Mad Rollers – Dog Meat
Mad Rollers fanno glam, un genere che in fondo non consente grandi svolazzi creativi, ma che invece incontra da sempre il mio incondizionato favore.
Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.
Mad Rollers fanno glam, un genere che in fondo non consente grandi svolazzi creativi, ma che invece incontra da sempre il mio incondizionato favore.
“Shake your ass, baby!” E’ la prima esclamazione che mi è venuta in mente ascoltando l’irresistibile groove che permea questa nuova creatura partorita da Jim Jones e i suoi All Stars, “Ain’t No Peril”, album di debutto uscito, a fine settembre
Antisocial Spaguetti Club, un album di surf rock andaluso che combina tradizione e sperimentazione, con un tocco di sarcasmo.
Niccolò mi scrive per una recensione al suo gruppo, i Plankton da Firenze (per la cronaca suona anche nei Morgana, gruppo Post Punk Dark Wave che ho già recensito qui e motivo per cui mi scrive). È da un po’ che non riesco più a scrivere recensioni, mi è passata la voglia e stento a trovare motivazioni per farlo. I Plankton li avevo visti proprio a Firenze, al Next Emerson, nella primavera del 2019, a due passi dal disastro, sia sanitario (per tutte e tutti) che emotivo (per me, ma ho ragione di credere anche per molti altri). Giunti ad una tregua, se non ricordo male, tra statistiche, contagi e complotti, nell’ estate del 2021, io mi decido a scrivere recensioni e contatto Simone di In Your Eyes, i Plankton, di par loro, non si arrendono, come tante altre formazioni , di fronte alle varie restrizioni e limitazioni e continuano imperterriti a suonare. Allora non sapevo che questo sarebbe stata una grande lezione per me, resa ancor più grande dal fatto che Niccolò e gli altri dei Plankton sono più giovani di me. “Non c’è sconfitta nel cuore di chi lotta” era una canzone che mi aveva molto colpito durante la loro esibizione, un inno dai toni che potrebbero apparire scontati e retorici ma che in realtà appartengono a quel vocabolario di frasi ed azioni la cui ripetizione, nei decenni, rinnova e tonifica la convinzione nello spirito di chi ascolta, convincendolo che, si, la vita urta, ferisce e fa male, ma, finché c’è sempre qualcuno disposto a crederci allora è bene andare avanti, non arrendersi: lo fanno loro per te, lo devi fare tu per loro. Dischi come “In Balia delle onde” servono proprio a questo: tenere salda, con spontaneità ed entusiasmo, quella catena empatica che lega inesorabilmente tutte e tutti coloro abitano idealmente gli ambienti underground: fare per essere, essere per resistere. La musica è un Hardcore melodico dalle forti tentazioni verso il Thrash Core dei loro concittadini Carlos Dunga (Niccolò suona con Ivan dei CD proprio nei Morgana), con, in aggiunta, una forte propensione verso gli episodi più Hardcore degli SFC di quel capolavoro che fu “Prigioni”: un disco che può apparire certamente molto melodico ma la cui velocità e asprezza, appunto, Thrash ne rivelano il lato più militante e risoluto. Non so se quella sera di primavera “l’ultimo mio grido” fosse già in scaletta, ma il dato di fatto che il suo testo, sorretto da una base che davvero sa come mettere insieme velocità, tecnica e melodia “La mente fredda, dopo tanto tempo, sto aspettando un tuo reale abbraccio, distendo tutte le ultime carte, potrei giocarle a viso scoperto,… è la mancanza che mantiene il ricordo, nella mia testa un grande rifiuto che mi fa urlare che non sono ancora morto!” Esattamente così, un ultimo grido prima di ripartire, di rimettersi con la penna in mano e trovare di nuovo la spinta per fare un qualcosa che sia sempre condivisione, empatia e rifiutando che tutto questo sia solo commercio e inutili parole riversate sul web per fare vendere due copie in più a qualcuno; e tutto questo perché non siamo ancora morti. In fondo è bello scrivere recensioni per gruppi come i Plankton e sentirsi ripagati con un grazie sentito e pensare che tutto è partito perché a uno di loro è piaciuto come scrivi. L’ intero disco, rimanendo ancorato alla tradizione Melodic Hardcore, nasconde in sé un’ epica straordinaria (non è certo un segreto come, i protagonisti anni ’90 del genere, sapessero tradurre certi fraseggi Heavy Metal a seconda delle loro necessità narrative), dove la tematica è l’ impossibilità di arrendersi di fronte ad un reale che farebbe venir voglia di smettere con tutto, abituarsi al fastidioso brusio della routine, lasciarsi trascinare dalle onde per poi schiantarsi contro gli scogli e pensare “non avrei potuto fare altrimenti, non avrei potuto punto e basta” ed invece continuare a suonare, a scrivere, a pensare, a fare, perché, anche se magari questi potrebbero davvero essere gesti inutili di fronte all’ indifferenza del vivere quotidiano, son gli unici gesti che danno un senso al tutto, ad un’ intera esistenza. “Non si può fermare travolgente passione, spacca le rocce, spezza le catene. Un treno vuoto che, fuori stazione, sfreccia veloce, ne senti il rumore. Come un’ esplosione, come un fiume in piena, come sopportare tagli e graffi sulla schiena?” I Plankton stanno cercando coproduttori per dare un supporto fisico a questo gioiello di Punk Hardcore sentito e terribilmente romantico; scrivete quindi a scimpio00@gmail.com e dategli una mano. Ne vale davvero la pena. Plankton – In balia delle onde IN BALIA DELLE ONDE by PLANKTON
Se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo, Graham Day: chitarrista, frontman e membro fondatore di diverse band, veterano polivalente jolly della scena garage rock revival esplosa in Inghilterra nei primi anni Ottanta (nonché collaboratore di un’altra leggenda vivente del garage rock britannico e mondiale, sua maestà/bassa fedeltà Billy Childish) una figura che, al pari del suo meraviglioso compare, è sempre troppo poco celebrata come meriterebbe. Quest’anno il buon Graham, dopo aver pubblicato nel 2022 il suo Lp di debutto assoluto da solista, ha pensato bene di riattivare i suoi Gaolers e, a quindici anni di distanza dall’ultimo studio album, “Triple Distilled“, torna a pubblicare nuovo materiale con questo moniker e, qualche mese fa, ha dato alle stampe questo “Reflections In The Glass“, terzo full length complessivo del progetto (come tanti altri lavori, anch’esso previsto inizialmente nel Duemilaventi, prima che esplodesse globalmente la pandemia da covid-19) uscito sulla benemerita Damaged Good Records. A livello sonoro, col nostro si va sul sicuro, e allora ecco pronti da gustare dodici brani cucinati con la consueta, saporita ricetta a base di garage rock, mod, beat e power pop. Il trio (composto da Graham Day alla chitarra, voce e organo; Jon Barker al basso e all’hammond, piano e backing vocals; “Dan Elektro” alla batteria) apre le danze con la frizzante “Mystery man“, dal timbro Who, al quale fanno seguito “Narrow mind” (già presente sull’esordio solista di Graham, qui in una versione energizzata) “Step out of your parade” e “A Rose Thorn Sticking in Your Mind’s Eye (altro remake da “The master of none“), condite da riffoni e armonie dannatamente Kinksiane, mentre “I can’t stop this feeling” è contraddistinta dal feeling agrodolce dell’organo che spadroneggia lungo tutti i tre minuti di durata del pezzo. “I will let you down” è un altro riarrangiamento di grintoso beat/punk proveniente dal 2022, le fresche armonie Beatlesiane di “My body tells me the truth” sono felicemente contagiose e l’esuberanza di “Different rules” è un toccasana per gli amanti di sonorità Sixties oriented (muovendosi sempre sui lidi Who/Kinks) refreshate con l’urgenza del garage rock (sound messo ottimamente in risalto dall’impeccabile produzione curata da Jim Riley insieme agli stessi Gaolers). “Don’t hide away” (altra canzone ripescata dall’anno scorso) col suo piglio brusco e malinconico, è una di quelle covid songs che fanno riflettere e sperare e invogliano (soprattutto le persone che, a causa della pandemia, si sono rinchiuse in loro stesse e hanno rinunciato a tornare nel mondo reale) a non mollare la presa né a lasciarsi sopraffare dagli eventi e dalla paura instillata dal terrorismo psicologico operato dai mass media. La parte conclusiva del disco è affidata alle amare liriche del beat organistico di “History on repeat“, alla già edita “Time is running out“, rinvigorita nelle sue fragranze Mod/punk, e ai quattro minuti di “Filtered face“, il pezzo più elaborato e soulful del lotto. Guitar playing graffiante e brillante, aggressività e melodia, una produzione azzeccata e potente, un Graham Day in versione “highlander” e più ispirato che mai: Medway garage-beat at its best, difficile pretendere di più (e meglio). Questi carcerieri non fanno prigionieri, ma potrebbero detenere, almeno per una mezz’oretta, il controllo dei vostri timpani, menti, corpi e anime. Supportate e acquistate questa musica, ché di sicuro non troverete come sottofondo nei supermercati, mentre l’italiano medio fa la spesa e discute e si infervora su argomenti cruciali per il destino dell’umanità: direte voi, per caso è l’intelligenza artificiale (AI)? O l’insostenibile carovita causato dall’inflazione e dal sistema di neoliberismo capitalista che scarica le perdite e i costi delle crisi sul 99% del genere umano, mentre tutela e privatizza i profitti accumulati dall’uno percento più ricco del nostro pianeta? Macché: sono le pesche per i genitori divorziati.
Non sbagliano un colpo gli inglesi Hip Priests, quintetto attivo dal 2006 e quest’anno giunto a pubblicare il suo quinto studio album, scritto durante il periodo pandemico, “Roden House Blues” (titolo che prende il nome dal luogo in cui la band prova) uscito a inizio maggio sulla label svedese The Sign Records, a quasi un lustro di distanza dal precedente Lp “Stand for Nothing“. Questi ragazzacci, originari di Nottingham, sanno come far scuotere testa, gambe, culo e cuore, proponendo da oltre quindici anni una miscela incendiaria di punk ‘n’ roll che shakera Motörhead, le compilation Killed By Death, MC5, Stooges, Radio Birdman, Ramones e Scandinavian Rock à la Hellacopters, e anche quest’ultimo Lp non fa eccezione e ci scarica addosso mezz’ora incandescente di rock ‘n’ roll veloce, energico e senza fronzoli, tra infuocati hooks, irresistibile rifferama e credibile fuck-you attitude. Pronti-via e subito ci travolge la partenza con “Trojan Horseshit“, un proiettile di un minuto e mezzo, e “Inaction Rocks“, altra bordata fast ‘n’ furious, a cui segue “Shakin’ ain’t Fakin‘“, che ha tutte le caratteristiche per essere un nuovo freak anthem: adrenalinico e con un ritornello da urlare a squarcia(u)gola ai concerti. Non da meno è il successivo minuto e venti secondi di “P.O.P. (Pissed on Power)” una sarabanda motorheadiana punkizzata di cui Lemmy sarebbe stato fiero, mentre “Can’t abide with me” è una lockdown song che musicalmente rende omaggio al sacro duo australiano Radio Birdman-Saints. I numerosi cambi di line up (oggi formata dal frontman Nathan Von Cruz, Austin Rocket e “Gentle Ben” alle chitarre, Lee Love al basso e “D.P Bomber” alla batteria) non hanno scalfito la potenza di fuoco del combo albionico, e ne abbiamo prova anche in “Chasing death” e “Sell my soul“, altri pezzi di R’N’R ruspante, e poi il potenziale singolone/classico “Just to get by” grida Hellacopters da ogni oncia di sudore sonico sprizzata. L’album si chiude con una micidiale tripletta di high energy rock ‘n’ roll composta da “Persistance is futile“, ” Tiger in my tank” e “The best revenge“, roba che, se venisse suonata a volumi insostenibili, farebbe ballare anche le montagne. Ascolta un cretino (come diceva in passato un noto personaggio comico): se avete fame e sete di rock ‘n’ roll verace e selvaggio, i solchi di questo disco sono ampiamente consigliati, i Sacerdoti dell’Anca predicano sui pulpiti di chiese sconsacrate e sono un ottimo esempio da portare alla causa della buona salute di cui gode ancora la nostra musica preferita. Per tutti gli altri modaioli ci sono i Thirty Seconds to Mars (e simili) il finto ruooock per finti rockettari da virgin radio. Speriamo che la patinata immondizia del “music business” e del mainstream continui a ignorarli ancora a lungo (ma di questo a loro non frega una beata minchia, non hanno un management né appartengono ad agenzie di booking, sono totalmente indipendenti e hanno fatto del DIY uno stile di vita, come si fa a non volergli bene?) così potremo continuare a spararci nelle orecchie long playing rumorosamente lerci come questo. Long live the Spasm Gang!
Corey Taylor: Una carriera solista che sta assumendo sempre più importanza e spessore musicale.
Nelle sonorità dei SGATV si può riconoscere e distinguere anche la geometria fredda e imperscrutabile di tanta NDW (la Svizzera è stato il paese dei grandissimi Grauzone che, ad ogni buon conto, gli SGATV hanno ascoltato e fatto tesoro)
Rodolfo Santandrea, un gigante della musica italiana al quale non interessa minimamente di esserlo ma che anzi preferisce che la sua musica venga vissuta e amata anche da altri, e d è proprio quello che succede in questa raccolta
Torna la colata lavica sonora dei Wojtek, uno dei migliori gruppi italiani di rumore e disperazione sonora. Il disco si intitola “Petricore” ed esce in vinile, digitale e cd per un’associazione a rumoreggiare di etichette, Flames Don’t Judge, Fresh Outbreak Records, The Fucking Clinica, Dio Drone, Shove records e Violence in the Veins, e Teschio Dischi per la versione in cassetta.
I Fever vengono proprio dal feudo scajoliano e, nei sette pezzi di questo Cupio Dissolvi, ben esprimono la rabbia, il tedio e l’insofferenza del vivere in provincia, una provincia troppo stretta che si ama e si odia in un sentimento spesso contrastante.
Tuscia Clan/Ostia Records “Hardcore NoSchool per cannibali che vogliono distruggere un mondo putrescente e non ricostruire nulla” La Croce è una nuova band romana, formata in realtà da personaggi noti della scena capitolina. Payback, Dirty Jobs, Tear me Down (al basso c’è il Caciotta, mi limito a scrivere “TMD” altrimenti la lista di bands occuperebbe tutta la recensione). Nove brani di hardcore punk potente e veloce, con il giusto equilibrio tra parti tirate, breakdown, cambi di tempo, quella cosa che apprezzo tantissimo ovvero la ricerca del riffone che ti rimane in testa, e qualche virtuosismo di basso che strizza l’occhio agli RKL. Tranquilli, ci sono anche i singalong da mischia sotto al palco, anzi ce ne sono parecchi, ma su una base strumentale ricercata e arrangiata in maniera potente e stilosa. Il tutto mentre la voce di Luchino sputa pessimismo e nichilismo, tributando anche il compianto Richard Benson con il pezzo “La Vita è il Nemico”. La produzione (Hombre Lobo Studio) è davvero da 10, il disco suona benissimo sia come mixaggio che come scelta dei suoni. Erano un po’ di anni che non usciva un disco di hardcore italiano, in italiano, di tale intensità e qualità. In un presente di punx depressi e rassegnati, sono tornati finalmente i punx incazzati, e incazzati sul serio. “La sola carne che ci piace è quella del padrone” , ed è già anthem. LA CROCE – La prima croce +LaPrimaCroce+ by +LaCroce+