Class – If You’ve Got Nothing”, 2023-Feel It Records
Io i Class non li capisco, o meglio: non capisco come facciano a saltare di palo in frasca rimanendo sempre coerenti con se stessi, il loro suono, le loro idee. E per questo un po’ li invidio.
Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.
Io i Class non li capisco, o meglio: non capisco come facciano a saltare di palo in frasca rimanendo sempre coerenti con se stessi, il loro suono, le loro idee. E per questo un po’ li invidio.
Il suono dell’oi si evolve e cambia, sfuggente e allergico alle catalogazioni, e bellissimo come in questo disco dei Rancoeur, un gruppo che regala emozioni fortissime e che rimangono nel cervello e nel cuore.
Prima che qualcuno o qualcosa facesse dell’emo(core) una burletta, esistono finanche film hard con protagoniste “emo”, il genere di per sé era molto più che rispettabile.
Give Vent è un gruppo che nasce come avventura solista di Marcello Donadelli (You vs Everything, Moscova, GRES) nel 2013, e con il corso dei tempi diventa un gruppo vero e proprio, un ensemble molto interessante.
Be All The Nothing You Can Be by Be Nothing O il Post Punk lo fai come i Chameleons (vedi Fountaines D.C.) o lo fai come era inteso essere in forma primigenia: un’evoluzione del Punk Rock e cattiva tanto quanto. I Be Nothing non vogliono piacerti e, nel loro intento, riesumano un linguaggio disperso in vecchi cataloghi della alternative tentacles: No Means No, Victim’s Family, Butthole Surfers… il post punk qui è inteso come un qualcosa che, appunto, viene non semplicemente dopo il punk ma si pone come una tra le possibili evoluzioni del genere, seguendone le traiettorie più ostili e cruente. Suono secco, pezzi brevi, piccoli incubi monomaniacali che si riversano in un calderone dove un liquido schizofrenico non smette mai di agitarsi e di ustionare qualora si volesse immergervi la mano. Riemergono piccoli frammenti di Punk Rock e di Noise, si mescolano, fanno pensare prima ad un gruppo, poi ad un altro, poi ad un altro ancora e, infine, solo esclusivamente ai Be Nothing: peculiarità del gruppo è senz’altro la capacità di saltare da una dimensione ad un’ altra senza perdere la propria integrità, riescono, cioè, a mantenere la loro personalità (forte, inscalfibile e, proprio per questo, unica) senza mai scadere nell’ ovvietà di un “troppa roba in troppo poco tempo”. I riferimenti ci sono e ,ci mancherebbe, sono pure riconoscibilissimi ma i Be Nothing sanno come mascherarli o, meglio detto, modellarli per renderli indossabili solo da loro stessi. Si cuciono addosso quarant’anni di musica underground americana e se ne fanno carico, ci mettono davvero la faccia, la passione, l’impatto e ne escono ordinati pur mantenendo il caos, rimangono scrupolosi pur facendo guidare la loro ricerca sonora dal disordine. In tutto questo quello che rimane è un disco divertente e stimolante (cose non da poco in un’ epoca così grigia e priva di slanci), capace di fare ballare come anche di gridare, arrabbiarsi e rimanere inquieti ed inquietanti.
Il capitalismo ci ha privato dei sogni, e allora spacchiamo tutto e affanculo il mondo intero. Questo è il mood generale che trasuda dai solchi di questo Lp, “We stand against you“, settimo studio album ufficiale degli alternative/stoner/punkers statunitensi Mondo Generator: un titolo che è tutto un programma, con tanto di bottiglia-bomba molotov in copertina, e che si traduce in venti e rotti minuti di disperato scoglionamento e sciorinati, da Nick Oliveri e soci, col tono incazzato di chi non ha più niente da perdere e, soprattutto, sembra non avere più fiducia in niente e in nessuno: non a caso è stato definito, dal diretto interessato, “il nostro disco più heavy“. Il long playing, uscito a metà ottobre sulla label italiana Heavy Pysch Sounds, è un’altra opera, a suo modo, “figlia” del covid-19, dei lockdown e dei sentimenti di rabbia, disillusione e frustrazione che la pandemia generato, ma il livore sputato da Oliveri in questi nuovi nove pezzi (che tengono in vita il suo progetto musicale più longevo, essendo iniziato nell’ormai lontano 1997) riflettono in pieno i tempi caotici e violenti in cui stiamo vivendo, tra pensieri personali, liriche che parlano di famiglia e cari amici che muoiono o si suicidano, e l’esperienza avuta col coronavirus. Il frontman e bassista californiano, ex Kyuss e Queens of The Stone Age (tra gli altri) e coadiuvato dalla potente sezione ritmica formata da Mike Pygmie alla chitarra e Mike Amster alla batteria, apre le convulse danze con i due minuti e mezzo al vetriolo della “quasi” title track “I stand against you/Blast off” che, tra un countdown e un “fuck” e l’altro, ci scarica subito addosso il suo caricatore alt-punk con un Oliveri furente che pare essere quasi sul punto di farsi esplodere la gola su quei “YEEEEEAH” alla fine del pezzo. Non da meno è la successiva cavalcata motörheadiana “Ruber room“, grintosa e alcoolica, alla quale seguono i due minuti e mezzo di “One Two Three Four” in cui riemerge la vena stoner rock (velocizzata e punkizzata) à la QOTSA del nostro losangelino, quasi fosse una cugina sfigata di “First it giveth“. “Unglued” è un proiettile hardcore punk di un minuto e quaranta secondi, mentre “Death march” e “Conspiracy (fact or theory)” si ibridano con sonorità imbastardite post-HC/alt.metal vicine a Helmet e Rollins Band, e in “I want out” riaffiorano reminiscenze stoner imbevute di Sabbathismo in formato bignami. WSAY si chiude coi cinquantasei secondi di grezzo assalto frontale in “Sky valley meth” e col feroce stoner/punk di “For a day“, un pezzo che darebbe l’idea di come avrebbero potuto suonare i Kyuss strafatti di erba e peyote se, negli anni Novanta, avessero mai registrato un album di cover di brani hardcore in uno dei generator parties organizzati nel deserto nei dintorni di Joshua Tree. Ah, prima che ce lo chiedate: non ce ne frega nulla del nuovo album degli Stones e non ce ne frega nulla del fatto che tutti ne parlino. A noi interessano i progetti ruspanti di vero rock ‘n’ roll e non le cariatidi che da cinquant’anni non hanno più nulla da dire e vanno avanti per inerzia. Se volete un consiglio spassionato, lasciate perdere il ruooock patinato e glamour da copertina delle riviste di gossip e ascoltate i dischi di band come i Mondo Generator, sostenete figure veraci e coerenti come quella di Nick Oliveri, autentici perdenti di successo, da tre decenni sulle scene a registrare e suonare, incessantemente, in adrenalinici concerti sbraitati sui palchi dei vari festival e nei club in giro per il mondo (e, spesso, anche in Italia) con i suoi gruppi o da solista o in altre avventure e collaborazioni, sempre con la stessa genuinità R’N’R e voglia di fare casino che ritroviamo anche in “We stand against you“, che è un full length che spacca il culo ai passeri e, probabilmente, si è già guadagnato buone possibilità tra i candidati a rientrare nella mia personale e ambitissima (seh, vabbè… ma chimmesencula) “top ten” degli album ascoltati nel 2023. E, col benestare di Rex Everything, regaliamo un sincero e accorato “dito medio” a tutti i benpensanti.
Ancora Roma, ancora vecchie conoscenze, ancora hardcore. Non fatevi ingannare dai titoli, questo non è un disco Oi!, questo è un album hardcore al 100%.
Il singolo è un’occasione per celebrare due band fondamentali per la storia del punk italiano, e rappresenta un esempio di come la musica possa essere un potente strumento di comunicazione e di cambiamento.
Le mere categorie musicali, i generi, sono totalmente inadeguati per poter far capire di cosa si tratta, bisogna ascoltare e farlo anche con calma, come siamo davvero disabituati a fare, ma gli Aguirre sono davvero un’altra cosa.
Quando penso ad un Maharaja non mi viene in mente un sovrano indiano, ma Jinder Mahal, wrestler in auge qualche anno fa che, con poca modestia, soleva farsi definire the Modern Day Maharaja e mi pare che in fondo, il mondo del wrestling – ancor di più quello della lucha libre – e quello del rock’n’roll abbiano sempre avuto un forte legame: troppo sopra le righe e magnificamente baracconesco , una sorta di circo Barnum, quello che noi da bambini chiamavamo “catch”, per non affascinare vaste schiere di (garage) punkers. Direi però, che la band Les Maharajas, oggetto di queste mie righe, non abbia fatto il mio stesso ragionamento per scegliere il proprio nome, fosse solo perché si sono formati prima che il succitato lottatore calcasse le scene, ma non fa nulla… ogni scusa mi par buona per aprire le mie recensioni con romantiche, spesso ardite, elucubrazioni. Ok, ho capito, passiamo alle due canzoni che compaiono in questo singolo fresco fresco, edito dalla benemerita Rogue Records. Sul lato A trova posto Talkin’ to the Man un pezzo di puro glam-rock ben costruito e assi ben suonato. Si gira facciata e con (Let’s) Play House i ritmi si alzano un pochino finendo per lambire territori pub-rock pre settantasettini; anche in questo caso il brano risulta assai frizzante, dimostrando una verve che non tutti i gruppi posseggono. I Maharajas fanno parte, a pieno titolo, della grande scuola scandinava che, partendo dal garage revival e passando per l’high energy rock’n’roll, ha fatto della terra di Bjorn Borg un’ eccellenza mondiale di suoni che amiamo e sempre ameremo. Ah, Jinder Mahal in realtà è canadese; adoro il wrestling ed il rock’n’roll, sono due grandi truffe che aiutano a tenerci giovani. Les Maharajas Talkin’ To The Man by The Maharajas Tracklist: 1. Talkin’ To The Man 03:20 2. (Let’s) Play House 02:35
Chris Jack, evidentemente, ci ha preso gusto. Dopo aver inciso coi suoi Routes, nel 2022, un tribute album, in chiave surf strumentale (incensato nientemeno che da Iggy Pop nel suo programma sulla BBC Radio Music 6) ai più famosi esponenti dell’elettronica del Krautrock germanico, i Kraftwerk, quest’anno i nostri si sono cimentati nel registrare un altro disco (il loro quattordicesimo complessivo, che arriva a un anno di distanza dalla doppietta di Lp “Get Past Go!” e “Lead Lined Clouds“) composto interamente da cover rilette di nuovo in ottica instrumental surf rock, stavolta dedicato agli amati Buzzcocks, veterana band inglese tra le prime in Inghilterra a essere pensata come formazione punk rock sulla scia dell’ormai storico concerto dei Sex Pistols al Free Lesser Trade Hall di Manchester nel giugno 1976 che folgorò i presenti accorsi e poi ispirò un’intera generazione di giovani a mandare affanculo l’ordine costituito borghese, le rockstar miliardarie che si atteggiavano a dei scesi in Terra e i vecchi dinosauri del progressive rock per tornare a una musica più semplice, sporca (tre accordi, niente assoli né artifizi né pacchianate virtuosistiche) rozza, sgraziata, al rock ‘n’ roll stradaiolo della working class che si riappropriava di tematiche reali e parlava dei problemi veri della gente comune nella vita ogni giorno (e non più di groupies, ville da nababbi, macchinoni, soldi, fate, unicorni, arcobaleni, spade, draghi, elfi, folletti e altre futilità fantasy da ricchi viziati che vivono in una torre d’avorio, completamente fuori dalla realtà quotidiana) a un ritorno dell’uguaglianza tra pubblico e musicista, senza barriere né palchi a chilometri di distanza dall’audience, un tornare all’umanizzazione di chi performava su un palcoscenico (spesso delle pedane di legno pericolanti in piccoli e sudici club) e si metteva allo stesso livello di chi era venuto ad ascoltarlo perché non si riteneva superiore alla massa; un rifiuto del patinato rock da folle oceaniche osannanti nelle arene e negli stadi e un recupero delle radici del R’N’R suonato nelle cantine da innumerevoli garage bands amatoriali con strumenti da pochi soldi, e abbracciare l’universo del punk rock, a conti fatti l’ultima rivoluzione del Novecento in fatto di musica, estetica (che tendeva a provocare, shockare, spaventare l’autorità e mettere in discussione e oltraggiare tutto ciò che era considerato di buon gusto dalla castigatissima società inglese/britannica del tempo, imbevuta di austerità monarchica, che infatti era disgustata dall’ondata di esuberante goliardia, violenza gratuita generalizzata, borchie, creste e spille da balia generata dalle intuizioni situazioniste di Malcolm McLaren e dalla sua combriccola di adorabili cialtroni, costantemente visti come una minaccia per il cosidetto “ordine pubblico”) fenomeno mediatico e di costume, ma anche e soprattutto a livello etico e concettuale, con l’adozione della filosofia Do-It-Yourself a stile di vita (e di cui i Buzzcocks furono tra i precursori nella scena, autoproducendo il loro primo materiale, l’Ep “Spiral Scratch“). La scorsa settimana i Routes (confermandomi la piacevole abitudine di avere un appuntamento, almeno una volta l’anno, con l’arrivo di nuove uscite rilasciate dai garage/psych rockers brit-giapponesi) hanno pubblicato, su Topsy-Turvy/Soundflat Records, questa dichiarazione di amore per il gruppo mancuniano (orfana, dal dicembre 2018, del suo frontman Pete Shelley, e oggi ancora attiva, nel suo ricordo, per volere del chitarrista Steve Diggle) in un disco ad hoc, intitolato “Reverberation Addict“, la cui copertina (curata dall’icona del design grafico Malcolm Garrett , al lavoro con gli stessi Buzzcocks all’epoca) prende spunto da quella del celebre singolo dei quattro di Manchester, “Orgasm Addict“, che utilizzava le grafiche DIY realizzate dall’artista Linda “Linder” Sterling (in seguito frontwoman nella band post-punk Ludus). Affetto condiviso pienamente anche da chi vi scrive, in quanto adoro i Buzzcocks e la loro miscela di punk rock e fragranze pop, contraddistinta da tempi medio/rapidi e sonorità aspre mitigate da uncini melodici perfetti e fresche armonie che ingentilivano il frastuono di chitarre e sezione ritmica: una formula che ha fatto scuola, specialmente con i loro primi album, quelli dei late Seventies prima del temporaneo scioglimento. Il trio (Chris Jack – chitarra, basso, percussioni e organo; Toru Nishimuta al basso e Bryan Styles alla batteria) infatti attinge proprio dal repertorio più conosciuto e iconico dei Buzzcocks di fine anni Settanta per riproporne quindici brani riarrangiati, come già detto in precedenza, in veste surf rock strumentale (alla maniera di Ventures, Dick Dale, Terauchi Takeshi, Link Wray, Surfaris, Astronauts e altri) detto che scegliere solo quindici pezzi immagino sia stata una scelta di scrematura abbastanza difficile, vista la bontà del materiale originario che invogliava a inserirne molti di più, il risultato finale è gradevole e anche divertente da ascoltare. A partire dal classico dei classici, “Ever Fallen In Love (With Someone You Shouldn’t’ve)” pubblicato in precedenza come singolo e qui posto in apertura del long playing (di cui i nostri avevano già offerto un antipasto in un Ep) e nelle mani di Chris e soci si trasforma in un pezzo da colonna sonora che farebbe da cornice a un ipotetico “Kill Bill vol. 3” di Quentin Tarantino. Il florilegio di twanging, tremolo, licks e reverb(erations) continua lungo tutto il full length e, pur mantenendo un’immediata riconoscibilità rispetto agli originali, ogni rifacimento ha una sua personalità ben definita, e allora si passa attraverso “Noise Annoys“, la succitata “Orgasm Addict” che nel remake Routesiano non avrebbe sfigurato nel repertorio di Dick Dale, una “Just Lust” a metà strada tra sonorità spaghetti western e Bo Diddley, una “Love You More” rallentata e ammantata di malinconia da soundtrack Morriconiana, mentre “Something’s Gone Wrong Again” possiede la giusta grinta per fare da sottofondo alle cavalcate sulle tavole da surf nelle acque del Big Sur californiano. “You Say You Don’t Love Me” chiude la prima facciata ed è rimaneggiata quasi al punto da sembrare un lento da ballo di fine anno al liceo/high school. “Whatever Happened To?” apre il lato B e anch’essa riceve una surf treatment fatta a regola d’arte, con ogni dettaglio melodico ben rifinito e al posto giusto. E via così anche in “Everybody’s Happy Nowadays“, nella sprintante “Fast Cars” che sarebbe stata perfetta come main theme di un drag race movie, nello spaghetti western à la Morricone in cui viene tramutata “What Do I Get?“, negli altri cavalli di battaglia “Lipstick“, “Oh Shit!“, “Fiction Romance” e la conclusiva “Promises“, fedeli allo spirito dei brani ormai oltre quattro decadi fa, eppure plasmate in modo così certosino da rivivere in una nuova dimensione e brillare di luce propria. Non so voi, ma a me tutto questo scrivere di queste cover (e canticchiare le parti vocali originali, mentre le ascoltavo) ha fatto venire voglia di rimettere su anche i dischi dei veri Buzzcocks, pertanto torno a spararmi “Spiral Scratch”, “Another music in a different kitchen“, “Love bites“, “A different kind of tension” e “Singles going steady” a volumi insostenibili. Se questo era uno degli intenti dei Routes, direi che ci siano riusciti in pieno. TRACKLIST SIDE A: 1. Ever Fallen In Love (With Someone You Shouldn’t’ve) 2. Noise Annoys 3. Orgasm Addict 4. Just Lust 5. Love You More 6. Something’s Gone Wrong Again 7. You Say You Don’t Love Me SIDE B: 1. Whatever Happened To? 2. Everybody’s Happy Nowadays 3. Fast Cars 4. What Do I Get? 5. Lipstick 6. Oh Shit! 7. Fiction Romance 8. Promises
Gli spagnoli, dal punto di vista strettamente musicale, soffrono di una gran brutta tara derivante dal fatto che, da più di un decennio, la maggior parte dei tormentoni estivi e non solo vengano prodotti e cantati nel loro idioma.