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Recensioni Rock

Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.

Klasse Kriminale - Belin, dei Pazzi

Klasse Kriminale Belin, dei Pazzi

Marco Balestrino è una fucina di idee, lui vive, pensa e agisce sempre in base alle sue passioni; è un puro ed i Klasse Kriminale sono il suo credo in qualsiasi momento della sua vita.

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The Woggles - Anyway the Wind / Slippin'out 7"

The Woggles – Anyway the Wind / Slippin’out 7″

The Woggles – Anyway the Wind / Slippin’out 7″ se tale occasione ci sarà non si tratta comunque di questa perché la recente infornata di singoli offertaci dall’etichetta di Tolosa è nuovamente di una quantità stupefacente.

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THE ROUTES – SURFIN’ PLEASURES

Non c’è due senza tre. I Routes confermano la piacevole abitudine di avere un appuntamento, ogni anno, con chi vi scrive per trattare l’arrivo di loro nuove uscite, e questa volta i garage/psych/surf rockers anglo-giapponesi sono tornati con un altro album di cover. Dopo aver infatti già inciso, nel 2022, un tribute album, in chiave surf strumentale (incensato da Iggy Pop nel suo programma sulla BBC Radio Music 6) ai più famosi esponenti dell’elettronica del Krautrock germanico, i Kraftwerk, e la pubblicazione, l’anno scorso, di un disco composto interamente di cover rilette, di nuovo in ottica instrumental surf rock, dedicato agli adorati pop-punkers inglesi Buzzcocks, a ‘sto giro i nostri hanno sfornato dodici riproposizioni (che vanno a formare il loro quindicesimo full length complessivo) di brani dei Joy Division, in un nuovo tribute cover album incentrato sull’iconica band di Manchester, simbolicamente intitolato “Surfin’ pleasures” e uscito la scorsa settimana su Topsy Turvy/Soundflat Records. Il trio brit-jap (formato dal frontman e membro fondatore Chris Jack alla chitarra, basso e percussioni, coadiuvato da Toru Nishimuta al basso e Bryan Styles alla batteria/percussioni) dichiara il proprio amore per il seminale gruppo guidato dalla chitarra essenziale e tagliente di Bernard Sumner, dal basso portentoso di Peter Hook, dal drumming solido di Stephen Morris e dal canto cavernoso, decadente e straziato del compianto frontman, dall’anima tormentata, Ian Curtis (che, a cavallo tra Seventies ed Eighties, con all’attivo un Ep e due soli album ufficiali, “Unknown pleasures” e “Closer” – più le raccolte postume uscite negli anni – è stato tra i principali artefici della ridefinizione di un sound e dell’estetica in quel movimento sonoro e di idee ribattezzato “post-punk” che, mettendo in discussione la natura chitarrocentrica del rock ‘n’ roll, democraticizzava il rapporto tra gli strumenti suonati dai musicisti, dandogli uguale spazio e dignità, conferendo specialmente ai bassisti un inedito ruolo di primo piano, subito dopo l’implosione della prima ondata “storica” del punk rock 1976-1978, affermandosi in Inghilterra – e, a macchia d’olio, anche nel resto d’Europa, prendendo piede soprattutto in Italia nella prima metà degli anni Ottanta – e influenzando migliaia di ensemble venuti dopo di loro, in una parabola simile a quella dei Velvet Underground, fatta di pochi dischi in una manciata di anni, ma che hanno disegnato nuovi mondi e ispirato intere generazioni di giovani musicisti, un percorso folgorante, ma interrottosi troppo presto, col suicidio di Ian Curtis nel maggio del 1980, purtroppo) rendendogli omaggio con la destrutturazione sonica di dodici brani del repertorio dei mancuniani, riarrangiati, as usual, in veste surf rock strumentale (alla maniera di Ventures, Dick Dale, Terauchi Takeshi, Link Wray, Surfaris, Astronauts e altri). Fa un certo effetto ascoltare classiconi come l’immortale “Love will tear us apart“, o “She’s lost control” e “Transmission” sottoposte al surf treatment operato dai Routes, così come altri pezzi epocali come “Ceremony“, “Passover“, “A means to an end“, “Isolation“, “Dead souls” o “Atmosphere” spogliate della drammatica visceralità dell’ugola di Curtis, centrifugando le ritmiche le melodie delle canzoni originarie per trasformarle in entità Sixties retro surf rock fritte nelle reverb(erations). Come accaduto già per le altre due prove dei remake albums precedenti, il consueto florilegio di riverberi, twanging, tremolo e licks conferisce una personalità ben definita alle tracce che brillano di luce propria, pur mantenendo un’immediata riconoscibilità rispetto alle originali, e suona alquanto bizzarro scoprire che la musica dei Joy Division, che di certo non avevano un approccio ottimistico alla vita (almeno a livello lirico) in realtà non sfiguri affatto, se inserita in un contesto più spensierato, tramutandosi in potenziali soundtrack di un drag race movie, temi da beach party, o sottofondo alle cavalcate sulle tavole da surf nelle acque dell’oceano. Il tutto impreziosito dalla copertina disegnata dagli iconici graphic designer Malcolm Garrett e Peter Saville, con quest’ultimo che ha curato il design e l’artwork (nel 1979) del vero “Unknown pleasures”, prendendo spunto dalla sua nota produzione per ricreare gli interni del long playing e partendo proprio dal disegno di quella copertina per modificare l’opera ispirata all’artista Bridget Riley, trasformando le linee del pulsar della nota front cover nell’onda sonora di una tanica di riverbero. L’esperimento è ben riuscito e, ascoltando queste riletture, è probabile che nelle nostre menti baleni l’idea di immaginarsi un universo parallelo in cui Ian Curtis sia nato in California (e non nella grigia e perfida Albione) e che invece di prediligere letteratura e poesia e ispirarsi alla triade Morrison-Bowie-Iggy, corra su spiagge assolate a inforcare la tavola da surf per inseguire e affrontare le onde dell’oceano. Chissà, magari questo alter ego si sarebbe salvato dai suoi fantasmi. Surf won’t tear us apart. TRACKLIST SIDE A: 1. Love Will Tear Us Apart 2. Means To An End 3. Digital 4. These Days 5. Passover 6. Atmosphere SIDE B: 1. Transmission 2. Ice Age 3. She’s Lost Control 4. Isolation 5. Dead Souls 6. Ceremony

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DISCO BOULE – DISCO BOULE

Arrivano dalla vicina Francia a pochi chilometri da Lione.Con una batteria(Julien) e 2 chitarre(Brice and Gaetan) che grazie alla cartuccere di pedaliere, improntano il suono come un basso distorto ,hanno trovato la ricetta per questo gruppo esistente dal 2017-

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GY!BE – NO TITLE AS OF 13 FEBRUARY 2024 28,340 DEAD

Si può tradurre in musica – laddove non riescono ad arrivare le parole – l’orrore e lo sdegno provato, da parte di esseri umani pensanti, nei confronti di un genocidio etnico iniziato nel 1948 (e inaspritosi, purtroppo, da un anno a questa parte) portato avanti dalle politiche colonialiste e imperialiste di uno Stato (nato sulla base di dogmi religiosi e autoinvestitosi della missione di agire, “nel giusto”, per il volere di presunti diritti divini) nei confronti dei popoli che abitano terre non lontane da noi, a est del mar Mediterraneo? Il tentativo di esprimere in note lo sconcerto emotivo è stato interpretato dai Godspeed You! Black Emperor, ormai veterana (con trenta anni di percorso sul groppone, tra pause e ritorni) formazione canadese, dedita a un post-rock quasi interamente strumentale, che il mese scorso ha pubblicato il suo ottavo album ufficiale, “No Title As Of 13 February 2024 28,340 Dead“, uscito sulla label canadese Constellation records e registrato agli Hotel2Tango studios a Montreal. Un titolo emblematico per il corposo ensemble di Montreal (composto da Efrim Menuck, Michael Moya e David Bryant alle chitarre e tape loops; Sophie Trudeau al violino; Aidan Girt e Timothy Herzog alle batterie e glockenspiel; Mauro Pezzente e Thierry Amar al basso e contrabbasso, coadiuvati da Philippe Leonard e Karl Lemieux alla parte cinematica, con le 16mm film projections) che fa chiaramente riferimento all’ennesima strage di civili (il cui numero di vittime, purtroppo, è quasi raddoppiato rispetto al bilancio del titolo del disco, e tra i morti vi sono migliaia di bambini) che si sta consumando, da un anno esatto, nella striscia di Gaza, una terra martoriata da apartheid (contro gli arabi palestinesi, “rei” di non piegarsi ai diktat dell’imperialismo ebraico che, accecato dalla sua ideologia suprematista, vorrebbe cancellare dagli atlanti geografici e dalla storia i territori della Palestina storica per mettere in pratica un delirante progetto di “Grande Israele” che, rivendicando il diritto a una “terra promessa” che considerano la loro patria storica, ha intenzione di appropriarsi della striscia di Gaza con la forza e col sangue di migliaia di persone ammazzate in quasi ottanta anni di conflitti) e continue ingerenze politiche, economiche e militari (attraverso le cosiddette “bombe democratiche”, un po’ come i loro alleati statunitensi che “esportano la democrazia” in giro per il globo con guerre, morte e distruzione) perpetrate dallo stato di Israele che, indottrinato dal fanatismo politico/religioso sionista nazionalista, e forte dell’appoggio logistico, economico e militare del mondo occidentale atlantista, porta avanti da decenni una campagna sistematica segregazionista di eliminazione politica, geografica e, letteralmente, fisica (intesa come la pianificazione di uno sterminio dei popoli arabi confinanti con Israele, col conflitto che purtroppo si è esteso anche al Libano e rischia di coinvolgere anche l’Iran, con temibili conseguenze nucleari) volta a cancellare le terre abitate dai palestinesi – considerati dal fanatismo sionista come animali da abbattere e “non umani” – attraverso un’oppressione razzista e brutali aggressioni colonialiste, invadendo i territori e annettendoli militarmente e illegalmente al regime dittatoriale neofascista israeliano (magnificato come “l’unica democrazia del Medio Oriente”, dalla propaganda dei media mainstream occidentali) in espansione, che bolla come “antisemita” chiunque osi criticare, anche velatamente, il suo modus operandi in politica estera, mettendo in luce anche l’ipocrisia storica di chi, tramite i suoi antenati, ha patito la terribile discriminazione e persecuzione nazista dell’Olocausto, ma oggi si comporta esattamente alla stregua dei nazisti contro i palestinesi e le genti dei territori confinanti. Si perdoni il pippone/spiegone, ma era necessario per descrivere gli antefatti e il significato di un long playing intitolato “No title as of…“, e di certo questa rappresenta una forte presa di posizione (seppure non connotata da proclami o slogan politicizzati) contro questa strage quotidiana di persone innocenti, soprattutto se si considera il fatto che alcuni dei membri dei GY!BE (in particolare Efrim Menuck) siano proprio di origine ebraica, e che quindi percepiscano maggiormente sulla propria pelle il senso di ingiustizia per gli efferati crimini di guerra commessi ai danni di povera gente in terre dimenticate da Dio. I nostri affidano alla musica l’arduo compito di dare senso compiuto all’esternazione dei propri sentimenti di angoscia, rabbia e impotenza riguardo questa seconda Nakba e catastrofe umanitaria messa in atto dai coloni(zzatori) israeliani ai danni dei palestinesi nei territori occupati abusivamente, e i sei brani del full length (che presenta una scarna copertina, tratta da una foto di Stacy Lee) riflettono la natura anticapitalista (manifestatasi anche nei dischi precedenti, come “Luciferian towers” e “G_d’s Pee At State End!“) del combo canadese, che arriva a forgiare un’opera dal feeling apocalittico che, tra i consueti saliscendi sonici, crescendo, droni e field recordings, riesce nell’intento di trasporre, in emozioni sonore, il crudo realismo che ogni guerra comporta, col suo carico di disperazione, dolore, oscurità, amarezze, cieca violenza, incertezze, paura, desolazione, terrore, malinconia, empatia per il massacro dei più deboli e disgusto per la ferocia degli invasori: se “Sun is a hole sun is vapors” ha l’onore e l’onere di introdurci in questo cupo viaggio atmosferico, “Babys in a thundercloud“, “Broken spires at dead kapital“, “Raindrops cast in lead” (l’unico pezzo che vede una presenza vocale, quella di Michele Fiedler-Fuentes) e “Pale spectator takes photographs” sono lì a dimostrarlo. Ma, dalle macerie dello sterminio, i nostri vogliono far ugualmente vibrare nell’aria un anelito di speranza nella conclusiva “Grey rubble – green shoots” in cui, nonostante questo nuovo secolo non abbia imparato nulla dalle atrocità del passato, che si ripetono a causa delle scellerate e distopiche azioni di ingordi guerrafondai senza coscienza che stanno trascinando l’umanità verso la Terza guerra mondiale, l’amore resterà più forte dell’odio, e il sole tornerà a splendere sui letti di cenere. “Dall’altra parte del mondo è in corso un genocidio di migliaia di persone innocenti, di che stiamo a discutere? Ha ancora senso dare un nome alla musica?” si chiedono, indignati, i Godspeed You! Black Emperor, che in “No title” regalano ai nostri timpani drammatica bellezza, offrono una delle loro prove più solide, un “cessate il fuoco” simbolico, continuando a suonare come atto di Resistenza e, come sempre, non avendo timori nello schierarsi dalla parte giusta della barricata e della Storia, tenendo fede al loro percorso di integrità morale. Tacciano le armi e si ritrovi il lume della ragione. From the river to the sea, Palestine will be free (?).

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