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Recensioni Rock

Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.

THURSTON MOORE – FLOW CRITICAL LUCIDITY

Thurston Moore – Flow critical lucidity: il 20 settembre ha pubblicato il suo nuovo (e, complessivamente, nono) album, “Flow critical lucidity” attraverso la Daydream Library Series, house label della community Ecstatic Peace Library, fondata dallo stesso Moore insieme alla moglie Eva Prinz.

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MARK LANEGAN – BUBBLEGUM XX

Ogni occasione è buona per parlare del compianto Mark Lanegan (che manca, e anche tanto) e allora a ‘sto giro accogliamo con favore questa “operazione di recupero” della Beggars Banquet e andiamo a trattare questa imponente ristampa, “Bubblegum XX“, uscita quest’anno in occasione del ventesimo anniversario dalla pubblicazione originaria dell’album, “Bubblegum“, all’epoca sesto long playing solista del nostro (nonché primo come Mark Lanegan Band) che vide la luce nell’agosto 2004 sulla stessa label britannica. La genesi di questo Lp risaliva al 2003, quando Lanegan, reduce da un lungo tour con i Queens of the Stone Age (band con cui ha collaborato per alcuni anni, su invito dell’amico e membro fondatore Josh Homme, già insieme a Mark, per un breve periodo, anche negli Screaming Trees, dando il proprio contributo nelle registrazioni del capolavoro “Songs for the deaf“) rilasciò un Ep anticipatore, “Here comes that weird chill“, che lasciava già intravedere un cambio verso una nuova direzione sonora che sarebbe stata intrapresa per l’imminente prova sulla lunga distanza, che arrivò nel 2004 (anno in cui Lanegan annunciò ufficialmente la fine della sua collaborazione con i QOTSA) e “Bubblegum” segnò l’inizio di una seconda parte del suo percorso musicale in proprio (accompagnato dai musicisti che suonavano con lui durante le tournée mondiali, ma caratterizzato dall’assenza, pressoché totale, del bassista/chitarrista Mike Johnson, che fino ad allora aveva suonato su tutte le precedenti prove soliste di Lanegan) e fu sicuramente un disco che si distanziava parzialmente dai precedenti lavori in stile cantautoriale dark/folk/rock tenebroso, introspettivo e oscuro (tra cui vale la pena di menzionare almeno le pietre miliari “Whiskey for the holy ghost” e “Field songs“) per virare verso lidi più marcatamente blues rock e sonorità più aggressive, e che fu concepito in un frenetico periodo di forte stress emotivo e psicologico (tra un divorzio e i noti problemi di “Dark Mark” con tossicodipendenza e con l’alcool) per Lanegan che, durante le pause dal tour coi QOTSA, aveva composto abbastanza materiale per riempire due album, ma si ritrovò a registrare il full length in giro per vari studi negli Stati Uniti, e il risultato finale, seppur godibile e di discreta fattura, risentì della mancanza di amalgama tra i vari pezzi, di fatto assemblati in un calderone sonoro non messo ottimamente a fuoco, probabilmente penalizzato da troppe ospitate e “featuring” eccellenti (da PJ Harvey a Josh Homme e Nick Oliveri, passando per Greg Dulli e gli ex Guns ‘n’ Roses Duff McKagan e Izzy Stradlin) ma che tuttavia fecero registrare ottimi riscontri di vendita e presso il pubblico. In questa nuova versione espansa (che fa il paio col classico formato in doppio Lp del solo “Bubblegum”, con la tracklist del 2004 rimasterizzata) ai quindici brani della tracklist originaria (di cui vanno citati almeno gli episodi meglio riusciti, e tra questi c’erano sicuramente la magnifica e struggente opener “When your number isn’t up“, l’ipnotica e martellante “Metamphetamine blues“, il duetto con PJ Harvey nel singolone (memore dell’esperienza delle Desert Sessions) “Hit the city“, il rock ‘n’ roll sanguigno di “Sideways in reverse“, “Can’t come down” e “Driving Death Valley Blues“, con quest’ultima in cui riecheggiava il recente passato nei QOTSA; le calde “Strange religion” e “Like Little Willie John“, in cui risaltava la voce inconfondibile, forgiata a whiskey e tabacco, di Lanegan, perfettamente a suo agio nell’intepretare il ruolo dello storyteller di frontiera e poeta dell’inferno della dannazione che strazia corpi e spiriti dei derelitti della società, cantore dei tormenti che dilaniano l’animo degli esseri umani in quanto esseri imperfetti e fallaci – in primis, egli stesso e i suoi demoni, un uomo che ha accettato di convivere coi suoi fantasmi – ) sono stati aggiunti i pezzi dell’Ep “Here comes that weird chill (Methamphetamine Blues, Extras & Oddities)” (realizzato insieme al fido Josh Homme, Nick Oliveri, Chris Goss, Alain Johannes, Dave Catching e Greg Dulli, e in cui svettavano “Skeletal history” e le due versioni di “Sleep with me“, oltre a una cover di “Clear spot” di Captain Beefheart) con tre bonus tracks (“Sympathy“, “Mirrored” e “Mud pink skag“) e, soprattutto, ulteriori tredici tracce, tra demo (registrati in alcune stanze d’albergo, in giro per il mondo, insieme a Troy Van Leeuwen, e da quest’ultimo recuperati) e inediti – principalmente outtakes provenienti dalle sessioni di registrazione di “Bubblegum” – tra le quali si segnalano “Heard a train“, l’uggiosa “Leaving new river blues“, la cover di Johnny Cash “You wild Colorado” e “Union tombstone” (una canzone in cui era previsto un altro featuring/duetto, non realizzatosi all’epoca, con Beck che però oggi, per l’occasione, ha inciso le sue parti vocali “a posteriori”). Il tutto ottimamente rimasterizzato agli Abbey Road studios a Londra (per la gioia, seppur postuma, di Lanegan, che aveva sempre sognato di incidere del materiale in quegli studi leggendari, e non è mai stato soddisfatto della resa su disco di “Bubblegum”, e pensiamo che gli avrebbe fatto piacere sapere che Geoff Pesche ha fatto un lavoro egregio). A corredo dei quaranta brani complessivi, c’è anche un libro commemorativo di 64 pagine con foto inedite e contributi scritti da Brett Netson e i succitati Van Leewuen, Homme, Goss, Johannes, Catching, Dulli e McKagan. Hands down. Quando una reissue (che, a grandi livelli discografici, resta sempre e comunque un fruttuoso business) è fatta bene, ridando nuova vita al materiale originario e rinvigorendolo di nuova sostanza, stavolta non c’è niente da eccepire. Chapeau. Un buon modo per mantenere vivo il ricordo (oltre al concerto in suo omaggio che si terrà, il prossimo 5 dicembre, alla Roundhouse di Londra, per celebrare la sua musica e quello che sarebbe stato il suo sessantesimo compleanno) di un cantante e musicista dal valore artistico incommensurabile. Mark, you left this “heaven” so soon.

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TELESCOPES – HALO MOON

Non accenna a finire il momento di prolifica vena artistica della ormai veterana indie/garage/noise/shoegaze/psych/drone/experimental band inglese Telescopes e del loro factotum, nonché unico membro (fondatore) presente in tutte le incarnazioni del progetto, Stephen Lawrie. Dopo aver pubblicato, nel febbraio di quest’anno, il sedicesimo lavoro sulla lunga distanza, il “lost record” restaurato “Growing eyes becoming string” (al quale va aggiunta la pubblicazione, nel mese di maggio, delle raccolte “Radio sessions (2016-2019)” e quella di rarità rimasterizzate “Editions“) arriva infatti già un nuovo album, “Halo moon“, uscito a fine settembre sulla label tedesca Tapete records. Il diciassettesimo capitolo della discografia dei Telescopes tenta di stabilire un dialogo con le forze misteriose e magiche che regolano la natura dell’universo, che parla attraverso il cielo scatenando, involontariamente, una rivoluzione partendo da uno stato di trance ipnotica per arrivare a connettersi con l’invisibile e con una nuova dimensione delle coscienze parallele, con la band (vale a dire Lawrie più un numero, sempre variabile e mai fisso-definitivo, di musicisti che registrano con lui) che viene ispirata da una aureola lunare – “Halo moon“, appunto – che sembra arrivata con l’intento di folgorare la composizione di questo nuovo materiale e propiziare la buona riuscita del lavoro in studio. Dal 1987 a oggi, Lawrie non ha mai smesso di sperimentare diverse soluzioni con la propria creatura sonica, nelle varie declinazioni della (neo)psichedelia, e ogni album cresce con gli ascolti, rivelando sfaccettature sempre differenti, e anche “Halo moon” non fa eccezione. Si passa dalla trasandata opener “Shake it all out” (uno psych-blues che non sfigurerebbe nel repertorio dei Reid brothers) all’armonica che scandisce il sognante e incantato blues di “For the river man“, con un Lawrie perfettamente a suo agio nel ruolo di cantastorie stonato, dalle ninne nanne narcotiche di “Come tomorrow” e della title track alle altre nenie psichedeliche “Along the way” e “Lonesome heart“, in cui l’organo, la chitarra e la voce del cerimoniere Lawrie sembrano fluttuare verso altri mondi, mentre il groove cinematico di “Nothing matters” si spinge fino a concludere col monolite acido, ipnotico e sinistro di “This train rolls on“, un treno che va avanti alimentato da un latente senso di violenza. Le strutture delle canzoni sono minimali, le chitarre si dissolvono nel feedback e nelle dissonanze, e le trame sonore affogano il blues nel fuzz e in beat ritmici scarni e meccanici à la Suicide in slow motion, disegnando paesaggi nebbiosi (e sentieri che si inseriscono in territori già battuti, in passato, da Spacemen 3 e Spiritualized) dentro i quali si staglia, inafferrabile, il mormorio sonnolento e glaciale di Stephen Lawrie. Che il cielo ci assista in questi tempi bui. Dig the déjà voodoo.

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Mastica - (12) Treize Cigarettes

Mastica – (12) Treize Cigarettes 

Mastica – (12) Treize Cigarettes: lo compongono tredici tracce, tutte cantate in italiano, ottimamente suonate e pervase da un dose debordante di fantasia ed ecletticità.

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Black Elephant – The fall of the gods

Black Elephant : probabilmente questo disco è una delle cose migliori mai uscite in campo psichedelico pesante in Italia, raramente si sono ascoltati dischi così alle nostre latitudini.

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JESUS LIZARD – RACK

Quando sai che è fuori un nuovo album dei Jesus Lizard, leggende (ok, termine inflazionato ma, nel loro caso, non è assolutamente usato a sproposito) della scena noise/post-hardcore mondiale, parte in automatico il suo inserimento tra i migliori dischi dell’anno, e lo ascolti con gli occhi (e le orecchie) a cuore. La benemerita Ipecac Recordings, il mese scorso, ha rilasciato il settimo long playing complessivo realizzato da David Yow e compari – tra gli alfieri di quella prolifica stagione a cavallo tra Eighties e Nineties che, dopo l’esplosione commerciale del fenomeno “grunge”, vide l’underground del rock indipendente statunitense “sfondare” nel mainstream e trasformarsi in overground, un’epopea (?) di cui i Jesus Lizard indirettamente beneficiarono in termini di crescita di popolarità quando Kurt Cobain li richiese per pubblicare uno split single insieme ai Nirvana nel 1993, “Puss/Oh! The guilt“, probabilmente facendo toccare ai Lizard il punto più alto della “fama” presso il grande pubblico – “Rack“, il primo del gruppo nel nuovo millennio. Album reunion? Ma manco per il cazzo, perché i Lucertoloni (che devono il loro moniker ai basilischi crestati, rettili capaci di correre sulle acque e che, secondo la leggenda della mitologia europea, un tempo sarebbero stati in grado di uccidere o tramutare un uomo in pietra con il loro sguardo diretto negli occhi) riprendono il discorso interrotto ventisei anni fa con “Blue” (forse il capitolo meno riuscito della loro discografia, arrivato nel loro “periodo major” non proprio felicissimo) senza perdere un grammo della loro proverbiale ferocia sonora, oggi solo mitigata e “ingentilita” dal trascorrere del tempo carogna che non fa sconti a nessuno – i ragazzacci hanno oltrepassato le sessanta primavere -. Ma i quattro texani (oltre al frontman Yow, ritroviamo Duane Denison alla chitarra, David Wm. Sims al basso e Mac McNeilly alla batteria) sanno ancora picchiare duro, in direzione ostinata e contraria, e restano fedeli alla loro identità imbastardita di marciume sonico (non a caso, sono stati tra i pupilli del compianto Steve Albini). Rinnovata la “tradizione” di dare un titolo di quattro lettere a ogni long playing del combo (con tanto di copertina raffigurante un dipinto realizzato dall’artitsta inglese Malcolm Bucknall, tra l’altro non nuovo a collabrazioni con la band) basta la sola opener “Hide & seek” a spazzare via tutto l’imperante fighettume dei revival indie e post-post-punk, con la dinamitarda sezione ritmica di Sims e McNeilly a pestare sodo e la chitarra abrasiva di Denison che non concede mai assoli da sborone ipertecnico (se volete quelli, andatevi a sentire Malmsteen e altra robaccia simile) ma ti spacca i timpani, sui quali deraglia il “canto” stralunato e schizzato di Yow. Se in “Armistice day” e “What if?” i ritmi si fanno più rallentati e melmosi (ma ugualmente elettrizzanti, con uno Yow che oscilla tra il ruolo di predicatore e narratore spoken word) con “Grind” e “Lord Godiva” (infognata dal latrato disperato e paranoico di Yow) si torna sui lidi noise rock burini. Il “lato B” è aperto dalla basso-centrica e rocciosa “Alexis feels sick” (una delle gemme dell’Lp, fluttuante e mutevole nel suo incedere), “Falling down“, “Dunning Kruger“, “Moto(R)” e “Is that your hand?” infuriano nel loro noise-punk che non fa prigionieri, mentre la chiusura è affidata al vigore delle trame ossessive di “Swan the dog“. They might not be young, but they will never, ever get fucking old. Alla fine della fiera ne è valsa la pena? Sì, ne è valsa la pena di aspettare cinque lustri per godere di un nuovo, devastante, album dei Jesus Lizard. Certo, non siamo più ai livelli dei loro capolavori “Goat“, “Liar” e “Down“, però si gode lo stesso e la loro natura fracassona e attitudine sarcastica, aggressiva, perversa e nichilista non è andata smarrita. Finalmente i nostri, l’anno prossimo, torneranno anche a suonare dal vivo per tre date in Italia. E noi, nell’attesa di rivederli, siamo allupati come la loro mascotte. E ora dai, David, torna a incendiare i palchi col cazzo de fora!

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ZEKE – SNAKE EYES / THE KNIFE 7″

Short, fast, loud and to the fucking point: questa è, da sempre, l’essenza degli ZEKE, leggendario combo speed rock statunitense che, dal 1992 a oggi, ha fatto del rock ‘n’ roll veloce, grezzo, tiratissimo e sparato a manetta la sua bandiera e natura musicale. Il veterano quartetto di Seattle (formato dal figliol prodigo Donny Paycheck alla batteria, dal frontman/chitarrista Blind Marky Felchtone, da Jason Freeman alla chitarra e Jeff Hiatt al basso) a un anno di distanza dall’uscita del singolo “Ride hard ride free / Smokestack lightnin’“, torna a pubblicare nuovo materiale, e precisamente un altro 7” che ha ufficialmente visto la luce oggi (sulla label tedesca Hound Gawd! records) registrato da Jack Endino (presso i Soundhouse Studios di Seattle) e composto dai singoli “Snake eyes“, brano in cui la proverbiale furia punk-HC in salsa Motörhead della band è parzialmente smorzata e diluita in un high-octane R’N’R a tinte Hellacopters, mentre il “lato B” del single è “The knife“, al solito un’intensa scheggia suonata a rotta di collo alla maniera degli ZEKE. Come accaduto già per “Ride hard ride free“, anche i brani di questo 7” non sono stati resi disponibili sulle piattaforme digitali, una precisa scelta del gruppo, che ha l’intento di stuzzicare la curiosità di fan e persone interessate, ma intanto aggiungono carburante sonico a una macchina da guerra ultrarodata sui palchi di tutto il mondo in sede live, coi nostri che scaldano i motori per l’avvio di un imminente tour in UK ed Europa, che toccherà anche l’Italia in ben quattro date alla fine di ottobre (a Milano, Verona, Roma e Bologna). E noi saremo ben felici di lasciarci spettinare ancora una volta dai decibel deraglianti di Felchtone e compari. https://www.youtube.com/watch?v=IE6GyCME1x0

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The Zeros - Don't Push Me Around

The Zeros – Don’t Push Me Around

The Zeros – Don’t Push Me Around: definiti come i Ramones californiani se non addirittura messicani (il leader Javier Escovedo è figlio di emigranti, tutti musicisti).

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Monos

Monos – “Road to Perversion” e quattro chiacchiere

Monos : la realtà vuole però che la band nasca da una folgorazione (probabilmente non di origine divina) avuta da Mr. Bonobo e Mr. Gorilla rispettivamente alla chitarra e alla batteria. La loro prima uscita è datata 2019 mentre il nuovo album è alle porte.

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