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Recensioni Rock

Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.

Death Mantra For Lazarus – DMFL

Sussurri musicali dettati da una grande tecnica musicale accompagnata da una capacità compositiva superiore, per un lavoro tutto da ascoltare, scoprire ed amare, per chi ama immergersi nella dolce tempesta dei Death Mantra For Lazarus.

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AA VV – BOMB YOUR BRAIN Vol. 2

Secondo capitolo per la compilation “Bomb Your Brain“, ancora una volta concepita e pubblicata, sempre in cinquecento copie, dalla piccola e coraggiosa etichetta indipendente francese Pigmé Records. Stessa formula del primo volume, una succosa e urticante raccolta (a questo giro con la didascalia che recita: “TOTAL CRACK UP!!!“) che propone altre quattordici “killer hits from all over the world” pescate da altrettante band che rientrano nella scena garage rock/punk (e dintorni) e riconfermata l’iconografia curata da Sergi Dinamita, alle prese con un nuovo brillante e schizzato artwork. Squadra che perde non si cambia, e allora lo psicopatico party ricomincia da dove aveva finito, cioè dall’intenzione di friggere il cervello di chi ascolta, sguinzagliandogli contro una miscela internazionale di chitarre incendiarie, bassa fedeltà, organi slabbrati, urla belluine, tassi alcolemici da cirrosi epatica, fumi di sostanze psicotrope che puzzano di Cramps, Sonics, Sixties garage rock, “Back from the grave“, “Pebbles” e altre mer(d)avigliose perle date in pasto ai porci. Ad allietare il baccanale e rovinare il sonno del vicinato benpensante ci pensano i veterani di Seattle Sinister Six, le americane DARTS e gli svizzeri JACKETS (senza dubbio tra i moniker più noti del lotto) passando per i torinesi SLOKS (con un singolo nuovo di zecca) e i toscani Cogs a tenere alto l’orgoglio garage italiano, i francesi La Flingue, i belgi Chiff Chaffs, e ancora gli statunitensi GoGo-Killers, i belgi Strange Attractor, i britannici Mad Daddy, gli olandesi Mocks, i giapponesi Fadeaways, i portoricani Davila 666 e lo scatenato one-man band spagnolo Nestter Donuts. I solchi di questo Lp ci parlano di sudore, attitudine, passione, divertimento, voglia di sbattersi ancora a fare tour e suonare in giro per il mondo anche per dieci persone, con zero ambizioni di lucro o di diventare “famosi”. Se non vi trasformerete in teppistelli affamati di sesso, dopo aver ascoltato questa compila, allora questo universo trash rock ‘n’ roll non fa per voi e vi converrebbe tornare ad ascoltare i Greta Van Shit su virgin radio (e che si fotta una volta per tutte il ruooooock da arena/stadio dei concerti coi pacchetti classisti che, al “modico” prezzo di trecento euro, col biglietto pit “regalano” la possibilità di annusare, nel backstage, le scuregge fatte in camerino dalle vostre “rockstar” preferite). TRACKLIST BOMB SIDE A1 The Darts – Intersex A2 La Flingue – Selbsmodell A3 Chiff Chaffs – I ain’t dead A4 The GoGo-Killers – Strange baby A5 Strange Attractor – It’s a girl A6 SLOKS – Stab me A7 Mad Daddy – Road racer BRAIN SIDE B1 The Cogs – Confusion B2 The Mocks – See that girl B3 Sinister Six – Pretending to be high class B4 Nestter Donuts – Veneno barato B5 The Fadeaways – She’s a rattrap B6 Davila 666 – Chloe Sevigny B7 The Jackets – Queen of the pill

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South Sardinian Scum - Switch the Driver

South Sardinian Scum – Switch the Driver

I South Sardinian Scum non si inventano un cazzo, e neanche vogliono farlo, si limitano a suonare ciò che gli piace e lo fanno con la voluttà di chi sta compiendo una missione per conto di un dio minore e perdente, se non vi basta fatevi un bell’ aperitivo in un bar fighetto con della tech house di sottofondo sperando che il cocktail di merda che vi sarà servito vi vada per traverso.

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Dorthia Cottrell - Death Folk Country

Dorthia Cottrell – Death Folk Country

Dorthia Cottrell: “Death Folk Country” è un album che ti scalda il cuore, andando a toccare quelle corde da troppo tempo nascoste e soffocate da un frastuono esistenziale divenuto ormai insopportabile. Un album intimista, che guarda ai nostri sentimenti più reconditi, mirando a riconciliarci con la vita, obiettivo raggiungibile solo attraverso le sofferenze terrene.

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New Kind of Kicks -Aprile 2023

Queste mese presentiamo :Why Bother?, Zist, T.J. Cabot, Smart Shoppers, Saufknast, Indenadfin, Kool and the Gangbangers, Homicide Idols, Grosgoroth, Goblin Daycare, Die TV, Diät Pizza, DADGAD, Metal Guru, Country Jeans, Cuore Matto, Albano Eroina, Baby Tyler, Country Jeans, Air Vent Dweller, Gonk.

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SENZABENZA – PUNK POP DILEMMA

A quattro anni di distanza dal loro ultimo studio album, “Godzilla Kiss!“, tornano i veterani Senzabenza, punk rock band di Latina attiva dal 1989, una tra le principali protagoniste di quella stagione del rock ‘n’ roll italiano (anni Novanta-inizio anni Duemila) nota come scena “flower-punk”, movimento musicale che si nutriva dell’entusiasmo giovanile di uno stuolo di gruppi punk tricolori (oltre ai nostri, ricordiamo anche Paolino Paperino Band, i Punkreas, i Derozer, Bom Prò, Porno Riviste, Moravagine, Persiana Jones, Peter Punk, gli Impossibili, i Fichissimi, Latte+ e altri) che proponevano una versione aggiornata del punk rock ’77 (e dei Ramones in particolare) soffermandosi e calcando la mano soprattutto sul suo lato più goliardico, ludico e “disimpegnato” (specialmente a livello lirico, con testi delle canzoni che toccavano temi prevalentemente adolescenziali) quasi totalmente scevro dalla invettiva politica e dalla rabbia sociale che permeava sia il primo punk inglese, sia le successive scene hardcore punk angloamericane e italiane degli anni Ottanta, se non una concessione per il gusto dello sberleffo e di una leggera satira di costume, ma sotto i decibel della baldoria alcoolica e dell’irriverenza giovinastra aveva a suo modo una valenza sociale rivestita dal fatto di essere comunque un fenomeno aggregativo (seppur su piccola scala e rifiutando il contesto della “sacralità” da tribù che contraddistingueva la precedente scena punk/hardcore, per la quale l’unità di intenti del movimento punx era fondamentale) agendo come collante tra le varie realtà provinciali che avevano (e hanno ancora) la loro micro-scena punk e grazie alla fanzine, alle minuscole amatoriali etichette indipendenti e ai concerti (basati sul divertimento collettivo, sulla partecipazione attiva del pubblico, sul suonare per combattere le banalità e la noia della vita quotidiana e fiumi di alcool, veri motori del microcosmo flower-punk) entravano in contatto con le band e si scambiavano informazioni e materiale con altre realtà italiane, tutto questo poco prima dell’avvento totalizzante (e spesso destabilizzante) di internet e del mondo dei social network. Giovani che imbracciavano strumenti senza pretendere il vezzo di essere chiamati “musicisti”, che durante i concerti cazzeggiavano insieme al pubblico e, nella stragrande maggioranza dei casi, non si atteggiavano a rockstar, non se la tiravano, perché erano “losers” ai quali non è mai fregato un cazzo di diventare “famosi”, di “sfondare” nel mondo della musica, di “arrivare” e di “farcela”, né è mai interessato diventare “professionisti” e campare grazie alla musica, agivano al di fuori del mainstream, creando un mondo alternativo che se ne sbatteva delle regole del mercato discografico. Austosostentamento, autoproduzione e non prendersi troppo sul serio. Queste erano le caratteteristiche della scena, le stesse che non hanno abbandonato l’essenza dei Senzabenza (perdonate la rima) che ancora oggi, con oltre tre decenni di percorso, “suonando forte e veloce“, non sono mai scesi a compromessi e hanno tirato dritto, andando avanti per la propria strada fatta di tante date in giro per lo Stivale e per l’Europa, chilometri, sudore, militanza, chitarre, cantine e garage come sale-prove, attitudine, sempre coi Clash e i Ramones nelle corde e nel cuore (ma senza dimenticare gli amati australiani Hard-Ons). Col passare degli anni, però, il songwriting dei Senzabenza, un po’ come il buon vino, è notevolmente migliorato, arricchendosi di nuove soluzioni che vanno a rendere più varia la loro formula che, a riprendere il titolo-dilemma del long playing, ha sempre oscillato tra il punk rock di matrice ramonesiana (non dimentichiamoci che il loro terzo Lp nel 1996, “Deluxe – How To Make Money With Punkrock“, fu mixato nientemeno che da Joey Ramone e Daniel Rey) e (power) pop intriso di fresche ed efficaci melodie. “Punk Pop Dilemma” è il disco con cui il quintetto laziale celebra i trenta anni di avventura musicale, non discostandosi molto dai precedenti “Godzilla Kiss!” e “Pop From Hell” come coordinate soniche, corroborate dall’innesto in pianta stabile delle tastiere suonate da Daniele Nonne, che rivestono ormai un ruolo da protagonista, affiancate al consueto lavoro alle chitarre da parte del frontman Nando Ferdinandi e Giuseppe “Sebi” Filigi, sorrette dalla sezione ritmica formata dal batterista Max Bergo e dal bassista Jacopo “Paco” De Pinto. Il full length si apre con un side A che incarna decisamente l’anima “punk” dell’opera, con brani come il duo iniziale “The lady from the shop” e “Whiskey and sorrow” a garantire l’immancabile approccio ritmico rapido ed elettrico tipico della band, che si riconferma scattante e fedele alla linea della sua natura punk/pop anche nelle successive “Monkey on my back” e “Still loving you“,  alle quali seguono “Foolish heart” e  “Money, drugs e girls” che, con i suoi fragori fritti in umori ska chiude il primo segmento sonoro “classico”, condito da ciò che ci si aspetterebbe sempre da un disco dei Senzabenza. Ma dalla settima traccia del lotto, “The Lucky Winner“, il gruppo inizia a sperimentare e a provare diverse soluzioni, inaugurando l’anima “pop” dell’Lp, che vede emergere la passione dei nostri per canovacci melodici Beatlesiani (come quello elaborato nel pezzo “For Sweet Deborah“, o nella conclusiva “Never ending sunday“, mischiati con fragranze Kinks/Barrett) e, in generale, un amore per il sound psichedelico dei Sixties (presenti in “Pictures of the years gone by” e in “St. George“, dal sapore quasi Hendrixiano) fino al momento in cui i Ramones del periodo seconda metà degli Eighties incontrano gli Who (“Lord of the flies“). Il tutto imperniato sempre su vocals melodiche e pulite che si incastrano alla perfezione nel tessuto scheletrico dei pezzi.  Ma il più grande pregio di “Sebi”, Nando e soci sta nel saper sapientemente dosare le armonie per creare canzoni mai banali e, anzi, le cose migliori vengono fuori proprio quando l’aspro e saltellante spirito del punk rock viene rimodellato e forgiato secondo nuove esigenze “pop” che danno vita a figli ibridi generati dalla vitalità evergreen del rock ‘n’ roll veloce e feroce da scapestrati e in seguito svezzati dai fratelli maggiori dei teppistelli post-77, i precursori del Pop (da intendersi nel senso più nobile del termine) moderno, che tra uno sballo collettivo, una allucinazione individuale e geniali epifanie hanno tracciato la rotta musicale e concettuale che ha segnato tutto il cammino dai “mitici anni Sessanta” in avanti. Lo stesso punk rock delle origini, in fondo, si era abbeverato alla fonte dei 45 giri di oscuri gruppi bubblegum/doo-wop e di compilation dedicate ai complessi garage rock dei Sixties. E lo stesso Iggy Pop degli Stooges non sarebbe stato lo stesso se non avesse assimilato la lezione shaman blues impartitagli dal suo idolo Jim Morrison. Dilemmi musicali irrisolvibili, ma indici di maturità creativa: gli eterni adolescenti sono cresciuti e si stanno evolvendo, dimostrando una solida credibilità underground e potendosi permettere la libertà di fare come gli pare (anche restare tre lustri senza incidere materiale) perché non devono rendere conto a nessuna strategia di marketing né a leggi di mercato. Tutto ciò che gli ascoltatori devono fare è alzare il culo dalle sedie e andare a riempire i posti dove i nostri suonano e supportarli comprando i loro dischi. Questo è il modo più bello per ringraziarli.

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Les Thanes - Omonimo 7"

Les Thanes – Omonimo 7″

Quella dei Les Thanes è musica che non morirà mai, il cui spirito teen resta invariato a prescindere dall’ età di chi la suoni.

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Mad Dogs – Solitary Walker’s Blues / A New Dawn 7″

Non che girando la facciata di questo pregevole singolo calino tensione ed elettricità ma A New Dawn suona leggermente più “pop” e a tratti persino malinconica attingendo a piene mani in quel rock di scuola scandinava che è una delle influenze più palesi e riconosciute dei e dai Mad Dogs.

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KILLER KIN – S/T

Next big thing del rock ‘n’ roll, autentici losers o meteora/fuoco di paglia? Time will tell, solo il tempo (e le loro future mosse) lo dimostrerà, ma per il momento questo debutto omonimo appena sfornato (28 aprile, su Dead Beat Records) dei Killer Kin, quintetto statunitense proveniente da New Haven (Connecticut) il cui moniker è ispirato al compianto ex bassista dei New York Dolls (Arthur “Killer” Kane) si lascia ascoltare e va giù che è un piacere. La band arriva all’esordio sulla lunga distanza dopo aver precedentemente pubblicato una manciata di energici singoli all’insegna di un torrenziale R’N’R sfrenato, e anche questo primo Lp non si discosta dal mood sonoro dei primi passi: Stooges (con un particolare ascendente ispiratore di Iggy Pop sul frontman del combo, Mattie Lea) Radio Birdman, Saints, Ramones, Cramps, Rocket from the tombs, Dead Boys, le succitate NY Dolls e MC5 sembrano essere le rozze coordinate soniche che guidano il cammino sonico dei KK, capitanati dal selvaggio guitar sound di Chloe Rose (e non possiamo che essere strafelici di questa matrice femminile) in combutta con Brady Wilson, supportati da una torrida sezione ritmica a cura del batterista Jason Kyek e del bassista Marco Carotenuto. Dotati di un’ottima presenza scenica, e protagonisti di live set infuocati in giro per gli States, i nostri sembrano essere genuini nel loro essere sciatti e fuori moda (e soprattutto fregandosene di esserlo) cercando di guadagnarsi credibilità sbrodolando in dieci brani una cascata di riff grezzi, ritmi esplosivi e vocals a rotta di collo, con pezzi come “On the chain” e “Stunner” che suonano come una versione anfetaminizzata delle Dolls, “Motörbanger” è praticamente Iggy (& The Stooges) di “Raw Power” ringiovanito di quarant’anni e strafatto di speed, in “Sonic Love” pare di immaginare come sarebbero stati gli MC5 in chiave hardcore punk, o “Mr. Dynamite“, “Hound Howl“, “Damned and doomed“, “Shock collar” e “Cross that line” che non avrebbero sfigurato nel repertorio di gruppi come New Bomb Turks, i primi Hellacopters, i Lords of Altamont o i Reatards. Questi ragazzacci sono da tenere d’occhio per il futuro, sperando che mantengano questi standard di lerciume e, anzi, aggiungano ancora più cattiveria alle loro facce e azioni, e anche se non diventeranno mai “famosi” o popolari, in realtà, non ce ne importa nulla, perché questa è la roba zozza che ci piace e ne vogliamo ancora di più.

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ELLI DE MON – PAGAN BLUES

Sarà che il blues e il punk, due generi/movimenti/universi differenti tra loro per contesto storico-culturale e ambientale, ma in fondo accomunati dalla stessa urgenza espressiva e concettuale, sono opposti che si attraggono per via della stessa esigenza di suonare una musica (apparentemente) semplice per far sentire la propria voce al mondo e veicolare istanze ed emozioni, usando un linguaggio “urbano”, poco forbito o comunque di facile comprensione, affinché arrivi a più gente possibile il racconto nudo e crudo della vita di tutti i giorni: gioie, paure, amore, meraviglia, magia, vittorie, sconfitte, delusioni e vendette sentimentali, sfoghi, ingiustizie, soprusi, odio, disgusto, noia, rabbia verso la società e il sistema borghese/capitalista di sfruttamento della povera gente, che prescinde dal colore della pelle (gli afroamericani deportati e costretti a lavorare tutto il giorno nei campi di cotone, la working class inglese e, in generale, dell’uomo bianco disoccupata o salariata ma condannata a sopravvivere facendo lavori odiati, precari e sottopagati) le difficoltà a tirare avanti e la voglia di rivalsa sociale. Due background distinti, ma identici problemi. E quando questi due mondi si incontrano-scontrano e provano a dialogare, fondersi e compenetrarsi l’uno nell’altro, quasi sempre il risultato di questa commistione dal basso dà vita a una musica infuocata, ruspante, vivace e verace. Non stiamo parlando, logicamente, di puristi della tecnica alla Eric Clapton o altri mostri sacri della popular music che hanno fatto le loro fortune ripetendo all’infinito gli stessi stilemi di un blues/rock/pop che si è “appropriato” della black music (dalla “British invasion” in poi) e dagli anni Sessanta in poi ne ha riproposto sempre una versione “sbiancata” e ingessata di esso. No, ci riferiamo invece al melting pot tra blues apocalittico e punk rock incendiario (o anche garage rock/punk di Sixties ed Eighties) di cui sono stati fautori band e artisti straordinari e indimenticati come gli Stooges, i Gun Club, Jon Spencer nelle sue varie incarnazioni, Reverend Beat-Man. Tutte esperienze di cui la one girl band vicentina Elisa De Munari, in arte Elli De Mon, ha fatto tesoro (suonando in giro per l’Italia ed Europa, a volte aprendo, tra gli altri, anche per i live di Jon Spencer e del Reverendo) e ha riproposto nel suo ritorno discografico, con l’album “Pagan Blues“, da poco pubblicato sulla benemerita label pisana Area Pirata Records, ri-miscelando l’energia e l’attitudine del rock ‘n’ roll con la tradizione sciamanica della psichedelia indiana e del blues ancestrale di Bessie Smith, Fred McDowell e Son House. Il settimo Lp ufficiale di Elli, talentuosa donna/realtà ormai consolidata nel panorama dell’underground indipendente italiano ed europeo, mostra l’artista sempre sul pezzo, migliorata tecnicamente e nello stile, perfettamente capace di padroneggiare con disinvoltura tutti gli onori e gli oneri che spettano a un/una one man/woman group, ossia cantare e suonare tutto da soli/e: grancassa, chitarre, rullante, sonagli e spirito di sacrificio. Con il blues primordiale a fare da collante e bussola tra progetti passati, presenti e futuri. Il full length arriva, infatti, a due anni dal progetto “Countin’ The Blues“, tribute album e libro incentrato sulla figura delle pionieristiche e coraggiose blueswomen afroamericane degli anni Venti del Novecento (ai quali hanno fatto seguito la graphic novel “La donna serpente“, e il libro di racconti “Muder Ballads“) e “blues” è ancora la parola chiave, quella del titolo del nuovo long playing, ma è anche “pagano” perché accoglie le molteplicità e coltiva il dubbio, in provocatoria opposizione verso le scuole pensiero che ingabbiano il blues in un oggetto devozionale, da museo (come detto prima riguardo a Eric Clapton e affini) e in discorsi puristi su cosa sia “vero blues” o meno. Ma il “paganesimo”, non avendo la pretesa di essere un’entità assolutistica, mischia popoli e culture, non si nutre di certezze granitiche “monoteistiche”, è un camminare domandando, e questo cammino musicale (che va avanti da oltre un decennio) non fa avere a Elli la verità in tasca, ma la porta a studiare tradizioni musicali extraeuropee, viaggiare e indagare in luoghi lontani (fisici e spirituali) a volte anche scomodi, ma dal conflitto tra luce e oscurità ci si arricchisce nell’anima e si gettano ponti oltre gli integralismi. Un percorso “pagano” aspro che si snoda lungo nove tappe di dannazione e inquietudine, a iniziare dal costante senso di minaccia di “The Fall“, che sembra sempre in procinto di deflagrare da un momento all’altro, al fragore chitarristico cesellato di “I can see you“, passando per il torrido trip sotto effetto del peyote fatto in compagnia del fantasma di Jeffrey Lee Pierce in “Desert Song” e in “Catfish Blues“, ammaliante e letale come l’abbraccio mortale di un black mamba che sbuca dalle stesse savane africane che ha partorito i progenitori del deep blues. “Star” si muove come un canto beneaugurante per una nuova e generosa Saturnalia che dia abbondanza e sfami tutto il creato, mentre i ticchettii di “Ticking” innescano esplosioni garage rock che avrebbero fatto felici i White Stripes, ma anche Pj Harvey (altra beniamina della polistrumentista veneta) sarebbe fiera delle folate alternative della title track e di un brano come “Sirens’ Call” che sembrano ispirati proprio a Polly (e alla collega “one whoaman band” Molly Gene) anche se insaporiti da spezie psych indianeggianti, prima di lasciare la scena alla conclusiva “Troubled“, sorta di ninna nanna al veleno sussurrata dai genitori alla prole per metterla al letto, coricandosi poi con la ripromessa di ringhiarla anche in faccia ai propri schiavisti il giorno successivo, ritornando a spaccarsi la schiena ai lavori forzati nelle piantagioni di tabacco. “Pagan Blues” è un album senza cali di tensione e senza sbavature né troppi fronzoli, va efficacemente dritto al punto, a buon diritto si candida a essere uno degli album preferiti del 2023 per chi vi scrive, e un buon pretendente a un posto nella classfica dei migliori dischi di quest’anno. TRACKLIST 1. The Fall2. I Can See You3. Desert Song4. Catfsh Blues5. Star6. Ticking7. Pagan Blues8. Sirens’ Call9. Troubled

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THE CREEPSHOW OF MONOS

Monos – The Creepshow of Monos

I Monos sono due pazzi scriteriati: nulla che non si sappia. I Monos aprono questo loro recente lavoro con una versione, se possibile ancor più scombiccherata dell’originale, di Demolicion dei Los Saicos: 10, 100, 1000 punti in più!

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CYCLIC LAW RECORDS

CYCLIC LAW RECORDS SPRING MMXXIII

Il focus di oggi guarda alle uscite con cui la Cyclic Law ci accompagna verso un’indesiderata primavera. La label del canadese Frédéric Arbour, da tempo stabilitosi in Francia, è da anni una delle realtà più interessanti e dinamiche in ambito dark ambient. Quelle che vi raccontiamo oggi sono le release più recenti che arrivano dall’Occitania.

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