The Beatersband – Bad Girl
The Beatersband – Bad Girl: una delle formazioni più attive e competenti del nostro panorama musicale.
Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.
The Beatersband – Bad Girl: una delle formazioni più attive e competenti del nostro panorama musicale.
The Peawees One Ride: un disco dei Peawees sarà un gran disco: e questo loro settimo album non fa che sostenere il mio convincimento.
Prima o poi scoppierà la bolla dei grossi concerti primaverili-estivi organizzati e gestiti all’italiana maniera (con la chicca dei settori con “visibilità limitata”, fino ad arrivare ai tragicomici biglietti classisti “Vip package” che, per la modica cifra di 500 euro, “regalano”, a chi l’acquista, il posto migliore per fare i selfies e i video del palco, per farlo/a sentire privilegiato/a rispetto alla plebaglia che si deve accontentare del “posto in piedi”, e inoltre vi fanno accedere a una “area relax” per godere nientepopodimeno di qualche birretta, un aperitivo e avere una maglietta delle “rockstar” di turno che, nonostante la cifra sborsata, non si degnano nemmeno di gratificarvi presentandosi di persona e alitandovi in faccia per qualche minuto di “meet and greet“) per assistere a megaconcerti (propagandati come grandi eventi) in stadi, arene o palasport – spesso a distanze chilometriche dal palco, schiacciati uno sull’altro come bestie in un recinto – popolati, per la stragrande maggioranza, da un pubblico di individui occasionali che, magari, di una determinata band avrà ascoltato sì e no tre/quattro canzoni e si “accende” solo per quelle, per poi trascorrere il resto del live a farsi i cazzi propri e giocare con l’i-phone, ma quando sente il richiamo della superband mainstream conosciuta da tutti (diventata un brand di cui trovate il merchandising in vendita anche nei centri commerciali) spende anche l’equivalente di uno stipendio mensile pur di accaparrarsi un tagliando, per poi fare gli sboroni sui social e scrivere “IO C’ERO“, alimentando un circolo vizioso (fatto di agenzie di ticketing, booking, promoters e tutto il cucuzzaro del management organizzativo) che ha ormai rodato un lucroso business che specula sul presenzialismo modaiolo della gente che conosce solo cinque o sei gruppi ruoooooock “famosi” (e sempre i soliti) che vengono a suonare la loro “data unica in Italia” per celebrare i quaranta, cinquanta o sessanta anni di “carriera”, gonfiando a dismisura i prezzi ma raggiungendo ugualmente il “sold out”, a discapito di tanti veri fan che non possono permettersi di tirare fuori cifre improponibili, fuori dal mondo e fuori controllo, per coprire le varie spese che un concerto può comportare (costo alto del biglietto del live; benzina o biglietto per treno, bus o aereo per raggiungere il luogo del concerto se non si abita nei paraggi; pernottamento in strutture ricettive; eventuali prezzi per parcheggi, cibo e “token” per le bevande a prezzi da ristoranti stellati gourmet all’interno dell’area dove si svolge l’evento). Meglio spendere centinaia di euro per questa bolgia infernale, o tornare a frequentare i circoli musicali, i localacci scalcagnati e i piccoli club, spendendo pochi soldi e condividendo il piacere di ritrovare i rapporti umani, vivere le emozioni dei live in tempo reale insieme alle band che suonano a pochi metri dai vostri volti, avendo la possibilità di interagire coi musicisti in carne e ossa, senza filtri di giganti maxischermi né contenuti premium? Di sicuro, se opterete per la seconda opzione (consigliata) in quei posti lì ci troverete a suonare i Cheater Slicks, garage/lo-fi/blues/psych punk band (originaria di Boston, poi trasferitasi in Ohio) tornata quest’anno a pubblicare nuovo materiale a un anno di distanza dall’ultima release, l’album “Ill-fated cusses” (undicesimo long playing ufficiale del combo). Il terzetto statunitense, attivo dal 1987 e incentrato sui fratelli Tom (chitarra e voce) e Dave Shannon (chitarra) coadiuvati da Dana Hatch alla batteria/voce, ha infatti fatto uscire, sulla loro label Morbid web records (e distribuito dalla In the red e dalla Goner records) un singolo autoprodotto che, nell’immediato futuro, non sembra essere l’antipasto di un prossimo Lp: per i nostri, in realtà, sembrerebbe esserci in cantiere la realizzazione di un nuovo 7″ (di cui, al momento, non si conoscono titolo né la quantità dei brani in esso contenuti) in collaborazione con Don Howland, che dovrebbe vedere la luce il prossimo anno. Poco male, però: quando si tratta di far deragliare sonorità R’N’R sporche e luride, i Cheater Slicks si fanno sempre rispettare. Questo 7″, intanto, presenta due gradevolissimi brani: la title track “I am low” prende in prestito il testo da un poema di Phil Milstein (presidente della Velvet Underground Appreciation Society, editore della rivista “What goes on” che può vantare collaborazioni musicali con Thurston Moore, tra le altre attività) musicato secondo la ricetta degli Shannon brothers, a base di un rozzo e scorticato rock ‘n’ roll, stavolta irrobustita anche da uno schizofrenico intervento di Bobb Hatt al sax a rendere l’atmosfera ancora più sudicia, mentre “Rock ‘n’ roll” è una rivisitazione di un brano del leggendario Ellas McDaniel, in arte Bo Diddley (noto come “The Originator“, colui che suonava la chitarra rettangolare Cigar Box, ispirò migliaia di bands e inventò il “Bo Diddley beat“, tra i principali artefici della transizione, alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, dal blues delle origini al rock ‘n’ roll, uno tra i pionieri che contribuirono a demolire le barriere del segregazionismo razziale negli Stati Uniti con la propria musica, nonché uno dei primi artisti uomini a sdoganare l’inserimento di musiciste donne in una band) trasformato in una selvaggia sarabanda noise-punk dai bostoniani (peraltro non nuovi in quanto a omaggi al Maestro, avendo partecipato anche al tribute album “He’s bad!” col rifacimento di “The great grandfather“) ai quali danno manforte il basso di James Arthur e il saltellante piano di Will Foster (questi ultimi due già presenti nelle sessioni di registrazioni di “Ill-fated cusses“). Crowd-rockin’ motherfuckers from around the way. Losers e fieri di esserlo!
La sequoia: Le tracce sono sostanzialmente sempre introdotte da riff mordenti di un basso affilato, dove le batterie giocano ad accompagnarli con dinamiche che ti obbligano a tenere il tempo con il piede altre muovendo la testa
Sbucato praticamente fuori dal nulla, senza annunci in pompa magna e con un “battage pubblicitario” degno di una distribuzione con modalità da carboneria (un po’ alla stregua di quanto fatto anche da Jack White col suo “No name album“) arriva a sorpresa un nuovo album dell’iconico frontman-chitarrista garage/blues/trash/punk Jon Spencer, che a inizio mese ha rilasciato, su Bronze Rat records e Shove records, “Sick of being sick!“, suo secondo Lp solista che arriva sei anni dopo “Jon Spencer sings the hits“. Il disco è stato registrato dal menestrello elettrico del New Hampshire (ma newyorchese di adozione) questa volta senza HITmakers (la sua ultima incarnazione dopo lo scioglimento della Blues Explosion, e coi quali aveva inciso il materiale più recente, il long playing di debutto “Spencer gets it lit“) ma insieme a Kendall Wind (al basso e voce) and Macky Spider Bowman (alla batteria e voce) membri della formazione garage rock/punk newyorchese Bobby Lees (che avevano già collaborato con Spencer, il quale aveva prodotto il loro long playing del 2020, “Skin suit“) per masticare un chewing gum della durata di poco meno di venti minuti che si dipana tra l’assalto ragionato dell’opener “Wrong“, la crampsiana “Get away“, il feeling alla JSBX di “Come along” e quello alla HITmakers di “Coulda been” (che sembra essere quasi una outtake di “Spencer gets it lit”) l’abrasiva “Out of place“, il frizzante rockabilly di “Fancy pants” (forse il pezzo migliore del lotto) e le sveltine R’N’R di “Guitar champ” e della conclusiva “Disconnected“. Jon Spencer non si discute, si ama, però è altrettanto lecito constatare che “Sick of being sick!” è un album che, a parte qualche fiammata, non riesce a decollare del tutto e sembra lasciare un senso di incompiuto, pur non discostandosi molto da quanto proposto da Spencer negli ultimi tempi con gli HITmakers, ma per il nostro resta comunque un buon pretesto per continuare a rimestare la sua estetica freaky nei terreni paludosi del punk blues, fornendo a noi un’altra ottima scusa per tornare a vederlo dal vivo a incendiare i palchi.
“Compost” è il settimo album in studio per Paolo Rigotto aka Paolo Rig8, ed esce per Snowdonia Dischi.
In questa puntata scopriamo l’etichetta torinese Stanze Fredde Records, e le sue uscite pubblicate fino ad ora.
Fanculo il maltempo pre-autunnale, fanculo la trasferta infrasettimanale: avendo la possibilità-privilegio di soggiornare nei paraggi (a casa di familiari) chi vi scrive ha colto la palla al balzo e si è rimesso on the road per raggiungere la Toscana, e precisamente il suo capoluogo di regione, Firenze, che ha ospitato una delle quattro tappe del tour italiano dei Mudhoney, leggendaria rock ‘n’ roll band di Seattle, all’interno del segmento europeo di concerti a supporto del loro ultimo album, “Plastic eternity“, uscito l’anno scorso. E a loro non si poteva dire di no. Arrivato nella città-culla del Rinascimento insieme ad amici musicisti della vicina scena R’N’R pisana, si entra al Viper Theatre, scenario del live della serata – praticamente sold out e ribollente di passione – e subito si assiste al set del gruppo di apertura, i SØWT, giovane combo noise-pop olandese che accompagna i Mudhoney durante la tournée come opening act di quasi tutti gli show europei. I ragazzi si sbattono sul palco, offrendo una performance decisamente rumorosa e sanguigna, con sonorità pesantemente indebitate con quelle di (ex) colleghi di Mark Arm e compari del “Seattle sound” (Nirvana, Hole) e dell’alt. rock in generale (Sonic Youth) tutto sommato un buon antipasto per scaldare la platea, in attesa dell’apparizione on stage dei nostri beniamini. Alle 21.30, puntuali, i nostri si prendono la scena, con un Mark Arm ancora in forma smagliante (anche e soprattutto a livello canoro, a differenza di tanti suoi colleghi coetanei che, nonostante siano completamente afoni, continuano a incidere dischi e andare in giro a raccattare figure di merda) sempre contraddistinto da uno spirito sguaiatamente punk, incurante di quaranta anni di percorso musicale (la maggior parte dei quali vissuti “al limite”, apparentemente fedele al motto: “Hope I die before I get old” di Whoiana memoria – e anche alla massima: “Vivi rapido, muori giovane” – devoto alla immancabile triade sesso-droga-alcool) e sessanta primavere sul groppone. Non da meno i suoi inseparabili compagni di viaggio, il fido Steve Turner a graffiare e ringhiare sulla sei corde, Guy Maddison a fornire un solido contributo al basso e Dan Peters inscalfibile macchina da guerra dietro le pelli della batteria. Ampio spazio viene logicamente riservato, nell’abbondante setlist proposta, alla loro release più recente (“Move under“, “Almost everything“, “Souvenir of my trip“, “Little dogs“, “Tom Herman’s hermits“, “Flush the fascists“, “Human stock capital“) con un Arm che, verso la parte finale del concerto, ha dismesso la chitarra per vestire i soli panni dello chansonnier, interpretando alcuni pezzi (“Next time“, “I’m now“, “Paranoid core“, “21st centuries pharisees“, “One bad actor“) con un’enfasi quasi teatrale. Ma sono soprattutto i classici del repertorio del quartetto a incendiare a dovere il pubblico, da “If I think” (che ha aperto le elettriche danze della serata) a “Into the drink“, passando per “You got it (keep it outta my face)“, “Good enough” e gli evergreen “Sweet young thing ain’t sweet no more” e “Touch me I’m sick” (marcio anthem garage punk marcio e autentico inno all’autodistruzione da lerci ubriaconi, all’autocommiserazione caciarona e al sarcasmo cialtrone nonché, a posteriori, vero brano simbolo del movimento musicale underground della scena di Seattle che sarebbe stato etichettata dal mainstream come “grunge” dopo il boom commerciale di Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden e Alice in Chains) e completando il gran finale con l’encore affidato a “Suck you dry“, “Here comes sickness” e “In ‘n’ out of grace” che hanno scatenato entusiasmo e pogo in sala. Come sempre, in sede live (come su disco) i quattro (ex) ragazzacci hanno confermato di essere molto Mud e poco honey, reggono il palco in maniera egregia, sempre fedeli a loro stessi, su questo non v’erano dubbi e, del resto, non hanno più nulla da dimostrare a nessuno. Ma quando torni a casa con la testa che rimbomba dopo aver cantato-urlato per un’ora e mezza a squarciagola, e l’unica cosa che il cuore ti chiede di fare è rimettere di nuovo su gli album dei Mudhoney per riascoltarli ancora, capisci che hanno fatto centro.
Primo LP di Jacket Burner con cui punta a farci venire l’acufene per via di una voce filtrata e alterata su di un tappeto musicale da headbanging nauseante come piace a noi.
Quindi carissimi Haji il vostro disco non è affatto una cagata pazzesca, vi conosco e so quanto siate bravi e motivati, è anzi pregno di energia e di attitudine, distorsioni in libertà e drammaticità in abbondanza.
Ventottesimo (!!!) album per gli OSEES, la creatura multiforme – con varie declinazioni nel moniker – guidata del prolifico talento di John Dwyer, da sempre anima del progetto e frontman polistrumentista dotato di una creatività artistica preossoché inesauribile.
Jac Berrocal David Fenech Vincent Epplay – Broken Allures: Un disco che solca territori inesplorati, puro spirito francese di avanguardia, alla scoperta di un esagono occulto e musicalmente ricchissimo