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Recensioni Rock

Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.

LAS VULPESS – ME GUSTA SER UNA ZORRA 7″

C’era una volta la “Movida“, un movimento culturale e artistico che si sviluppò in Spagna (soprattutto nella sua capitale, Madrid, al punto da essere identificata, nell’immaginario collettivo, come la “Movida Madrileña”) nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, dopo la morte del “caudillo” dittatore fascista Francisco Franco (nel 1975) e il conseguente disfacimento di quaranta anni di regime franchista oscurantista e totalitario che aveva oppresso qualsiasi forma di libertà artistica e ogni opposizione alla dittatura fascista. In quel periodo storico di transizione e di ritorno verso la “democrazia”, alla fine dei Seventies (o meglio, de los Setenta) e per tutta la decade degli Ottanta, i giovani volevano recuperare il tempo perduto e, inebriati dal vento di liberazione, decisero di vivere sulla propria pelle tutto ciò che era stato proibito dal franchismo alle precedenti generazioni: la ritrovata libertà di espressione, di autodeterminazione e di azione, la tolleranza e l’accettazione del “diverso“, la voglia di sperimentare la cultura underground, le droghe, l’amore libero e liberato dagli schemi convenzionali e tradizionali, le nuove tendenze musicali, artistiche, etiche e di costume che arrivavano dall’Inghilterra e dal mondo anglofono (il punk e il post-punk britannico e la scena newyorchese) il tutto unito all’esuberanza e al ribellismo giovanile repressi per decenni, generò un’imponente ondata (definita “la nueva ola“, praticamente la declinazione spagnola della new wave) di creatività, controcultura, novità e innovazioni che abbracciarono le arti visive e grafiche (che avevano eletto Andy Warhol come nume ispiratore) la pittura, la fotografia, il disegno, il fumetto, la letteratura, il cinema (che vide sbocciare il talento dell’oggi globalmente famoso cineasta Pedro Almodóvar) il teatro, la radio, nuovi spazi creatisi in televisione (come il rivoluzionario programma musicale “La Edad de Oro“, che ospitava, sulla TV nazionale, i gruppi spagnoli e i protagonisti della nueva ola come i Parálisis Permanente del compianto Eduardo Benavente (morto a soli vent’anni in un incidente stradale) Siniestro Total, Kaka De Luxe, Polansky y el Ardor, Alaska y los Pegamoides, Loquillo y los Trogloditas, Derribos Arias, ma anche band e artisti stranieri come Lou Reed, Alan Vega, Echo and the Bunnymen, Killing Joke, Residents, Cabaret Voltaire, Johnny Thunders, Psychedelic Furs, i Gun Club e altri, che suonavano dal vivo e non in playback, e dove era permesso fumare in trasmissione e i musicisti venivano intervistati ed erano liberi di esprimersi su tutto, a ruota libera, senza censure, in un vortice di anarchia creativa fuori dagli schemi: causarono un putiferio l’ospitata dei Lords of the New Church, dove Stiv Bators si abbassò pantaloni e mutande in diretta, o Almodóvar che svelava candidamente quale fosse la sua droga preferita; ma il casus belli definitivo fu individuato nella puntata del 16 ottobre del 1984 (censurata)  nella quale furono proiettate fotografie di Robert Mapplethorpe raffiguranti umanità nuda e, soprattutto, vennero mostrate immagini di una persona crocifissa con la testa di un maiale, la finta celebrazione di una messa cattolica e una coppia nuda in una tomba. A causa di questi misfatti, considerati inaccettabili e “incostituzionali” dall’ala più reazionaria e “timorata di Dio” oltranzista della società del tempo, furono fatte interrogazioni parlamentari e fu chiesta (e ottenuta) la chiusura del programma nel 1985 (con la conduttrice, nonché agitatrice culturale della Movida, Paloma Chamorro, addirittura finita sotto inchiesta per “blasfemia” e poi assolta) la moda e, ovviamente, la musica, con il proliferare di fanzines ed etichette discografiche indipendenti. Fermento culturale, Do-It-Yourself in antitesi alle multinazionali per creare un mondo nuovo e network aperti al mondo ma che raccontassero anche quanto succedeva nelle strade e nei club, la resurrezione di un’altra Spagna, quella erede del genio di patrimoni dell’umanità come Salvador Dalí, Picasso o Miró, ma che voleva essere inclusiva e non più divisiva. Non contava essere per forza dei virtuosi o gareggiare per essere i primi della classe, ma bastava la fantasia al potere (come in una Bologna del 1977 amplificata) tigna, inventiva, spirito dadaista, nuove suggestioni surrealiste, immaginazione e la collaborazione tra varie discipline artistiche per esprimere visioni, idee e dare un senso alla propria esistenza dopo quattro decadi di grigiore e conformismo. Una esplosione di colori, suoni, disegni, concetti e immagini inizialmente partiti dal basso e poi inglobati ufficialmente in un movimento propriamente riconosciuto. Vita notturna movimentata e popolata da una rinnovata volontà di uscire, riappropriarsi delle strade e della vita socio-economica spagnola, la gioia di riaprirsi al mondo e alle modernità della cultura alternativa, trasgredire, lasciarsi andare agli eccessi dell’edonismo, dell’esibizionismo e del divertimento (ispirandosi a quanto era accaduto a Londra e in tutta la UK messa a soqquadro dai Sex Pistols e dalla rivoluzione punk rock dal 1976 in avanti, a livello musicale, etico, estetico, concettuale, di costume, di moda e di immagine) e nuovi punti di ritrovo, pub e locali come il Rock-Ola, l’ex cinema Carolina, la sala El Sol, El Penta e La Via Láctea, assurti a Mecca delle nuove scene e avanguardie. Di quella stagione di rinascimento culturale e generale, ovviamente, a noi interessa approfondire il lato musicale, più precisamente il movimento punk deflagrato con la caduta del totalitarismo fascista. E, a questo proposito, ci ha pensato la benemerita Munster Records, ormai veterana etichetta indipendente fondata dai fratelli baschi Pastor, a rimestare in quel passato e rigirare il coltello nella piaga. Sì, perché recentemente la label ha ristampato un singolo che quarant’anni fa, quando uscì nel 1983, scatenò un pandemonio per via dei suoi “contenuti espliciti”. Stiamo parlando dell’iconico 7″ “Me gusta ser una zorra” delle Vulpess (col moniker scritto con la doppia S riprodotta a mo’ di emulazione neonazi, messa lì dall’etichetta Dos Rombos Discos per provocare la società borghese benpensante e perbenista dell’epoca, che in fondo non è molto diversa da quella di oggi) all-female band basca, uno dei gruppi protagonisti della prima scena punk spagnola insieme a La Polla Records, Eskorbuto, Kortatu e La Banda Trapera del Río tra gli altri. Queste quattro cattive ragazze si divertivano a shockare l’opinione pubblica (ancora intrisa della crosta di bigottismo religioso clericofascista e ipocrita moralismo lasciati in eredità dall’ex regime franchista) già dal nome: “volpe” nello slang significa “prostituta”, e quindi irricevibili per la società “bene” anche solo a leggere di loro, delle loro “gesta” sovversive e osservare il loro modo di porsi: in pieno spirito oltraggioso punk, quattro adolescenti o poco più, tutte comprese, all’epoca, tra i 17 e 21 anni (Loles Vázquez alias «Anarkoma Zorrita» alla chitarra, Mamen alias «Evelyn Zorrita» alla voce, Begoña «Ruth Zorrita» al basso e Lupe Vázquez alias «Pigüy Zorrita» alla batteria) accomunate dal “cognome” Zorrita (alla stregua dei finti fratelli portoricani Ramones) formatesi nel 1982, nella loro breve esistenza hanno comunque lasciato il segno nel rock ‘n’ roll iberico, sull’esempio dei Sex Pistols, facendo del punk rock uno stile di vita e un ideale libertario per il quale sporcarsi concretamente le mani, suscitando indignazione e disgusto in un largo segmento di pubblico adulto con le loro provocazioni linguistiche, concettuali e di costume. Durante la loro turbolenta avventura, le nostre malas chicas arrivarono a registrare un solo singolo ufficiale, uscito sulla label Dos Rombos Discos, che fu appunto “Me gusta ser una zorra“, loro personalissima rielaborazione in chiave libertina del brano degli Stooges “I wanna be your dog“, che col testo declinato in spagnolo (col titolo che diventava: “Mi piace essere una troia“) e un linguaggio sboccato aveva sortito un effetto ancora più esplosivo e urticante (rispetto al classico di Iggy e soci) nel mainstream dell’epoca del loro Paese, appena uscito da quattro decenni di puritanesimo dogmatico, e che in una mattina di aprile del 1983 fece scoppiare uno scandalo di dimensione nazionale. A nulla, in effetti, valse l’avviso “spoiler” sulla copertina del single, che recitava: “Si avverte che le canzoni di questo disco possono ferire la sensibilità di chi ascolta“. Era infatti il 16 aprile 1983, un sabato mattina, quando ebbe luogo la tempesta perfetta. Sulla rete ammiraglia della televisione spagnola di stato, TVE (che è un po’ l’equivalente della “nostra” Raiuno) andava in onda un programma musicale intitolato “Caja de Ritmos”, condotto dal giornalista e critico musicale Carlos Tena (purtroppo venuto a mancare pochi mesi fa) già in precedenza autore del brillante format alternativo “Popgrama” che aveva sdoganato nelle case degli spagnoli la controcultura nell’arte attraverso il cinema, i fumetti e la musica (con l’arrivo del nuovo rock ‘n’ roll e della prima scena punk). Carlos, con una invidiabile dose di coraggio, in quell’episodio aprilino di “Caja de Ritmos” (era appena il secondo appuntamento) decise di rischiare e di promuovere le Vulpes e di far trasmettere il videoclip di “Me gusta ser una zorra“, quasi a ora di pranzo, quindi in piena “fascia protetta”. Come era facile prevedere, l’immaginario e le liriche scurrili evocati dal testo fecero esplodere un tumulto mediatico, venendo prese di mira dalla parte di opinione pubblica più conservatrice e moralista del Paese, avvilita, che si ritenne offesa da quello che, a loro dire, era stato uno spettacolo indecoroso offerto dalla televisione nazionale che, invece, avrebbe dovuto evitare la messa in onda di simili “oscenità”, e subito invocava la chiusura della trasmissione

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Gee Tee - Atomic

Gee Tee – Atomic

Emozionante 7” degli Gee Tee: speedway e suoni autentici si fondono in Atomic. Scopri la potenza di Kombat Kitchen e altre tracce imperdibili.

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LEIGHTON KOIZUMI & TITO AND THEE BRAINSUCKERS – POWER HITS!

Con colpevole ritardo (ma meglio tardi che mai) parliamo della raccolta, pubblicata sulla label bolognese Improved Sequence Records, “Power Hits!“, la cui uscita era stata annunciata per l’agosto 2021 e poi rinviata al 2022: meglio tardi che mai, no? La succulenta compilation, che presenta ben ventiquattro brani, raccoglie materiale registrato in studio da Leighton Koizumi, autentica leggenda vivente del “nostro” rock ‘n’ roll (frontman di Gravedigger V e, soprattutto, Morlocks) la cui “vita spericolata” andrebbe scritta e raccontata in un libro, a questo giro coadiuvato dal combo garage punk teramano Tito and thee Brainsuckers, che per un abbondante decennio è stato compagno di avventure e complice dell’incredibile storia di Koizumi, risollevandogli la vita (letteralmente) con una sentita amicizia fraterna e facendo da spalla per il suo ritorno in pista (che fruttò, insieme a concerti in giro per l’Italia e momenti memorabili per la fertile scena R’N’R di Teramo, anche l’album “When the night falls” nel 2004) dopo lo split coi Morlocks avvenuto a fine anni Ottanta (poi ritornati in pianta stabile nel 2015) che segnò un periodo travagliato e oscuro per il cantante, alle prese con una severa dipendenza da droghe pesanti e problemi con la giustizia che lo fecero allontanare dalle scene musicali, scomparso dai radar (è stato egli stesso a dire di essere finito in Messico) al punto che per diversi anni fu anche creduto morto ma, dopo essere “back in business” con l’ensemble californiano, Leighton è risorto dall’oltretomba e sta vivendo una sorta di seconda giovinezza, col passare degli anni che non ha affatto scalfito ma, anzi, ha migliorato le sue innate doti di carismatico animale da palcoscenico, conquistando sul campo (e sui palchi) la meritata “palma” di alter ego più credibile e meno patinato di Iggy Pop assegnatagli da noi sfigati. Anzi, “born losers“. Le canzoni di “Power Hits!“, che di “When the night falls” ne rappresenta una versione espansa, tra inediti e cover, sono state incise in diverse sessioni, in un periodo compreso tra il 2003 e il 2013, e possiedono il grande pregio di non annoiare mai l’ascoltatore, nonostante i settantacinque minuti di durata, è un disco di energico, variegato e sfaccettato rock ‘n’ roll nella sua accezione più verace e primordiale, uno di quegli album che puzzano di giornate passate a provare in sudicie cantine adibite a studi di registrazione e nottate trascorse a suonare e sbronzarsi nei piccoli locali abruzzesi (e non) insieme a Tito Macozzi e ai suoi scagnozzi. Uno di quei long playing che rapiscono i timpani e li tengono incollati all’ascolto dall’inizio alla fine delle danze, con conseguente giovamento emozionale. Detto delle (ottime) prove garage rock autografe “Hold on“, “I know you cried“, “I was alone“, “Outside“, la strumentale “Supernova” e  “Teenage Thugs“, in queste quattro facciate viniliche c’è anche spazio, tra le rielaborazioni, per vere e proprie chicche come le riletture acustiche e atmosferiche di “Signed D.C.” di Arthur Lee e i Love e “If you could read my mind” di Gordon Lightfoot (recentemente scomparso) con un Koizumi in stato di grazia che dimostra di avere anche uno spessore artistico più profondo di quanto voglia far lasciare trasparire dalla sua elettrica aura di ghepardo di strada col cuore rigonfio di napalm. E così è possibile ascoltare il frontman cimentarsi (bene, o comunque con una pronuncia migliore di tanti finti sovranisti “patriottici” autoctoni che inneggiano all’italianità e poi non sanno declinare neanche il verbo essere) anche nella nostra lingua, rifacendo “No No No” dei Sorrows, o ripescando una “Get out of my life, woman” dell’artista soul/funk/R’N’B Lee Dorsey, e poi nel giusto tributo pagato ai classici del garage rock/punk “I need you” dei Kinks, “No fun” degli Stooges, “Teenage head” dei Flamin’ Groovies, “99th floor” dei Moving Sidewalks, “Just a little bit” dei Purple Hearts (australiani, da non confondere con la mod revival band inglese) o “Milkcow Blues“, l’omaggio al Sixties garage rock olandese (“Cry in the night” e “Nightmares” dei Q65, “Touch” e “You mistreat me” degli Outsiders) ma basterebbero anche solo le riproposizioni, assolutamente trascinanti (con Tito e sodali particolarmente on fire) del cavallo di battaglia “Born Loser” di Murphy & The Mob, “Good times” dei Nobody’s Children e “No friend of mine” degli Sparkles per farci spiccare un salto dalla sedia e ballare e saltare e cantare a squarciagola, lasciandoci trasportare dal flusso. Un disco da avere a ogni costo, e un gran colpo per l’etichetta emiliana, che ultimamente ha anche ristampato altri titoli dei Morlocks (in collaborazione con la Go Down Records) ma mettere le mani su “Power Hits!” equivale a possedere una reliquia da venerare (insieme a Leighton Koizumi, nostro santo protettore laico) scandita da profane e lucenti nuggets che risplendono dalle fogne delle periferie ai margini del music biz, testimoni del percorso di una delle parabole più sorprendenti di quella scuola di vita che si chiama rock ‘n’ roll. Power Hits (IMP050) by Leighton Koizumi & Tito And The Brainsuckers

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Ms.Rosita – Esperidi

La musica è molto varia e coinvolgente, le canzoni sono composte molto bene e vanno ben oltre i cliché italiani, grazie anche a testi molto buoni. Ms.Rosita – Esperidi.

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Dome Le Muerte E.X.P. - El Santo

Dome Le Muerte E.X.P. – El Santo

Dome Le Muerte E.X.P.. Si comincia l’ascolto, come è ovvio che sia, dal lato A e sin dall’intro si parte benissimo, segue poi Lee Van Cleef, ed è subito sabbia, sudore e sangue.

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LORDS OF ALTAMONT – TO HELL WITH TOMORROW THE LORDS ARE NOW!

Altamont è un (non) luogo che, nell’immaginario popolare collettivo (e, in particolare, per gli appassionati di rock ‘n’ roll) rappresenta la fine del sogno hippie dei figli dei fiori dei Sixties, quello di un mondo fondato sugli ideali fondamentali della pace e dell’amore universali, dell’assenza di guerre e di altre nobili istanze che, allora come oggi, sono di fatto rimaste utopie (rese tali dall’avidità e dall’ingordigia di denaro e potere da parte dell’essere umano) difficili da raggiungere in un tempo ragionevolmente breve, perché più passano gli anni e più il mondo sta regredendo in una spirale autodistruttiva di odio irrazionale, antropocene, diseguaglianze sociali e cieca violenza, invece di progredire. In quelle cittadine californiane, nel dicembre 1969 (ma anche nell’agosto dello stesso anno, con l’eccidio losangelino di Cielo Drive messo in atto dalla setta guidata dal “guru” deviato Charles Manson, genio del male col cervello bruciato dall’LSD) si sono consumati, a livello temporale e non, gli anni Sessanta, dopo il megafestival gratuito in un autodromo, (male) patrocinato dai Rolling Stones che, insieme agli altri organizzatori, affidarono infelicemente la gestione del “servizio d’ordine” agli Hell’s Angels strafatti e ubriachi molesti, con tutti i disagi che ne seguirono, causando incidenti e accoltellando a morte un ragazzo afroamericano. Se da un lato, però, il nome della rassegna statunitense resterà sempre legato a questo fattaccio (che in totale registrò quattro decessi) visto come uno degli eventi spartiacque che hanno segnato il tramonto del movimento degli hippies come fenomeno di massa, dall’altro lato l’aura negativa e il fascino malvagio legato a quel macabro festival ha ispirato diverso rock ‘n’ roll sporco e abrasivo, e un esempio di questa influenza si può ritrovare, senza dubbio, nel garage/psych rock proposto dai Lords of Altamont che, manco a dirlo, si sono formati a Los Angeles e già dal moniker si ricollegano a uno degli avvenimenti più discussi che ha contraddistinto la storia della “musica del diavolo” e che rappresentò il rovescio della medaglia di Woodstock, il flower power represso nel sangue delle proprie illusioni. Quest’anno i quattro ragazzacci (Jake Cavaliere alla voce e organo, Robert Zimmermann al basso e voce, Barry Van Esbroek alla batteria/voce e l’italiano Daniele Sindaco alla chitarra e voce) hanno pubblicato, attraverso la label romana Heavy Psych Sounds, un disco dal vivo, intitolato “To Hell With Tomorrow The Lords Are Now!“, che in realtà sarebbe un album live in studio, suonato dal vivo non in un concerto vero e proprio, ma in uno studio di registrazione olandese (precisamente i Moskou studios di Utrecht) le cui incisioni dei pezzi sono avvenute nell’aprile 2022, dopo due anni di pausa pandemica forzata. A due anni di distanza dall’ultima fatica discografica, il long playing “Turn on, Tune in, electrify!“, i seguaci del caos di Altamont tornano con un full length suonato in maniera feroce e impeccabile, con la solita ottima qualità (merito anche di Guyom Pavesi in cabina di regia) e maestria con cui nostri sanno maneggiare il garage rock di matrice Stooges, MC5, Cramps, Fuzztones, Sonics, Dwarves (e altra compagnia brutta, sporca e cattiva) producendosi in una sorta di greatest (s)hits del loro materiale (escluso l’ultimo Lp, ancora troppo fresco d’uscita l’anno scorso) reso in maniera così potente, precisa e compatta che non sembra neanche di trovarsi di fronte a un live record, tanta è la perizia con cui i quattro sciorinano le tredici canzoni (di cui una cover di “Slow death” dei Flamin’ Groovies come bonus track e due brevi intermezzi, uno in apertura e l’altro a metà dell’opera, che si dividono il titolo della stessa) presenti in scaletta senza le sbavature tipiche di un concerto con tutti i crismi (e ultimamente l’ensemble è anche passato dall’Italia, con una data a Torino e una a Marina di Ravenna). Con un lettering in copertina che richiama il logo degli Stooges (e durante il disco rievocati soprattutto nel brano “Going downtown“, quasi un omaggio a “Raw Power”) “To Hell…” corre dritto e spedito come un treno, travolgendo qualsiasi cosa gli si piazzi davanti, per poco più di mezz’ora che, ai timpani già allenati a determinate sonorità raw ‘n’ wild, procurerà sicuro godimento. “Sorry, no stickers, no fake tattoos, and no autographs, just raw live rock ’n’ roll” è la frase scelta dal gruppo per descrivere il contenuto di “To Hell…”, ma può benissimo essere applicata all’essenza di tutta la natura dei Lords of Altamont da ventitré anni a questa parte, una band che non ha bisogno di (iper)produzioni milionarie per esprimersi in dischi e concerti infuocati, prova ne sia questo primo live album, coi volumi sparati al massimo, registrato in un solo giorno e senza l’ausilio di trucchi da studio né altre correzioni da post-produzione. They walk it like they talk it, e restano una delle migliori band in circolazione nel panorama del rock ‘n’ roll tutto, ancora capaci di incendiare i palchi di tutto il mondo con la loro miscela dinamitarda di garage rock, proto-punk, blues and glam. Come dite? E’ tutta roba vecchia? Ecchissenefotte, la modernità ha rotto il cazzo, e ci servono anche dischi come questo per rinverdire una formula che rielabora il buono (e cioè il marcio) della musica degli ultimi sessant’anni per poi shakerarlo e servirlo in un cocktail esplosivo da bere contro il logorio della quotidianità e lo squallore dell’attualità. Preservare i frutti migliori del passato come antidoto alla morte (fisica, cerebrale e spirituale) propinata dal nulla odierno. TRACKLIST 1. To Hell With Tomorrow 00:17 2. I Said Hey 3. Going Downtown 4. Going Nowhere Fast 5. Ivory 6. Like A Bird 7. The Lords Are Now! 00:23 8. The 7th Day 9. Velvet 10. Action 11. 4.95 12. F.F.T.S. 13. Slow Death (BONUS TRACK, Flamin’ Groovies cover)

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Hypnodrone Ensemble -The signal

“The signal” è una dimostrazione di come la musica sia anche altro rispetto alle solite forme, e che in giro ci sono esploratori sonici che come questo gruppo fanno cose ottime, per chi ha voglia di andare oltre e di non fermarsi alle cose già confezionate, e dischi come questo sono un introduzione a qualcosa di diverso e bellissimo.

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The Dick Dastardly’s – Omonimo Ep

I Dick Dastardly’s sono di già, se li ascolti per conto tuo via stereo, un gruppone; ma se li vedi dal vivo diventano un gruppo fantasmagorico, assoluto. Suonano garage punk, ma lo fanno con piglio hardcore come ci e gli hanno insegnato New Bomb Turks, Teengenerate, Los Ass-Draggers e varia (cattiva) compagnia vociante.

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Divide and Dissolve - Systemic

Divide and Dissolve – Systemic

Quarto album per il duo australiano tutto femminile delle Divide and Dissolve. Il secondo con la label britannica Invada Records di Geoff Barrow dei Portishead. Etichetta che ha permesso alla band, dopo una partenza all’insegna del DIY e dell’autoproduzione (scelta che sposava perfettamente l’attivismo politico delle due), di fare quel salto di qualità a livello di distribuzione, permettendo al loro messaggio di rivolta di arrivare laddove, da sole, non sarebbero mai potute giungere. “Systemic” riprende il discorso del precedente “Gas Lit” e se possibile lo amplia, sia a livello qualitativo che di contenuti sociopolitici. Opprimente, claustrofobico e soffocante, e quindi perfettamente in linea con il quotidiano che siamo costretti a vivere nostro malgrado, l’album riesce nel non facile intento di dare voce alla discriminazione che le popolazioni aborigene (e più in generale tutti coloro che vedono minata la loro integrità e la loro libertà) sono costrette a subire da troppo tempo. Takiaya Reed (statunitense di origini cherokee) e Sylvie Nehill (australiana metà maori), rispettivamente chitarra/sax e batteria, rappresentano, oggi, il manifesto sonoro di una denuncia che rivolge il suo grido di rabbia al suprematismo bianco, al mondo delle multinazionali e a tutte quelle realtà che annientano le diversità cercando di omologare tutto il pianeta rendendolo un oggetto “vendibile”. Manifesto che si sostanzia in un album nerissimo, che suona (e risuona) in modo apocalittico, e che riesce a fare veramente molto male alle nostre orecchie. Al netto della sua (giusta) denuncia sociale, “Systemic” è un album che devasta e (ci) sommerge sotto una colata di pece da cui non siamo in grado di liberarci, spazzando via tutto quello che incontra sul suo passaggio e andando realmente a “dividere e dissolvere” quei sistemi che reggono l’economia di un mondo costruito sull’odio e sulla violenza, e condannato a morte dai suoi stessi abitanti. Costruito intorno ad un minimalismo quanto mai diretto, che colpisce senza badare a preziosismi sonori e senza sovraincisioni, l’album rappresenta lo strumento che il duo ha scelto per espandere il proprio percorso di crescita con intelligenza, senza perdere l’approccio originario che lo contraddistingue. Un disco che ha il grande pregio di riportare la musica laddove dovrebbe stare, ossia al centro di un progetto di rivolta collettivo. Divide and Dissolve – Systemic Systemic by Divide and Dissolve Tracklist: 1. Want 02:00 2.Blood Quantum 04:52 3.Derail 03:27 4.Simulacra 02:29 5.Reproach 03:01 6.Indignation 06:45 7.Kingdom Of Fear (Featuring Minori Sanchiz-Fung) 03:19 8.Omnipotent 03:10 9.Desire 04:04

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