gli algoritmi omologatori, ma anche i divulgatori-dinosauri che non guardano al di là del proprio naso e si crogiolano nelle loro nicchie autoreferenziali da “boomers” e da decenni, ormai, hanno fracassato le gonadi con gli spettacoli teatrali, i libri e le lectio magistralis universitarie in cui magnificano per la milionesima volta “The dark side of the moon” o “Sgt. Pepper’s” e altri dischi straconosciuti, sempre gli stessi, oramai sviscerati in tutti i loro dettagli e “sgoop” in mezzo secolo dalla loro uscita. Forse i Nebula non avranno contezza di questa battaglia mediatica/culturale, ma sappiano che anche un disco come “Livewired in Europe” può essere utile alla causa. TRACKLIST 1. Man’s Best Friend 2. Down The Highway 3. Out Of Your Head 4. Highwired 5. Giant/Clearlight 6. Full Throttle 7. Aphrodite 8. Messiah 9. Let It Burn 10. Transmission From Mothership Earth (CD bonus track) 11. Let’s Get Lost (CD bonus track) 12. Warzone Speedwulf (CD bonus track)

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YAWNING MAN – LONG WALK OF THE NAVAJO

Se anche voi, come me, non ne potete più del business modaiolo delle maxiristampe commemorative “anniversary edition” degli album (pensate esclusivamente per spennare i feticisti del collezionismo discografico, con la scusa della retromania nostalgica/celebrativa) nei formati “super deluxe boxset” di otto vinili da 180 grammi, che per comprarli bisogna quasi accendere un mutuo, e contenenti la “bellezza” di cinquanta b-sides e tracce bonus (in cui sono stati rimasterizzati, dai nastri analogici originari, anche i rutti e i peti dei musicisti e dell’ingegnere del suono) allora per voi può rivelarsi salvifico aprirsi ad altre strade meno battute dalle masse (e dalle multinazionali) e tornare a esplorare o scoprire gemme nascoste del rock ‘n’ roll. Una di queste è sicuramente rappresentata dai californiani Yawning Man, seminale band stoner/psych, padrini del “desert rock“, uno dei segreti meglio custoditi in ambito di “musica alternativa(e)” statunitense, nonché uno dei suoi tesori meglio conservati e da (ri)valorizzare. Alfieri della scena di Palm Desert, i Yawning Man si formano nel 1986 e sono (stati) tra i principali fautori e agitatori del movimento ribattezzato, come scritto qualche riga più su, desert rock, un cocktail sonoro – corroborato da un uso ricreativo e ispirazionale di erba, peyote, LSD e funghi magici – che mescola elementi hard/heavy rock/metal, psichedelia, punk, blues e alternative rock (non a caso lo “stoner rock” sbocciato in California è sempre stato visto come una sorta di cugino meno famoso e meno celebrato della scena “grunge” sviluppatasi a Seattle e nel Nordovest degli States più o meno nello stesso periodo, e soprattutto avendo praticamente le stesse influenze musicali in comune) con una spiccata attitudine alla jam e al gusto per l’improvvisazione, e caratterizzata da una mutua collaborazione tra i musicisti della scena coinvolti in varie band e progetti comuni. La peculiarità di questa epopea “sotterranea” era data dalla sua stessa definizione, in quanto il “rock del deserto”, letteralmente, si è forgiato nel rovente deserto della California meridionale, irrorato dalle speziate atmosfere latinas provenienti dal vicino Messico: all’infuori del piccolo circuito di bar, i gruppi della scena di Palm Desert (con in testa alla carovana, ovviamente, i Kyuss, la punta di diamante del magma stonato emerso da quelle terre aride, e che poi in seguito ha partorito, da una sua costola, i Queens of the Stone Age, la creatura di maggior successo commerciale figlia di quell’esperienza “desertica”) non avendo club in cui suonare, si inventarono l’esperienza dei “generator parties” (il cui nome prendeva spunto dai generatori di corrente che alimentavano ampli e strumenti) cioè dei concerti, spesso dalla durata di svariate ore, tenuti all’area aperta per una manciata di fan e appassionati (gonfi di birre e sostanze stupefacenti) nelle aree desertiche di paesi e città della California meridionale. Ma, se tutti ricordano e adorano, giustamente, i Kyuss, è altrettanto giusto (riba)dire che, senza prime movers come i Yawning Man, difficilmente questo sottogenere avrebbe preso piede e si sarebbe sviluppato, a macchia d’olio, in giro per gli States e, poi, per il mondo. Dediti a lunghe jam nei “locali” disponibili nella seconda metà degli Eighties (cioè i garage e il caldo spazio aperto desertico della Coachella valley) i nostri hanno forgiato un sound che poi avrebbe ispirato proprio i Kyuss che, nel loro album del 1995 “…And the circus leaves town“, avrebbero coverizzato un loro brano, “Catamaran” (nel quale ha suonato il batterista Alfredo Hernandez, già drummer e membro fondatore proprio dei Yawning Man insieme a Gary Arce e ai cugini Larry e Mario Lalli) e hanno registrato, su due demo, una manciata di pezzi (poi recuperati nella raccolta “postuma” del 2009, “The birth of Sol (the demo tapes)“) ma per vedere pubblicato materiale ufficiale si è dovuto aspettare fino al 2005, anno della release del loro primo vero album, composto da dieci brani registrati l’anno precedente, “Rock Formations” (a metà Nineties i ragazzi si erano persino cimentati in una avventura chiamata The Sort of Quartet, realizzando quattro dischi all’insegna di sperimentazioni e trame free jazz) mentre iniziavano a guadagnarsi pubblici attestati di stima e riconoscimenti da parte di “colleghi” come Brant Bjork (che insieme ai cugini Lalli ci ha suonato nei Fatso Jetson) a cui hanno fatto seguito l’Ep “Pot head“, alcuni progetti collaborativi/split album, il secondo Lp “Nomadic pursuits“, poi un terzo, “Historical graffiti“, un quarto long playing, “The revolt against tired noises” (in cui è stata incisa ufficialmente “Catamaran”) e il quinto, “Macedonian lines“, uscito nel 2019, e tutti connotati da sonorità space rock/stoner/psichedeliche quasi interamente strumentali. Nel giugno di quest’anno L’Uomo Sbadigliante ha partorito il suo sesto disco, “Long walk of the Navajo“, uscito sulla label italiana Heavy Pysch Sounds, registrato (e missato da Steve Kille) da una line up a tre membri: Gary Arce alla chitarra, Billy Cordell al basso e Bill Stinson alla batteria. Le sessioni di incisione sono state ispirate da una tempesta di sabbia che ha colpito Joshua Tree e dintorni e ha fatto da cupo sfondo alle jam creative del trio, che ne offre una prova convincente già nella title track, posta in apertura, quindici minuti in cui la chitarra ipnotica di Arce si lacera in un lungo lamento straziato (quasi una trasposizione in musica dell’urlo degli indigeni perseguitati) e imperversa lungo tutto il mood drammatico del pezzo, tra distorsioni e feeling “apocalittico”, ma di lucida bellezza. La successiva “Respiratory Pause” è un’altra struggente suite space-pysch dall’incedere pesante e caratterizzata da un taglio artistico malinconico. La conclusiva “Blood Sand“, frutto di una jam completamente improvvisata, è un resoconto di “caos calmo” di nove minuti incastonati nel vortice di polvere e sabbia desertica che travolge l’atmosfera e incendia gli spiriti indomiti. Tre soli brani, tutti strumentali, ma quasi quaranta minuti di durata in cui, però, non ci si annoia mai, e questo è un pregio abbastanza raro per un disco non cantato. In questi tempi tremendi in cui i concetti di genocidio razziale e di “pulizia etnica” dei popoli, purtroppo, sono tornati a essere di stretta attualità ed essere usati con sconsiderata leggerezza/follia dal Leviatano a stelle e strisce – e sodali – che tiene in ostaggio il mondo con le sue politiche guerrafondaie (e che nulla ha imparato dagli errori del passato) un disco come “Long walk of the Navajo” risulta essere, suo malgrado, sul pezzo, affrontando la dolorosa tematica della pratica criminale di sterminio dei nativi americani (nel caso specifico, della fiera comunità Navajo e della campagna di guerra mossa, ai loro danni, dal governo yankee nel biennio 1863-64, che costrinse migliaia di nativi indiani a combattere, essere uccisi in battaglia e a essere sradicati dai loro luoghi a causa di una forzata deportazione di massa imposta dalle autorità) perpetrata dall’uomo bianco/colonizzatore europeo nei secoli scorsi, e che oggi si ripropone in scenari più vicini a noi, non lontani dal “nostro” mar Mediterraneo, in cui i popoli oppressori impongono ancora l’apartheid ai popoli oppressi (derubati di terre e dignità e rinchiusi in una Striscia di terra che è un carcere a cielo aperto, quasi alla stregua delle odierne riserve indiane negli States) e i mass media, controllati dal suddetto Leviatano, mistificano la realtà facendo passare l’aggressore per aggredito e viceversa. LWOTN è un album che fa cantare visioni, immagini, storia, identità e natura, riesce a essere più espressivo di tanta musica verbosa e fa riflettere più di quanto ci si possa immaginare.

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The Thingz Green incursion

Nuovo singolo per il gruppo di Long Beach i The Thingz, dal titolo “Green incursion”. Il gruppo californiano ha pubblicato nel 2023 il suo nono disco “In the age of the giant moths”, e questo singolo è un ulteriore passo in avanti nella loro carriera. “Green incursion” è un pezzo molto distorto ed incalzante, in stile The Thingz ma a questo giro ci si addentra maggiormente nei territori garage punk, con grande freschezza e con grande energia. I The Thingz sono un gruppo in giro da anni, composto da persone appassionate di rock and roll primordiale, del beat garage punk e anche del surf, perché nel loro suono si possono ritrovare anche delle vibrazioni surf che lo rendono ancora più ricco. Ascoltando “Green incursion” si tocca con mano quella gioia sonora che chiamiamo rock and roll e che diamo troppo spesso per scontato, e che nel calderone del mainstream si è andato a perdere senza speranza. Questo suono è semplice, diretto e senza mediazioni, e attraverso di esso si può capire quale sia la sua forza prorompente che ha rotto tante barriere e che continua a far battere il a molti. Questo singolo certifica la bravura dei The Thingz, un insieme di persone che fanno musica per passione, sacrificando sicuramente qualcosa, ma i risultati sono ottimi. Questo singolo è un ottimo esempio di come il rock sia nel dna del punk ma anche viceversa, perché certo rock and roll è stato nichilista e violento, ascoltato da quei delinquenti giovanili che lo fecero diventare un allarme sociale proprio come il punk. I The Thingz ci mostrano molto chiaramente come questo connubio sia ancora portatore sano di divertimento e di ottima musica. Un nuovo passo per un gruppo che diverte e fa sempre musica di ottima qualità. The Thingz Green incursion Green Incursion by The Thingz

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Commando Les Genoux Ecorch​é​s

Commando: Un disco che è un pò l’essenza di come sia nata questa fanzine e di quale suono sia nel nostro dna, è tutto qui dentro “ Les Genoux Ecorch​é​s”.

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Casual Boots - Rainbow Night

Casual Boots Rainbow Night

Casual Boots non sono qui soltanto per rievocare ricordi agrodolci, ma soprattutto per proporre musica ed è dell’ultimo ep che si apre con Rainbow Night…

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