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Recensioni Rock

Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.

Bbqt - Dangerous Dame   

Bbqt – Dangerous Dame   

La band si autodefiniscedi sleaze, ma io penso proprio che siano punk, con le dovute e cercate incursioni nel glam – si veda a tal proposito la traccia iniziale The Boulevard.

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Chaputa! Records

Chaputa! Records

Oggi parliamo di una delle etichette più interessanti del panorama europeo. Chaputa! Records è stata fondata nel 2013 da Frankie Chavez, un musicista portoghese con una lunga carriera alle spalle. 

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The Poppermost - Les Poppermost

The Poppermost – Les Poppermost

questi Poppermost dei quali vado a parlarvi sottolinenando come siano stati capaci, nel 2023, di realizzare con i quattro brani di questo ep, il singolo dell’estate 1966, senza essere anacronistici, non per me, e anzi beccandosi ben ottantasette punti stima.

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THE DARTS – SNAKE OIL

Sulla copertina c’è una avvertenza che recita: “Potrebbe contenere tracce di chitarra fuzz, lacrime maschili e particelle di Germanium“. Si presenta così il terzo lavoro sulla lunga distanza delle DARTS, quattro streghette monelle statunitensi (Nicole Laurenne all’organo e voce e Christina Nunez al basso e voce, entrambe reduci dall’esperienza coi Love Me Nots, coadiuvate da Meliza Jackson alla chitarra/voce e la new entry Mary Rose Gonzales che sostituisce Rikki Styxx alla batteria) che da quasi un decennio intrattengono i nostri timpani con una formula garage rock/punk a base di organo Farfisa e attitudine punk, che deve tanto alla lezione dei padrini Sonics (e delle sorelle maggiori Pandoras) quanto a quella più glammosa e festaiola delle Donnas. “Snake oil” è il secondo album delle belle donzelle a essere pubblicato dalla Alternative Tentacle Records (la label fondata da Jello Biafra, nell’Lp accreditato anche come “production manager” e “production whisperer” che ha consigliato al gruppo di riscrivere i brani, dopo aver scremato una lista iniziale di trenta pezzi, con l’idea originaria della band di pubblicare un album doppio, uno con sole canzoni veloci e un altro con sole canzoni rallentate) dopo il precedente “I like you but not like that” del 2019, e che sicuramente le ragazze promuoveranno nella loro imminente calata italica al Festival Beat di Salsomaggiore Terme (giunto alla trentesima edizione) dove si esibiranno, alla fine di questo mese (oltre alle altre date del tour italiano) nella seconda serata della kermesse in terra emiliana, e per loro si tratta di un ritorno, avendoci già suonato quattro anni fa. La all-girl band, originaria di Phoenix, non si risparmia e riversa, nella nuova fatica discografica, tredici nuovi brani (composti durante il lockdown pandemico, e quindi figli degli stati d’animo controversi e contrastanti di quel periodo di restrizioni e frustrazioni per la mancanza di musica dal vivo) ottimamente mixati e prodotti da Bob Hoag, aprendo le danze con la title track che aggredisce subito l’ascoltatore con un garage rock ruspante e dritto al punto, per poi proseguire con l’intrigante saliscendi emozionale di “Spy girl“, “Love tsunami” e “Under the gun“, tutte caratterizzate da una velocità strumentale sapientemente dosata e da energici ritornelli azzeccati. Il ritmo rallenta in “Pink slip“, che punta meno sull’impatto fisico e più sulla sostanza, e anche la successiva, suadente “Love song” (uscita anche come singolo) si muove sulle stesse coordinate di un garage rock fuzzato compatto e ammaliante, nel quale le nostre quattro vampire maneggiano con cura il loro fascino, che sa come sedurre (soprattutto la platea di ragazzacci) e poi spezzare il cuore. Dopo le atmosfere cinematiche sinistre di “You just love yourself“, le nostre muse noir ritornano sui sentieri roventi di un garage rock esuberante (contraddistinto dall’onnipresente organo della frontwoman Nicole) in “Underground“, alla quale segue l’altrettanto intensa ed esaltante “Intersex” (inclusa anche nel secondo volume della compilation “Bomb your brain“) mentre “Donne-Moi Tout” aggiunge un tocco esotico francese al lotto. La cadenzata “Black eyes” ci introduce al segmento finale del full length, dove troviamo ad accoglierci la grintosa “Shit Show” e la conclusiva, lunga “Bring it back“, uno stop-and-go garage psych dai toni oscuri che pone fine all’incantesimo. “Snake oil” è un long playing ben arrangiato, dal sound corposo e senza punti deboli, che sa anche cambiare pelle, e di sicuro si attesta tra le migliori pubblicazioni del 2023. Un buon antidoto contro tutti gli incantatori di serpenti che avvelenano l’etere con fake news e altre cialtronate, una riflessione a tutto tondo sull’amore gender free e, in definitiva, un gran disco da far suonare a una festa di addio al nubilato con special guests Elvira e Wednesday Addams (quella vera, non la versione moderna per bimbiminchia) a preparare e servire agli ospiti cocktails a base di veleno di serpente.  

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Anno Senza Estate – Omonimo

Belin figeu sarà un caso che mi trovi a parlare di voi ogni volta che si avvicina o sia in pieno svolgimento l’estate? Con ciò vi riconosco quanto il vostro nome sia uno fra i più evocativi, e perché no originali, che una band si sia mai data.

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The Baron Four - She

The Baron Four – She

The Baron Four tornano a riempire di belle vibrazioni i nostri padiglioni auricolari con questo nuovo 7′ edito dalla sempre più benemerita Rogue Records.

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CHEATER SLICKS – ILL- FATED CUSSES

A undici anni di distanza dall’ultimo vero studio album, “Reality is a grape” del 2012, tornano anche i Cheater Slicks, amata garage LO-FI/blues/psych punk band (originaria di Boston, poi trasferitasi in Ohio) attiva dal 1987 e protagonista di Lp che hanno segnato e cavalcato gli anni ruggenti del garage rock revival (e di altre sonorità sconce e zozze) come l’esordio “On Your Knees” , “Destination Lonely“, “Whiskey“, “Don’t like you” (realizzato insieme all’amico e fan Jon Spencer, che fece anche da producer) “Forgive Thee” e “Refried Dreams“, prima di conoscere alti e bassi e lunghe pause. Musica atonale, slabbrata, sgangherata, sporca, per misantropi, che parla di roba pesa (tentativi di suicidio, nichilismo, paranoia, depravazioni sessuali, brutti trip in acido, la consapevolezza di essere losers e reietti della società perbenista, rabbia anarcoide) fatta da disadattati per disadattati, “100% negative energy rock ‘n’ roll“. Fuori posto in qualsiasi scena: considerati troppo fracassoni e astratti per i puristi fan del garage rock, “troppo rock ‘n’ roll” per la platea amante dell’indie rock, sostanzialmente troppo oltraggiosi per essere ascoltati ogni giorno dall’ascoltatore medio di ruoooock sulle radio generaliste, insomma. Finalmente i nostri (Dana Hatch alla batteria/voce/tastiere e i fratelli Shannon alle chitarre, voce e synth) coadiuvati da James Arthur e Will Foster, tornano incidere un nuovo disco (a ventiquattro anni dall’ultima collaborazione, se si esclude il long playing celebrativo con Bill Gage nel 2021) sulla benemerita In The Red Recordings, e in questo 2023 danno alla luce “Ill-Fated Cusses“, undicesimo long playing ufficiale, e constatiamo con piacere che il terzetto, con i dieci nuovi pezzi proposti, non ha perso nulla del suo proverbiale lerciume sonico e non ha ceduto ai morbidi compromessi di una tranquilla vecchiaia, e ce lo fa subito capire con l’opener “The Nude Intruder“, con un cantato sgraziato e stonato che parte lento per poi deflagrare in due minuti e mezzo di rock ‘n’ roll sudicio, ai quali seguono i cinque minuti disperati di “Fear“, brano che non avrebbe sfigurato nel repertorio apocalittico dei Flipper, mentre “The #4” è uno sferragliante R’N’R perfetto per il pogo. C’è un omaggio alla leggenda rockabilly di Memphis, Charlie Feathers, con la cover di “Cold dark night“, cantata però nello stile di Mark Lanegan, poi si sprofonda nel cupo noise recitato di “Lichen“, che chiude la prima facciata del full length, che riparte con l’azzeccata melodia di “Reaching through“, la canzone più pop oriented del lotto, che rimanda alla elettrica spensieratezza dei primi Teenage Fanclub. La lunga “Garden of Memories” è una ballad che rimanda ad alcune cose (soprattutto nel lamento latrato alla Mark Arm) degli ultimi Mudhoney (band già coverizzata dai tre, che rifecero la loro “Ghost“) e nelle due sarabande rumoristiche di “Flummoxed by the Snafu” e “Coming back to me” si può immaginare di sentire il puzzo delle casse delle lattine di birra scolate, intravedere lo sporco sotto le unghie delle mani che maltrattano gli strumenti e annusare il fumo di sigaretta (o altro) che ha pervaso la tappezzeria della sala prove dove saranno state messe a punto. La conclusiva “Far Away Distantly” è un’altra ballad malinconica sui generis, un country-punk che suona un po’ come se i Meat Puppets in concerto invitassero sul palco Mark Arm alla voce per eseguire una outtake inedita di album come “II“. Siamo contenti di registrare che, dopo tre decadi e mezzo, e nonostante un mondo in cui tutto cambia in fretta (e in peggio), i Cheater Slicks restano fedeli alla linea e si cibano ancora del caos per vomitare album grezzi che non fanno prigionieri.

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AA.VV. – Femirama

Ristampa in vinile da 180 grammi da parte della Munster Records di una raccolta di brani di soliste o gruppi musicali femminili della scena alternativa elettronica e oltre degli anni ottanta.

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LES LULLIES

LES LULLIES – MAUVAISE FOI

A cinque anni dal fragoroso album di debutto omonimo (un ruspante affresco di dieci episodi di veloce garage punk senza fronzoli) i francesi Lullies tornano sulle scene con un nuovo disco, “Mauvaise Foi” (Bad Faith) uscito, a fine maggio, sempre su Slovenly Rercordings. Il secondo Lp del quartetto transalpino segna una parziale svolta, sia linguistica, col quasi totale abbandono della lingua inglese nei testi (a eccezione di un solo brano) in favore di liriche scritte e cantate nella loro madrelingua d’oltralpe, sia musicale, con un approccio alla materia garagistica più smussato e levigato verso lidi più affini al power pop, pur conservando un sound improntato su un esuberante high energy rock ‘n’ roll. Il full length parte forte con la title track posta subito in apertura, dove i nostri (“T.Boy” al basso, Manuel “Manah” Monnier alla batteria, François Bérard alla chitarra e voce e il frontman/chitarrista Roméo Lachasseigne, ex Grys-Grys) creano un ponte con la carica degli esordi, ma già dal secondo pezzo del lotto, “Pas De Regrets“, emerge una maggiore vena melodica che, comunque, non inficia molto sulla bontà del risultato finale (un pub rock à la Eddie and the Hot Rods anfetaminizzato) e anche in “Ce Que Je Veux” si respirano piacevoli atmosfere power pop e glam, e nella successiva “Soirée Standard” riecheggia un rhythm and blues velocizzato con fragranze di Dr. Feelgood. “Ville Musée” prosegue ancora su coordinate pop ma, arrivati a metà dell’album, la band di Montpellier improvvisamente si scuote e riparte in quarta con “Zéro Ambition“, frenetico punk rock che ha tutte le caratteristiche per assurgere a nuovo “classico” da suonare a tutta birra ai concerti per far pogare la platea, seguita dall’altro singolozzo “Dernier Soir“, meno deragliante del precedente, ma ugualmente in grado di far muovere il piedino e la testa a tempo. “When you walk in the room” è la cover di un brano Sixties (di Jackie DeShannon) l’unico pezzo cantato in inglese, rivitalizzato e riaggiornato in chiave power pop, mentre le conclusive “Station Service” e “Animal” tornano su sentieri punk/glam più congeniali al quartetto. Gli ultimi tre anni sono stati difficili un po’ per tutti, soprattutto per quanto riguarda i gruppi e la musica in generale, tra lockdown, restrizioni e protocolli da rispettare, e sicuramente la pandemia da covid-19 ha rallentato anche l’attività dei Lullies che, a livello di seguito di pubblico costruito grazie a live shows infuocati (come documentato anche dalla diretta esperienza del “collega di penna” Tommaso Salvini) era un treno in corsa. Un cambiamento di rotta verso canzoni più ragionate e meno istintive potrebbe essere anche indice di maturità, vuoi per il fatto che siano passati cinque anni del primo long playing, e nel frattempo il mondo è finito sottosopra, vuoi per il fatto che magari i singoli membri del combo abbiano approfittato del tanto tempo a disposizione (senza suonare) per lavorare di più sulle nuove canzoni e ottenere una migliore messa a fuoco delle loro intenzioni soniche, fatto sta che “Mauvaise Foi” risulta essere un disco più “maturo” rispetto al primo S/T, con maggiore attenzione alle melodie e alla costruzione armonica dei pezzi. When Ramones and Dickies meet Real Kids and Phil Spector.  

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The Rellies - Monkey / Helicopter 7"

The Rellies – Monkey / Helicopter 7″

The Rellies : adoro questo gruppo di fanciulli, suonano semplice e sghembo come piace a me e, a quanto pare, non sono l’unico giacché questo singolo viene licenziato da un’etichetta stravirtuosa come la Damaged Gods.

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ZAKO – I

Durante una trasferta in Toscana per motivi familiari, per chi vi scrive si è presentata una splendida opportunità: quella di vedere in azione, per la prima volta dal vivo, i leggendari Fuzztones in concerto a un’oretta d’auto di distanza da dove (temporaneamente) alloggiava. Colto l’attimo, decido di andare e arrivare, nel senese, al club in cui si è tenuta la memorabile serata insieme a due amici ma, prima di loro, mi viene detto che, prima dello show infuocato di Rudi Protrudi e soci, doveva esibirsi un quartetto proveniente dalla vicina Pisa, che è arrivata al traguardo dell’esordio sulla lunga distanza. Entrano in scena e aprono le danze, si chiama(no) ZAKO e non dicono una parola (a parte alcuni esilaranti intermezzi tra un brano e l’altro) ma non perché non abbiano nulla da dire: semplicemente, suonano un genere, il surf strumentale, che non ha bisogno di testi cantati per esprimersi. Con la loro presenza scenica e la qualità dei brani proposti, hanno subito destato un’ottima impressione in me, apprezzando anche la loro sincerità nell’ammettere che il loro batterista era impossibilitato a suonare ed era stato (brillantemente) sostituito da un altro ragazzo. Scesi dal palco, alla fine del loro live set, sono andato a fargli i complimenti per il materiale proposto e gliel’ho buttata lì: gli dico che mi sarebbe piaciuto recensire il loro primo album, desiderio che incontrava il favore dei nostri. Volendo scoprire qualcosa in più di loro, sull’internet mi imbatto in una loro presentazione: “Dei tempi passati ricordo un vento che soffiava attraverso i canyons, era un vento caldo chiamato Santana che portava con sé il profumo di terre tropicali. Aumentava di intensità prima del tramonto e sferzava il promontorio…” In quei tempi passati con il Santana si formarono i Reverberati ed oggi dalle loro ceneri, si forma ZAKO. ZAKO, non “gli ZAKO”, perché ZAKO non è una band ma è un unico, un organismo, un mostro a più teste che suona un Surf Rock con un’attitudine decisamente aggressiva e carica di pruriti adolescenziali“. In uscita il 2 giugno in formato digitale e, successivamente, anche in quello fisico (vinile e cd) su Otitis Media Records, “I” segna il debutto sulla lunga distanza del moniker ZAKO (composto da: “Grouge” e “Fufù” alle chitarre, “Falo” al basso e “Ciondolo” alla batteria) è stato registrato all’Orfan Records Studio (e mixato dal mitico Ale Sportelli) dipanandosi lungo tredici pezzi, suddivisi in due parti: la prima, “Planet 7“, che raccoglie le prime sette canzoni del full length, e una seconda, “Landing on 21“, che ospita le restanti sei. Surf strumentale dicevamo, un mondo musicale che spesso i quattro si divertono a sporcare con sonorità garage rock twistate, mischiando l’immaginario sci-fi con l’universo spaghetti western (a giudicare dai titoli di instrumentals come “Eternauta“, “Astrozombie“, “Monster” o “Matador“, “The wild bunch“, “Rio Bravo“, “El Baron De La Muerte“, “El Paso“, “Otro mundo“) con tanto di artwork a tema curato dall’amico “One Man Buzz“. Gli Astrozombies a questo punto sono una minaccia concreta e noi abbiamo fatto tutto il possibile per dare una scossa, ma non disperate: da oggi al nostro fianco ci saranno i quattro supereroi deviati ZAKO a difendere la Terra dal regno della guerra. ZAKO “1” by Otitis Media Records

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THEE HEADCOATS – IRREGULARIS (THE GREAT HIATUS)

Neanche il tempo di recensire l’album-raccolta “Failure not success” (pubblicato col moniker Wild Billy Childish & CTMF) che arriva subito un altro Lp, nel 2023, firmato dallo stacanovista inglese Billy Childish, poliedrico menestrello di culto, che per questa release ha riesumato gli Headcoats, che tornano così a pubblicare un nuovo disco dopo una pausa di ben ventitré anni (risale infatti al 2000 l’ultimo lavoro sulla lunga distanza del progetto, “I am the object of your desire“). Il nostro (anti)eroe del rock ‘n’ roll underground non ama troppo stare con le mani in mano, e quindi ecco che arriva “Irregularis (The Great Hiatus)“, uscito su Damaged Good Records, full length che nasce da un triste antefatto: la scomparsa, nel febbraio 2022, del musicista-fonte di ispirazione e collega frontman/chitarrista Don Craine (che aveva anche collaborato con Childish) evento che ha spinto Billy a riformare la line up degli anni Novanta degli Headcoats (col bassista Johnny Johnson e il batterista Bruce Brand) insieme all’ex compagno di band di Craine nei Downliners Sect, Keith Evans, per incidere un Ep commemorativo, esperienza importante a livello emozionale, e significativa al punto che il gruppo ha deciso di continuare e di portare avanti la reunion registrando (ai Ranscombe Studios a Rochester) un long plating propriamente detto. A livello musicale, “Irregularis” si muove sulle consuete coodinate care all’artista (e lo è, anche se a lui non piace essere definito tale) del Kent, che dosa e sviscera, con la sua proverbiale sapienza da esperto artigiano, una formula ribattezzato “rhythm and beat/ drums and racket“, a base di garage rock intriso di ruvido rhythm ‘n’ blues, strutture melodiche semplici e chitarre ululanti, armoniche sguaiate, col santino del Bo Diddley beat (coverizzato in “Tub’s help out” e poi rievocato in “Oh Leader We Do Dig Thee” insieme al compianto amico Craine) a benedire l’operazione. Dalle esuberanti opening track “The Baker Street Irregulars” (opener dell’album) “Thee Headcoatitude” e la cover di Larry Bright (ripresa anche dai Downliners) “One ugly child“, passando per i singoli riarrangiati come la kinksiana “Full time plagiarist” (Bill ha ammesso di “plagiare” il 50% di ciò che compone, ma sinceramente chissenefrega, quando il risultato è così buono?) e la recitata “Cops and robbers“, o “The leader of the sect” con controcanto femminile che richiama il passato-side project delle sue pupille Headcoatees, o ancora nella strumentale “7% Solution“, si avverte il ritrovato piacere di suonare insieme ai vecchi amici e traspare il divertimento e la soddisfazione di scoprire che, dopo tanto tempo, l’alchimia del gruppo funziona ancora. Ah, mentre pubblichiamo questa recensione, è già uscito un nuovo singolo degli Headcoats. Un altro tassello che va ad aggiungersi alla sterminata produzione del prolifico Steven John Hamper, un personaggio che, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo, e sul quale mi sono già speso, in passato, in elogi sperticati, tutti meritati. Quarant’anni di coerenza, integrità e fedeltà alle proprie origini DIY e radici indipendenti, orgogliosamente “sfigati”, senza mai svendersi. Magico, instancabile Billy. TRACKLIST 1. The Baker Street Irregulars 2. Full Time Plagiarist 3. The Ballad of Malcolm Laphroaig 4. Cops and Robbers 5. Mr H Headcoat 6. Thee Headcoatitude 7. Tub’s Help Out 8. The Leader of the Sect 9. Oh Leader We Do Dig Thee 10. One Ugly Child 11. 7% Solution 12. The Kids are All Square

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