Black Elephant – The fall of the gods
Black Elephant : probabilmente questo disco è una delle cose migliori mai uscite in campo psichedelico pesante in Italia, raramente si sono ascoltati dischi così alle nostre latitudini.
Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.
Black Elephant : probabilmente questo disco è una delle cose migliori mai uscite in campo psichedelico pesante in Italia, raramente si sono ascoltati dischi così alle nostre latitudini.
Quando sai che è fuori un nuovo album dei Jesus Lizard, leggende (ok, termine inflazionato ma, nel loro caso, non è assolutamente usato a sproposito) della scena noise/post-hardcore mondiale, parte in automatico il suo inserimento tra i migliori dischi dell’anno, e lo ascolti con gli occhi (e le orecchie) a cuore. La benemerita Ipecac Recordings, il mese scorso, ha rilasciato il settimo long playing complessivo realizzato da David Yow e compari – tra gli alfieri di quella prolifica stagione a cavallo tra Eighties e Nineties che, dopo l’esplosione commerciale del fenomeno “grunge”, vide l’underground del rock indipendente statunitense “sfondare” nel mainstream e trasformarsi in overground, un’epopea (?) di cui i Jesus Lizard indirettamente beneficiarono in termini di crescita di popolarità quando Kurt Cobain li richiese per pubblicare uno split single insieme ai Nirvana nel 1993, “Puss/Oh! The guilt“, probabilmente facendo toccare ai Lizard il punto più alto della “fama” presso il grande pubblico – “Rack“, il primo del gruppo nel nuovo millennio. Album reunion? Ma manco per il cazzo, perché i Lucertoloni (che devono il loro moniker ai basilischi crestati, rettili capaci di correre sulle acque e che, secondo la leggenda della mitologia europea, un tempo sarebbero stati in grado di uccidere o tramutare un uomo in pietra con il loro sguardo diretto negli occhi) riprendono il discorso interrotto ventisei anni fa con “Blue” (forse il capitolo meno riuscito della loro discografia, arrivato nel loro “periodo major” non proprio felicissimo) senza perdere un grammo della loro proverbiale ferocia sonora, oggi solo mitigata e “ingentilita” dal trascorrere del tempo carogna che non fa sconti a nessuno – i ragazzacci hanno oltrepassato le sessanta primavere -. Ma i quattro texani (oltre al frontman Yow, ritroviamo Duane Denison alla chitarra, David Wm. Sims al basso e Mac McNeilly alla batteria) sanno ancora picchiare duro, in direzione ostinata e contraria, e restano fedeli alla loro identità imbastardita di marciume sonico (non a caso, sono stati tra i pupilli del compianto Steve Albini). Rinnovata la “tradizione” di dare un titolo di quattro lettere a ogni long playing del combo (con tanto di copertina raffigurante un dipinto realizzato dall’artitsta inglese Malcolm Bucknall, tra l’altro non nuovo a collabrazioni con la band) basta la sola opener “Hide & seek” a spazzare via tutto l’imperante fighettume dei revival indie e post-post-punk, con la dinamitarda sezione ritmica di Sims e McNeilly a pestare sodo e la chitarra abrasiva di Denison che non concede mai assoli da sborone ipertecnico (se volete quelli, andatevi a sentire Malmsteen e altra robaccia simile) ma ti spacca i timpani, sui quali deraglia il “canto” stralunato e schizzato di Yow. Se in “Armistice day” e “What if?” i ritmi si fanno più rallentati e melmosi (ma ugualmente elettrizzanti, con uno Yow che oscilla tra il ruolo di predicatore e narratore spoken word) con “Grind” e “Lord Godiva” (infognata dal latrato disperato e paranoico di Yow) si torna sui lidi noise rock burini. Il “lato B” è aperto dalla basso-centrica e rocciosa “Alexis feels sick” (una delle gemme dell’Lp, fluttuante e mutevole nel suo incedere), “Falling down“, “Dunning Kruger“, “Moto(R)” e “Is that your hand?” infuriano nel loro noise-punk che non fa prigionieri, mentre la chiusura è affidata al vigore delle trame ossessive di “Swan the dog“. They might not be young, but they will never, ever get fucking old. Alla fine della fiera ne è valsa la pena? Sì, ne è valsa la pena di aspettare cinque lustri per godere di un nuovo, devastante, album dei Jesus Lizard. Certo, non siamo più ai livelli dei loro capolavori “Goat“, “Liar” e “Down“, però si gode lo stesso e la loro natura fracassona e attitudine sarcastica, aggressiva, perversa e nichilista non è andata smarrita. Finalmente i nostri, l’anno prossimo, torneranno anche a suonare dal vivo per tre date in Italia. E noi, nell’attesa di rivederli, siamo allupati come la loro mascotte. E ora dai, David, torna a incendiare i palchi col cazzo de fora!
Short, fast, loud and to the fucking point: questa è, da sempre, l’essenza degli ZEKE, leggendario combo speed rock statunitense che, dal 1992 a oggi, ha fatto del rock ‘n’ roll veloce, grezzo, tiratissimo e sparato a manetta la sua bandiera e natura musicale. Il veterano quartetto di Seattle (formato dal figliol prodigo Donny Paycheck alla batteria, dal frontman/chitarrista Blind Marky Felchtone, da Jason Freeman alla chitarra e Jeff Hiatt al basso) a un anno di distanza dall’uscita del singolo “Ride hard ride free / Smokestack lightnin’“, torna a pubblicare nuovo materiale, e precisamente un altro 7” che ha ufficialmente visto la luce oggi (sulla label tedesca Hound Gawd! records) registrato da Jack Endino (presso i Soundhouse Studios di Seattle) e composto dai singoli “Snake eyes“, brano in cui la proverbiale furia punk-HC in salsa Motörhead della band è parzialmente smorzata e diluita in un high-octane R’N’R a tinte Hellacopters, mentre il “lato B” del single è “The knife“, al solito un’intensa scheggia suonata a rotta di collo alla maniera degli ZEKE. Come accaduto già per “Ride hard ride free“, anche i brani di questo 7” non sono stati resi disponibili sulle piattaforme digitali, una precisa scelta del gruppo, che ha l’intento di stuzzicare la curiosità di fan e persone interessate, ma intanto aggiungono carburante sonico a una macchina da guerra ultrarodata sui palchi di tutto il mondo in sede live, coi nostri che scaldano i motori per l’avvio di un imminente tour in UK ed Europa, che toccherà anche l’Italia in ben quattro date alla fine di ottobre (a Milano, Verona, Roma e Bologna). E noi saremo ben felici di lasciarci spettinare ancora una volta dai decibel deraglianti di Felchtone e compari. https://www.youtube.com/watch?v=IE6GyCME1x0
The Zeros – Don’t Push Me Around: definiti come i Ramones californiani se non addirittura messicani (il leader Javier Escovedo è figlio di emigranti, tutti musicisti).
Monos : la realtà vuole però che la band nasca da una folgorazione (probabilmente non di origine divina) avuta da Mr. Bonobo e Mr. Gorilla rispettivamente alla chitarra e alla batteria. La loro prima uscita è datata 2019 mentre il nuovo album è alle porte.
The Beatersband – Bad Girl: una delle formazioni più attive e competenti del nostro panorama musicale.
The Peawees One Ride: un disco dei Peawees sarà un gran disco: e questo loro settimo album non fa che sostenere il mio convincimento.
Prima o poi scoppierà la bolla dei grossi concerti primaverili-estivi organizzati e gestiti all’italiana maniera (con la chicca dei settori con “visibilità limitata”, fino ad arrivare ai tragicomici biglietti classisti “Vip package” che, per la modica cifra di 500 euro, “regalano”, a chi l’acquista, il posto migliore per fare i selfies e i video del palco, per farlo/a sentire privilegiato/a rispetto alla plebaglia che si deve accontentare del “posto in piedi”, e inoltre vi fanno accedere a una “area relax” per godere nientepopodimeno di qualche birretta, un aperitivo e avere una maglietta delle “rockstar” di turno che, nonostante la cifra sborsata, non si degnano nemmeno di gratificarvi presentandosi di persona e alitandovi in faccia per qualche minuto di “meet and greet“) per assistere a megaconcerti (propagandati come grandi eventi) in stadi, arene o palasport – spesso a distanze chilometriche dal palco, schiacciati uno sull’altro come bestie in un recinto – popolati, per la stragrande maggioranza, da un pubblico di individui occasionali che, magari, di una determinata band avrà ascoltato sì e no tre/quattro canzoni e si “accende” solo per quelle, per poi trascorrere il resto del live a farsi i cazzi propri e giocare con l’i-phone, ma quando sente il richiamo della superband mainstream conosciuta da tutti (diventata un brand di cui trovate il merchandising in vendita anche nei centri commerciali) spende anche l’equivalente di uno stipendio mensile pur di accaparrarsi un tagliando, per poi fare gli sboroni sui social e scrivere “IO C’ERO“, alimentando un circolo vizioso (fatto di agenzie di ticketing, booking, promoters e tutto il cucuzzaro del management organizzativo) che ha ormai rodato un lucroso business che specula sul presenzialismo modaiolo della gente che conosce solo cinque o sei gruppi ruoooooock “famosi” (e sempre i soliti) che vengono a suonare la loro “data unica in Italia” per celebrare i quaranta, cinquanta o sessanta anni di “carriera”, gonfiando a dismisura i prezzi ma raggiungendo ugualmente il “sold out”, a discapito di tanti veri fan che non possono permettersi di tirare fuori cifre improponibili, fuori dal mondo e fuori controllo, per coprire le varie spese che un concerto può comportare (costo alto del biglietto del live; benzina o biglietto per treno, bus o aereo per raggiungere il luogo del concerto se non si abita nei paraggi; pernottamento in strutture ricettive; eventuali prezzi per parcheggi, cibo e “token” per le bevande a prezzi da ristoranti stellati gourmet all’interno dell’area dove si svolge l’evento). Meglio spendere centinaia di euro per questa bolgia infernale, o tornare a frequentare i circoli musicali, i localacci scalcagnati e i piccoli club, spendendo pochi soldi e condividendo il piacere di ritrovare i rapporti umani, vivere le emozioni dei live in tempo reale insieme alle band che suonano a pochi metri dai vostri volti, avendo la possibilità di interagire coi musicisti in carne e ossa, senza filtri di giganti maxischermi né contenuti premium? Di sicuro, se opterete per la seconda opzione (consigliata) in quei posti lì ci troverete a suonare i Cheater Slicks, garage/lo-fi/blues/psych punk band (originaria di Boston, poi trasferitasi in Ohio) tornata quest’anno a pubblicare nuovo materiale a un anno di distanza dall’ultima release, l’album “Ill-fated cusses” (undicesimo long playing ufficiale del combo). Il terzetto statunitense, attivo dal 1987 e incentrato sui fratelli Tom (chitarra e voce) e Dave Shannon (chitarra) coadiuvati da Dana Hatch alla batteria/voce, ha infatti fatto uscire, sulla loro label Morbid web records (e distribuito dalla In the red e dalla Goner records) un singolo autoprodotto che, nell’immediato futuro, non sembra essere l’antipasto di un prossimo Lp: per i nostri, in realtà, sembrerebbe esserci in cantiere la realizzazione di un nuovo 7″ (di cui, al momento, non si conoscono titolo né la quantità dei brani in esso contenuti) in collaborazione con Don Howland, che dovrebbe vedere la luce il prossimo anno. Poco male, però: quando si tratta di far deragliare sonorità R’N’R sporche e luride, i Cheater Slicks si fanno sempre rispettare. Questo 7″, intanto, presenta due gradevolissimi brani: la title track “I am low” prende in prestito il testo da un poema di Phil Milstein (presidente della Velvet Underground Appreciation Society, editore della rivista “What goes on” che può vantare collaborazioni musicali con Thurston Moore, tra le altre attività) musicato secondo la ricetta degli Shannon brothers, a base di un rozzo e scorticato rock ‘n’ roll, stavolta irrobustita anche da uno schizofrenico intervento di Bobb Hatt al sax a rendere l’atmosfera ancora più sudicia, mentre “Rock ‘n’ roll” è una rivisitazione di un brano del leggendario Ellas McDaniel, in arte Bo Diddley (noto come “The Originator“, colui che suonava la chitarra rettangolare Cigar Box, ispirò migliaia di bands e inventò il “Bo Diddley beat“, tra i principali artefici della transizione, alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, dal blues delle origini al rock ‘n’ roll, uno tra i pionieri che contribuirono a demolire le barriere del segregazionismo razziale negli Stati Uniti con la propria musica, nonché uno dei primi artisti uomini a sdoganare l’inserimento di musiciste donne in una band) trasformato in una selvaggia sarabanda noise-punk dai bostoniani (peraltro non nuovi in quanto a omaggi al Maestro, avendo partecipato anche al tribute album “He’s bad!” col rifacimento di “The great grandfather“) ai quali danno manforte il basso di James Arthur e il saltellante piano di Will Foster (questi ultimi due già presenti nelle sessioni di registrazioni di “Ill-fated cusses“). Crowd-rockin’ motherfuckers from around the way. Losers e fieri di esserlo!
La sequoia: Le tracce sono sostanzialmente sempre introdotte da riff mordenti di un basso affilato, dove le batterie giocano ad accompagnarli con dinamiche che ti obbligano a tenere il tempo con il piede altre muovendo la testa
Sbucato praticamente fuori dal nulla, senza annunci in pompa magna e con un “battage pubblicitario” degno di una distribuzione con modalità da carboneria (un po’ alla stregua di quanto fatto anche da Jack White col suo “No name album“) arriva a sorpresa un nuovo album dell’iconico frontman-chitarrista garage/blues/trash/punk Jon Spencer, che a inizio mese ha rilasciato, su Bronze Rat records e Shove records, “Sick of being sick!“, suo secondo Lp solista che arriva sei anni dopo “Jon Spencer sings the hits“. Il disco è stato registrato dal menestrello elettrico del New Hampshire (ma newyorchese di adozione) questa volta senza HITmakers (la sua ultima incarnazione dopo lo scioglimento della Blues Explosion, e coi quali aveva inciso il materiale più recente, il long playing di debutto “Spencer gets it lit“) ma insieme a Kendall Wind (al basso e voce) and Macky Spider Bowman (alla batteria e voce) membri della formazione garage rock/punk newyorchese Bobby Lees (che avevano già collaborato con Spencer, il quale aveva prodotto il loro long playing del 2020, “Skin suit“) per masticare un chewing gum della durata di poco meno di venti minuti che si dipana tra l’assalto ragionato dell’opener “Wrong“, la crampsiana “Get away“, il feeling alla JSBX di “Come along” e quello alla HITmakers di “Coulda been” (che sembra essere quasi una outtake di “Spencer gets it lit”) l’abrasiva “Out of place“, il frizzante rockabilly di “Fancy pants” (forse il pezzo migliore del lotto) e le sveltine R’N’R di “Guitar champ” e della conclusiva “Disconnected“. Jon Spencer non si discute, si ama, però è altrettanto lecito constatare che “Sick of being sick!” è un album che, a parte qualche fiammata, non riesce a decollare del tutto e sembra lasciare un senso di incompiuto, pur non discostandosi molto da quanto proposto da Spencer negli ultimi tempi con gli HITmakers, ma per il nostro resta comunque un buon pretesto per continuare a rimestare la sua estetica freaky nei terreni paludosi del punk blues, fornendo a noi un’altra ottima scusa per tornare a vederlo dal vivo a incendiare i palchi.
“Compost” è il settimo album in studio per Paolo Rigotto aka Paolo Rig8, ed esce per Snowdonia Dischi.
In questa puntata scopriamo l’etichetta torinese Stanze Fredde Records, e le sue uscite pubblicate fino ad ora.