MUDHONEY LIVE REPORT: FIRENZE (12-9-2024)
Fanculo il maltempo pre-autunnale, fanculo la trasferta infrasettimanale: avendo la possibilità-privilegio di soggiornare nei paraggi (a casa di familiari) chi vi scrive ha colto la palla al balzo e si è rimesso on the road per raggiungere la Toscana, e precisamente il suo capoluogo di regione, Firenze, che ha ospitato una delle quattro tappe del tour italiano dei Mudhoney, leggendaria rock ‘n’ roll band di Seattle, all’interno del segmento europeo di concerti a supporto del loro ultimo album, “Plastic eternity“, uscito l’anno scorso. E a loro non si poteva dire di no. Arrivato nella città-culla del Rinascimento insieme ad amici musicisti della vicina scena R’N’R pisana, si entra al Viper Theatre, scenario del live della serata – praticamente sold out e ribollente di passione – e subito si assiste al set del gruppo di apertura, i SØWT, giovane combo noise-pop olandese che accompagna i Mudhoney durante la tournée come opening act di quasi tutti gli show europei. I ragazzi si sbattono sul palco, offrendo una performance decisamente rumorosa e sanguigna, con sonorità pesantemente indebitate con quelle di (ex) colleghi di Mark Arm e compari del “Seattle sound” (Nirvana, Hole) e dell’alt. rock in generale (Sonic Youth) tutto sommato un buon antipasto per scaldare la platea, in attesa dell’apparizione on stage dei nostri beniamini. Alle 21.30, puntuali, i nostri si prendono la scena, con un Mark Arm ancora in forma smagliante (anche e soprattutto a livello canoro, a differenza di tanti suoi colleghi coetanei che, nonostante siano completamente afoni, continuano a incidere dischi e andare in giro a raccattare figure di merda) sempre contraddistinto da uno spirito sguaiatamente punk, incurante di quaranta anni di percorso musicale (la maggior parte dei quali vissuti “al limite”, apparentemente fedele al motto: “Hope I die before I get old” di Whoiana memoria – e anche alla massima: “Vivi rapido, muori giovane” – devoto alla immancabile triade sesso-droga-alcool) e sessanta primavere sul groppone. Non da meno i suoi inseparabili compagni di viaggio, il fido Steve Turner a graffiare e ringhiare sulla sei corde, Guy Maddison a fornire un solido contributo al basso e Dan Peters inscalfibile macchina da guerra dietro le pelli della batteria. Ampio spazio viene logicamente riservato, nell’abbondante setlist proposta, alla loro release più recente (“Move under“, “Almost everything“, “Souvenir of my trip“, “Little dogs“, “Tom Herman’s hermits“, “Flush the fascists“, “Human stock capital“) con un Arm che, verso la parte finale del concerto, ha dismesso la chitarra per vestire i soli panni dello chansonnier, interpretando alcuni pezzi (“Next time“, “I’m now“, “Paranoid core“, “21st centuries pharisees“, “One bad actor“) con un’enfasi quasi teatrale. Ma sono soprattutto i classici del repertorio del quartetto a incendiare a dovere il pubblico, da “If I think” (che ha aperto le elettriche danze della serata) a “Into the drink“, passando per “You got it (keep it outta my face)“, “Good enough” e gli evergreen “Sweet young thing ain’t sweet no more” e “Touch me I’m sick” (marcio anthem garage punk marcio e autentico inno all’autodistruzione da lerci ubriaconi, all’autocommiserazione caciarona e al sarcasmo cialtrone nonché, a posteriori, vero brano simbolo del movimento musicale underground della scena di Seattle che sarebbe stato etichettata dal mainstream come “grunge” dopo il boom commerciale di Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden e Alice in Chains) e completando il gran finale con l’encore affidato a “Suck you dry“, “Here comes sickness” e “In ‘n’ out of grace” che hanno scatenato entusiasmo e pogo in sala. Come sempre, in sede live (come su disco) i quattro (ex) ragazzacci hanno confermato di essere molto Mud e poco honey, reggono il palco in maniera egregia, sempre fedeli a loro stessi, su questo non v’erano dubbi e, del resto, non hanno più nulla da dimostrare a nessuno. Ma quando torni a casa con la testa che rimbomba dopo aver cantato-urlato per un’ora e mezza a squarciagola, e l’unica cosa che il cuore ti chiede di fare è rimettere di nuovo su gli album dei Mudhoney per riascoltarli ancora, capisci che hanno fatto centro.