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Recensioni Rock

Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.

VIBRAVOID – WE CANNOT AWAKE

Qualche sera fa, chi vi scrive è incappato, suo malgrado, nello zapping televisivo (pratica assolutamente sconsigliata: la televisione è una droga pesante che annienta i cervelli e le coscienze peggio dell’eroina, una delle armi di distr-A-zione di massa più dannose che esistano e più usate dal Potere, da settanta anni a questa parte, per tenere buono il popolino elargendo panem et circenses) e, in particolare, ha avuto la sfiga di imbattersi in quei concertoni-carrozzoni patrocinati dalle radio mainstream generaliste che propinano, in prima serata, le cosiddette “hit” estive che da diversi anni, in maniera puntuale come le tasse, arrivano a infestare l’etere mediatico nella bella stagione con il loro insopportabile inquinamento acustico: un indigesto pastone in cui, a farla da padrone, è il monopolio di playback e autotune, tra sedicenti popstar-rapper-trapper in passerella che si mettono in mostra e in vetrina a fare il compitino assegnato loro dalle major discografiche e dai contratti pubblicitari, conduttori imbarazzanti e piazze piene di adolescenti lobotomizzati urlanti che ripetono a pappagallo i testi insulsi-demenziali dei “tormentoni” proposti dai vari “artisti” che fanno finta di esibirsi dal vivo: un baratro musicale e culturale che, del resto, ben rappresenta e rispecchia il declino antropologico e degrado morale in cui la società italiana è precipitata da decenni, roba che il “Festivalbar”, a confronto, sembrava Glastonbury. Bene (si fa per dire) dopo questo pippone introduttivo, converrete sul fatto che in quel tipo di contesto “musicale”, tossico per l’udito e nocivo per l’anima, sicuramente non ascolterete mai i Vibravoid, prolifica band neopsichedelica/acid rock tedesca che, dal 1997 a oggi (anche se le origini risalgono alla fine degli Eighties, quindi sarebbe in pista da tre decenni) si prodiga in una incessante attività di pubblicazione di ottimo materiale sonoro tra singoli, Ep, dischi registrati dal vivo, mini-album e, soprattutto, studio album (non disdegnando anche la lingua italiana e collaborazioni iconiche come quella col compianto frontman dei Seeds, Sky Saxon, con cui registrarono un disco poco prima della sua scomparsa) e proprio quest’ultimo formato lungo è il soggetto principale di questo articolo, perché a fine agosto i nostri hanno fatto uscire “We cannot awake“, sfondando il muro dei venti full length ufficiali (dovremmo essere arrivati a ventidue) – a testimonianza della loro incessante vena creativa – che arriva a un solo anno di distanza dal precedente Lp “Edge of tomorrow“. Il trio di Düsseldorf (composto dal frontman e chitarrista Christian “Doctor” Koch, coadiuvato da Dario Treese al basso e tastiere e Frank Matenaar alla batteria) non lascia nulla al caso, curando ogni release con particolari artwork che si richiamano all’iconografia della cultura psichedelica/hippie e rievocano i manifesti-poster dei concerti acid/blues/psych/space rock dei Sixties (anche dando vita a festival pysch) e proprio il periodo compreso tra la seconda metà degli anni Sessanta e l’inizio dei Seventies rappresenta il principale fulcro ispirativo del gruppo, ispirato dal flower power, dal krautrock teutonico, dai Pink Floyd Barrettiani (e dai light shows dell’UFO club, ripresi da Koch e soci ai loro concerti) Silver Apples, Strawberry Alarm Clock, Electric Prunes, Byrds, gli stessi Seeds, i CAN, ma nel loro sound si fa anche uso di chitarre fuzzate e organi Farfisa, costruendosi un fedele zoccolo duro di fan e sostenitori, e riprendendo un discorso underground in chiave beat e “Neo-kraut” (rifutando l’appellativo “stoner rock band”) in un periodo – fine Ottanta/inizio Novanta del secolo scorso – in cui il krautrock e il rock psichedelico non erano più considerati profeti in Patria (soprattutto nella loro città, e la ricerca di vecchi vinili di musica psichedelica era un’attività di nicchia, quando tutto lo scibile umano in musica non era ancora alla portata di tutti e acquistabile su internet con pochi “click”, come invece accade oggi) mentre in UK aveva generato eccellenti eredi (corretti in salsa Velvet/Lou Reed) come gli Spacemen 3 e dall’altro lato dell’oceano – qualche anno più tardi – i Brian Jonestown Massacre. I Vibravoid hanno presentato “We cannot awake” (uscito su Tonzonen records) come “la colonna sonora perfetta per la legalizzazione della cannabis-THC“, creando sei brani che dipingono paesaggi sonori più stonati di un trip sotto effetto dell’LSD, con le componenti acid/fuzz/psych ancora predominanti, e allo stesso tempo facendo risaltare maggiormente la struttura, la melodia, i testi e la produzione dei pezzi.  L’aggressiva dinamicità dell’opener “Get to you” è una cavalcata dark che quasi sconfina nel post-punk di reminiscenze vocali à la Andrew Eldritch/Sisters of Mercy e uno di quei brani perfetti da mettere su quando si è in austostrada, specialmente di notte; “Nothing is wrong” e “A comment of the current times” combinano l’amore per i Byrds con il motorik sound della loro Düsseldorf, “The end of the game” è psichedelia fuzzata a tutto spiano, tra echo effects e vocals à la Jesus and Mary Chain, mentre la psych ballad malinconica/distopica “On empty streets” chiude il lato A. La mastodontica title track (definita nella press release del disco, forse in maniera un po’ ridondante, “la In a gadda da vida della Generazione X”) occupa tutto il lato B coi suoi venti minuti di durata, in un’atmosfera lisergica imbevuta di accelerazioni, frenate, divagazioni, chitarre acide e in backwards, space rock, elettronica, fuzz, riverberi e samples vocali. La band tedesca continua orgogliosamente a gravitare nel sottobosco rock ‘n’ roll europeo con una inscalfibile devozione verso un universo rétro-futuristico fatto di tappeti sonici al sapor di stricnina, frequenze interstellari, psilocibina e funghi magici. Integralisti, ma allo stesso tempo outsiders e protagonisti di un “revisionismo contemporaneo” che li ha portati a forgiare una formula personale che integra una ricerca sonora aggiornata al presente con la rielaborazione di mondi artistici (garage rock, psichedelia, acid rock, fuzz rock, krautrock) che hanno oltre mezzo secolo sul groppone. “We cannot awake” è un viaggio cosmico che esplora le profondità dell’esistenza umana, tra la paura dell’ignoto e lo scorrere inesorabile del tempo che crea un senso di angoscia e pericolo perché, appunto, non ci è rimasto molto tempo. E allora, non sprecatelo ascoltando musicademmmerda, ma godete e diffondete il verbo dei Vibravoid.

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Gli Offesi - Ezotica Hysterica Vol.1

Gli Offesi – Ezotica Hysterica Vol.1

Gli Offesi – Ezotica Hysterica Vol.1: Per una massa sconfinata di spostati che riescono a carpirne, o almeno ad intuirne, le gesta? Eh già perché gli Offesi sono strani, sono strani forte.

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FASTBACKS – FOR WHAT REASON

Mentre la comunità musicale si affanna da giorni a dibattere, sui social network, della reunion degli Oasis (un segreto di Pulcinella durato quindici anni, e comunque ogni commento sui fratelli Gallagher sarebbe superfluo, basta solo citare la definizione che il compianto Nikki Sudden diede di loro: “Thick Mancs who somehow struck luck“) e del nuovo album di Nick Cave (che, tra partecipazioni a imbrillantinate passerelle glamour per l’incoronazione del re in UK e la voglia di fare concerti in Stati guerrafondai e genocidi che andrebbero boicottati, trova anche il tempo per registrare nuova, discutibile, musica) quasi nessuno ha dato risalto e importanza a un graditissimo ritorno sulle scene passato totalmente in sordina: quello dei Fastbacks. Veterani della scena rock ‘n’ roll di Seattle, da sempre fautori di un punk rock imbevuto di melodie e fragranze pop, adorati da Kurt Cobain e tra i veri precursori e prime mover (insieme a U-Men, Skin Yard/Jack Endino, Young Fresh Fellows, i primi Soundgarden, i Malfunkshun, i Melvins dalla vicina Aberdeen, i Girl Trouble di Tacoma, gli Screaming Trees da Ellensburg, i Beat Happening e la lezione della K Records di Olympia, i TAD e i Green River, dalla cui dissoluzione nacquero i Mudhoney) del “Seattle sound” che sarebbe poi esploso a livello globale agli inizi dei Nineties col boom commerciale di Nirvana, Pearl Jam, Alice in Chains e Soundgarden, e che sarebbe stato etichettato dal mainstream come “grunge”. Un percorso che, tra scioglimenti e reunion, va avanti da lontano 1979, anno in cui furono fondati, tra i banchi della high school, dal chitarrista/songwriter Kurt Bloch insieme a Kim Warnick (basso e voce) e Lulu Gargiulo (chitarra e voce) e tantissimi batteristi provati per un breve periodo (tra questi ci sono stati anche Dan Peters dei Mudhoney, Tad Hutchison dei Young Fresh Fellows e un Duff McKagan pre-Guns ‘n’ Roses) con Mike Musburger a essere il membro più costante presente dietro le pelli. Quest’anno i nostri si sono riuniti per registrare e pubblicare il loro settimo lavoro sulla lunga distanza, “For WHAT reason!“, uscito il 28 agosto sulla label di Olympia (WA) No Threes Records, e arrivato a ben venticinque anni di distanza dall’ultimo studio album “The day that didn’t exist“. Registrato da Joe Reineke e prodotto dallo stesso Bloch, il long playing è composto da undici brani fun, loud and proud, caratterizzati da riff energici e armonie catchy, tra l’esuberanza ramonesiana di “The end of the day“, “Come on“, “Nothing to do” e “A new boredom“, la cover dei Seekers/Tom Springfield “I’ll never find another you“, il power pop rinforzato di “So you now“, “In my own way” e “Distant past“, la gioiosa esuberanza di “A quiet night” e “The answer is in gray” e la conclusiva e sorprendentemente lunga e articolata “The world inside“. “Nessun featuring con altri musicisti ospiti famosi e nessun cambio di direzione musicale“, tengono a farci sapere i Fastbacks: del resto, perché farlo quando, dopo quattro decenni, si divertono ancora a suonare la propria musica, a dispetto del tempo che passa (e che li rende inesorabilmente “boomer”, ma anche una tra le pochissime formazioni R’N’R seattleite a essere sopravvissute al ciclone mediatico del “grunge”, pur non essendo mai state parte integrante del carrozzone modaiolo e gossipparo del “movimento”) e il pubblico li apprezza come sempre? La “reason” del titolo, fondamentalmente, sta tutta lì, e “For WHAT reason!” è un disco che rallegra l’anima e ci fa sentire eternamente giovani. It’s good to have you back (and fast)!

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lyon estates

Lyon Estates – La Nuova Storia

I Lyon Estates sono tra le band figlie di quel suono, e dopo un periodo di inattività (il disco precedente risale al 2012), ritornano alla grande con “La Nuova Storia”.

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MELT-BANANA – 3 + 5

“Che cazzo è ‘sta roba?!?!?!?” si chiese meravigliato chi vi scrive, quando ha scoperto dell’esistenza, anni fa, dei giapponesi Melt-Banana, dal 1992 tra i principali agitatori della scena/movimento concettuale “Japanoise”, vale a dire degli autentici terroristi sonori, da Tokyo con furore, fautori di uno schizofrenico sound a base di hardcore ipercinetico, noise rock e frattaglie di musica elettronica ispirata da videogames, anime e fumetti manga. Una delle realtà più originali della scena musicale giapponese, capace di crearsi, attraverso convulsivi live set, una solida fanbase trasversale soprattutto in Gran Bretagna e Stati Uniti (aprendo per band come Melvins, Tool, Mr. Bungle e Napalm Death, prendendo parte ad alcune delle note session per John Peel e conoscendo Steve Albini) attirando appassionati grazie alla loro micidiale miscela ultraveloce che va dal punk all’avanguardia, passando per il noise e l’hardcore/grindcore. Il tutto reso ancora più bizzarro dal fatto che i nostri (da un decennio ridotti a una line up a due membri, senza bassista né batterista, composta dalla fondatrice del progetto e frontwoman Yasuko Onuki in tandem con Ichiro Agata alle chitarre e agli effects) avessero inciso, in passato, anche una bizzarra cover di “Tintarella di luna” della totem della canzone italiana Mina, ovviamente nel loro stile, stravolgendo e brutalizzando il classico della “tigre di Cremona”. L’intento di base è quello di divertirsi e sperimentare destrutturando la forma-canzone “pop”, affidandosi all’istinto e al rifiuto assoluto di fossilizzarsi su uno stile e un genere predefiniti. L’intensità e la lucida follia eclettica dei Melt-Banana, col passare dei decenni, non si è smarrita, anzi, quest’anno ha trovato linfa vitale con l’uscita di un nuovo full length, “3 + 5“, nono lavoro sulla lunga distanza del progetto (arrivato a undici anni di distanza dal precedente long playing, “Fetch“) pubblicato sulla loro label A-zap records. Nove brani in cui i nostri rinnovano la loro formula incendiaria improntata su un approccio di folle “caos ordinato”, in cui le vocals frenetiche della Onuki e le chitarre cyberpunk di Agata (affogate in un’elettronica psicotica) scandiscono un’energia caotica da cui lasciarsi trasportare, un magmatico monolite sonico che trascende le analisi track-by-track. Se non siete avvezzi a sonorità estreme per timpani “resilienti”, questo album non fa per voi, passate oltre. In caso contrario, madness is only a state of mind, e quindi “3 + 5” sarà ben lieto di continuare a farvi andare fuori di cervello.

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UPPLOPPET – ROAD RUNNER

Dissetante e corroborante come una bella birra ghiacciata, scende giù che è un piacere l’high-energy rock ‘n’ roll che schizza fuori da questo “Road runner“, album di debutto – uscito ad aprile di quest’anno su The sign records – degli Upploppet, giovane combo svedese che trae ispirazione sonora da Sonics, MC5, New Bomb Turks e dai colleghi scandinavi Hellacopters, Gluecifer, Backyard Babies, Hives e Turbonegro. Con queste elettriche premesse, il quintetto di stanza a Göteborg (composto dal frontman Christopher “Nev” Svensson, coadiuvato da Fredrik Hedendahl alla chitarra e voce, Albin Esping alla chitarra, Felix Ljunggren al basso e Kristoffer “Kiffe” Olsson alla batteria) bada alla sostanza e in meno di mezz’ora scarica addosso all’ascoltatore un ruspante high-octane R’N’R distillato in dieci brani compatti e coinvolgenti. Il disco è un continuo omaggio al rock ‘n’ roll old school (quello del trentennio che va dalla fine dei Sixties alla fine dei Nineties) con evidenti influenze à la Hellacopters (soprattutto in “Golden eyes“, che sembrerebbe quasi uscita dalla penna di Nicke Andersson, e anche nella rovente opener “State of mind“, in “Bullets” o “Thinking of me“) garage/glam (“I want to love you“, “Ibuprofen“, canzone-farmaco utile magari per far passare le sbronze) trascinante punk rock da pogo selvaggio (“Run like the wind“, “Bombay boogie“) Stones fattoni presi a calci in culo da MC5 e Radio Birdman (“Punk rock lead“) fino alla “falsa partenza” acustica della conclusiva “I came, I saw, I left” che poi deflagra in un hard rock stradaiolo. Quando si tratta di far ruggire le chitarre in un furioso turbinio di sporco rock ‘n’ roll, la Scandinavia/Svezia si fa sempre trovare pronta. Cosa ve ne fate della reunion degli Oasis (o di qualsiasi altra pagliacciata milionaria della rockstar del cazzo di turno) quando potete godere di dischi come “Road runner”? Gli Upploppet sono una piacevole scoperta.

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UNCLE ACID AND THE DEADBEATS – NELL’ORA BLU

Gli Uncle Acid and the Deadbeats sono una band inglese fondata a Cambridge, nel 2009, dal frontman/chitarrista/tastierista Kevin “Uncle Acid” Starrs che, dopo diversi cambi di formazione, da alcuni anni ha ridisegnato la line up del progetto con Vaughn Stokes (chitarra e backing vocals) Justin Smith al basso e Jon Rice alla batteria. I nostri (ispirati, nella scelta del moniker, dal compianto frontman Rusty Day e la sua Uncle Acid and the Permanent Damage Band) nei precedenti cinque studio album pubblicati (più uno dal vivo, uscito l’anno scorso) sono stati fautori di sonorità debitrici dell’heavy rock dei Black Sabbath (coi quali hanno anche girato in tour) a loro volta imparentate con atmosfere doom/stoner mischiate con acid rock e psichedelia (utilizzando strumentazioni vintage) di un immaginario attratto dalla fascinazione per l’occulto e che ha come riferimento ideale la fine dei Sixties, quello degli ideali hippie di pace e amore universali della “Summer of love” dei figli dei fiori repressi nel sangue ad Altamont, nell’eccidio losangelino di Cielo Drive messo in atto dalla setta guidata dal “guru” deviato Charles Manson, e dalla furia proto-metal dei Blue Cheer e la teatrale/depravata furia proto-punk degli Stooges e del primo Alice Cooper. Fatta questa doverosa premessa, dimenticatevela (in parte) perché Starrs e soci, in occasione del loro sesto lavoro sulla lunga distanza, intitolato “Nell’ora blu“, e uscito a maggio di quest’anno su Rise Above Records, hanno deciso di sperimentare con altre sonorità in maniera intelligente, dando sfogo alla loro passione per il cinema, ma soprattutto per le colonne sonore cinematografiche, con una particolare predilezione verso quelle del cinema italiano di genere degli anni Sessanta e Settanta. “Nell’ora blu” presenta, infatti, una tracklist completamente in lingua italiana, ed è praticamente una soundtrack – in parte strumentale, in parte cantata – composta dai nostri per un immaginario film ibrido thriller/giallo/noir/poliziottesco/horror italiano, mai realizzato, della stagione d’oro Sixties/Seventies, o magari ci piace pensare che un giorno, forse, le note di questo atto d’amore dedicato al nostro universo artistico possano davvero ispirare una o più pellicole “revival” a qualche regista. Niente è lasciato al caso e, per rendere il (lungo) disco ancora più credibile, la band (oltre a fantasticare di una sceneggiatura ambientata negli anni Settanta ed elaborare locandine immaginarie) ha abbracciato l’idea di inventare le storie di alcuni degli attori protagonisti di quell’epoca (citati anche sull’artwork: Franco Nero, Edwige Fenech, Giovanni Lombardo Radice, Luc Merenda, Massimo Vanni e altri) che fanno la loro comparsa, in forma di incipit-dialoghi recitati, durante lo scorrere del long playing/film fantasma, che si discosta dai succitati lidi sonici hard/heavy/psych rock per addentrarsi in un labirinto in cui elementi polizieschi, sci-fi, horror, spaghetti western e omaggi al synth-prog. dei maestri nostrani Goblin si incontrano e si scontrano in un concept album cinematico fuori dal tempo e senza smaccati fini commerciali (e, proprio in virtù di ciò, ancora più apprezzabile). Lo space rock di “Il sole sorge sempre” (che non avrebbe sfigurato nella “trilogia della morte” di Lucio Fulci) apre le macabre danze e ci introduce alla figura dell’autoritario Giovanni Scarano (idealmente impersonato da Franco Nero) che è un borghese, rappresentante delle istituzioni, impunito, corrotto e corruttore, che ha le mani in pasta ovunque e ha usato il suo potere come una clava per bastonare i poveri, immiserendo i ceti sociali più deboli della sua communità, mentendo a una stampa compiacente e favorendo l’ascesa della criminalità. Ma la classe operaia non ha più intenzione di restare a guardare e subìre in silenzio le sue angherie nei confronti del popolo, e così l’operaio Claudio Marchetti (idealmente impersonato da Giovanni Lombardo Radice) registra su un nastro, di nascosto, la voce del padrone – che si vanta della sua prepotenza contro la povera gente – e (come si può ascoltare in “Giustizia di strada – lavora fino alla morte“) la fa sentire al caposquadra Roberto Valente (idealmente impersonato da Luc Merenda) che va su tutte le furie ed è la goccia che fa traboccare il vaso, con la fabbrica prossima alla chiusura: Valente non ne può più, ha sete di vendetta (nell’album musicata con un feeling Gobliniano) e, per porre fine alle ingiustizie perpetrate dall’arrogante pezzo grosso, decide di far pagare al capo, una volta per sempre, tutto il dolore causato agli altri, e la soluzione é: eliminare fisicamente Scarano, progettandone l’omicidio insieme al Marchetti, che commissiona il delitto al suo fratello psicopatico Alessandro (idealmente impersonato da Massimo Vanni, che conversa con Claudio e viene istruito sulla trappola da mettere in atto e su come agire in “La bara resterà chiusa“) il quale orchestra una strategia di stalking paranoico ai danni di Scarano, in un crescendo tra telefonate anonime rivolte a lui (“Il chiamante silenzioso“, “Tortura al telefono” e la Gobliniana “Il ritorno del chiamante silenzioso“) alla moglie ignara dei tradimenti del marito (udibile in “Cocktail party“, in cui qualcuno apostrofa lo Scarano come “La vipera“) e foto compromettenti di Scarano in un night club di Roma insieme alla ragazza immagine e amante Lucrezia (idealmente impersonata da Edwige Fenech, con la quale se la spassa nella languida “Il tesoro di Sardegna“). L’ibrido jazz/spaghetti western on steroids di “Pomeriggio di novembre nel parco – Occhi che osservano” e “Solo la morte ti ammanetta” preparano il terreno per il gran finale e ci conducono fino all’ora blu (appena prima dell’alba) della notte in cui si consuma l’uccisione, con Scarano pedinato dal Marchetti all’interno del locale (“Il gatto morto“, dove avvisa il Valente per far partire la telefonata decisiva) e poi attirato con l’inganno fuori dal night club (il Dead Cat, dove troviamo a esibirsi, come house band, proprio i Deadbeats, ma non incontrano i gusti del pubblico e vengono cacciati dal palco…) e trascinando Scarano nella campagna romana dopo una telefonata in cui Valente gli fa credere di essere un uomo d’affari e che entrambi hanno un nemico in comune, vale a dire il misterioso stalker telefonico, e propone a Scarano un’alleanza per eliminarlo (onde evitare che i suoi ricatti rovinino la sua carriera) suggerendogli di raggiungere una cabina telefonica isolata in cui trova ad attendere una borsa piena di soldi (come ricompensa, mentre il Marchetti aveva girato, sul suo tavolo, una busta-bustarella contenente le istruzioni da seguire per arrivare nel luogo prestabilito) e una chiamata con le istruzioni per uccidere il nemico. Scarano, avido di alcool, soldi e potere, abbocca all’amo, lascia il locale in gran fretta (sottolineata dai ritmi funky afro-beat di “Guidando veloce verso la campagna“) e si precipita alla cabina telefonica, mentre un camuffato Alessandro aspetta, nell’ombra, il momento giusto per colpire; l’ora blu arriva, il telefono suona, Scarano risponde e, dopo pochi istanti (mentre il Valente recita in “L’omicidio” versi biblici che fanno riferimento alla “liberazione dai nemici”) viene raggiunto, ammazzato e sepolto (azione sublimata da una superba e Fulciana “Resti umani“) da Alessandro. Ma il mattino seguente, Alessandro è in auto per tornare dal fratello e ascolta alla radio un notiziario che annuncia la morte di Scarano e fornisce indizi precisi sul possibile sospetto assassino, facendolo entrare in paranoia perché teme che possa essere stato seguito/visto da qualcuno, o che i telefoni possano essere stati intercettati. Stordito, alla guida dell’auto, Alessandro viene mortalmente investito da una scarica di pallottole sparate da un uomo (con volto coperto da passamontagna) proveniente da un’altra auto, causando l’uscita di strada del mezzo e un tragico schianto avvolto dalle fiamme (“Sorge anche il sole“). La conclusiva, malinconica “Ritorno all’oscurità” ci svela che il vendicatore è stato vendicato e che l’erba cattiva è dura a morire. L’esperimento è riuscito: siamo certi che, se Ennio Morricone avesse ascoltato “Nell’ora blu”, sarebbe stato fiero degli Uncle Acid.

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Go Go Ponies – Chitarre, carboidrati e …figa piove!

Abbiamo imparato dai social a scandalizzarci per la pizza con l’ananas…troppo facile! Bisogna andare oltre. Tipo quella con i peperoni. Caro americano (o chi per lui), pensi di essere figo con la tua pizza ai peperoni? Cosa ti è saltato in mente? Sei solo un impostore, un’imitazione economica, uno scandalo per noi difensori del carboidrato italico!…almeno questo è ciò che gridano le Go Go Ponies in apertura del loro ultimo EP “TOO POSH TO MOSH”. A circa due anni di distanza dall’abum The Greatest, la band milanese, in una nuova line up all girls, sforna cinque pezzi dove raccolgono l’essenza e l’esperienza maturata dopo l’accoglienza ai loro precedenti lavori e, sopratutto a tanti, tantissimi, live. D’altronde come possono stancarsi di cotanta attività dal vivo se definiscono la loro musica Fit-Metal? Ovvero rock veloce e aggressivo condito di squat e flessioni (oltre un fisico da sturbo) di cui abbonda la frontwoman sul palco! Anche l’outfit lascia che le borchie e le giacche di pelle vengano rimpiazzate da body alla Jane Fonda e fasce tergisudore.  Ma torniamo al lavoro in studio. Se l’amore per i carboidrati affermato in “Pizza Pepperoni”, prima traccia, si era già presentato con “Pasta & Furious” nel precedente album (eat more pasta and go go fasta!), il pezzo successivo fa, volutamente, perdere l’appetito descrivendo un sanguinoso bowling con teste rotolanti, dita nel naso e viscere sparse. Ovviamente si intitola “Bloody Bowling” e cerca di dare un tono Thrash metal alla band che, in realtà, è difficilmente etichettabile ma, con la track “Ambitchius” (anti-influencers), il sound si avvicina al trash classico, tralasciando gli aspetti più divertenti e “punk” che invece danno un tocco originale al gruppo. Ci pensa il basso sincopato quasi funky di “A la visage”  (di cui l’inizio ricorda stranamente NY Excuse dei Soulwax) a riportare le Go Go Ponies là dove sono in grado di far innamorare il pubblico. La strofa per intero recita: à la visage du penis, cioè, alla faccia del cazzo, ma in francese. Anche in questo caso si scagliano contro un personaggio privilegiato generico. In chiusura toccano le alte vette del rock con un high speed-old school “Vince Nails” di cui il ritornello dona il titolo all’EP. Il tutto viene impacchettato nella copertina disegnata da Smokin’ Joe McWilliams, autore dei Garbage Pail Kids, in Italia “Sgorbions” e se non facevate le figurine da piccoli non avete avuto un’infanzia felice! Il sopra scritto  paragrafo è un assist per focalizzare un minimo d’attenzione sul merch della band. Nonostante non sia possibile definire un artista solo dal suo merchandising è pur vero che ne rappresenta una grossa fetta di raccolta economica con cui finanziarsi. Diventa quindi necessario produrre gadget&co che possano catturare l’attenzione tanto quanto la propria musica. In questo, le Go Go Ponies, sono al top. Basta fare un salto sul loro sito per dare un occhio all’originalità, la quantità e la cura del loro merch…o meglio ancora, se le vedete dal vivo, è obbligatorio passare al banchetto per farsi autografare il k-way con scritto “Figa Piove”!!!

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X – SMOKE & FICTION

Dire addio ai fan con un saluto sonico lungo mezz’ora. A tanto infatti ammonta, grosso modo, la durata di “Smoke and fiction“, il canto del cigno degli X, fondamentale combo losangelino, tra i più importanti prime mover della scena punk rock californiana e statunitense, con almeno tre dischi – l’esordio “Los Angeles” e i successivi “Wild gift” e “Under the big black sun” – assurti a classici del genere (tra i tanti gruppi che hanno influenzato, in giro per il mondo, ci sono anche i nostrani Not Moving) che ha annunciato la fine del proprio percorso musicale con l’uscita del suo succitato nono studio album, a cui si sta accompagnando il relativo farewell tour (che, si spera, possa passare anche per l’Italia il prossimo anno). Uscito il 2 agosto su Fat Possum, l’ultimo capitolo dell’ensemble fondato nell’anno di grazia (per il rock ‘n’ roll) 1977 dal bassista/cantante Jon Doe e dal chitarrista Billy Zoom, e da sempre capitanato dalla frontwoman Exene Cervenka (senza dimenticare il batterista D.J. Bonebrake) arriva a quattro anni dall’ottimo comeback “Alphabetland“, piacevolissimo ritorno dopo ventisette anni di silenzio discografico. “Smoke and fiction” non si discosta molto dalle consuete coordinate di robusto e compatto R’N’R proposte dai nostri, rinverdendo un’alchimia sonora ancora ben presente tra i quattro membri e che si manifesta sin dalla frizzante opener “Ruby church“,  che va subito dritta al punto, con le voci combinate di John ed Exene (che, un tempo, sono stati anche partner extramusicali) a dettare tempi e qualità, che prosegue anche nella scattante “Sweet til the bitter end“, mentre i ritmi rallentano leggermente in “The way it is“, arricchita e resa più intrigante dal twang chitarristico dark-country sfoderato da Zoom, solo un piccolo pit stop prima di tornare a giostrare su ritmiche più movimentate con le saltellanti “Flipside“, “Big black X” (pezzo autobiografico che ripercorre i momenti più significativi della storia della band) la title track e la ramonesiana “Struggle“, che si richiamano alle cose migliori del loro passato. Il long playing spara le sue ultime cartucce con “Winding up the time“, solido brano dalle venature chitarristiche quasi surf, gli stop-and-go di “Face in the moon” e la conclusiva, adrenalinica “Baby & all“. E’ davvero un peccato che quest’opera sia da considerarsi il final record degli X perché, a giudicare dall’energia e dalla vitalità sprigionata dai suoi solchi, “Smoke and fiction” non sembra proprio suonare come il full length di una band imbolsita sul punto di mollare la presa, anzi, tutt’altro. Ma il tempo è tiranno, scorre via veloce e non regala nessun elisir di lunga giovinezza, ed Exene, John, Billy e D.J. sono sulle scene da ben quarantasette anni: probabilmente, consapevoli di non esser più dei ragazzini, avranno pensato che sia meglio fermarsi ora, lasciando ancora un bel ricordo negli occhi e nel cuore del pubblico, invece di trascinarsi stancamente ben oltre l’età da (casa di) riposo, sfidando i problemi di salute (e anche il senso del ridicolo) e rischiando di macchiare una seminale epopea – cosa, quest’ultima, che non faranno, da persone intelligenti quali sono – . Niente nostalgia, né lacrime: c’è solo la voglia di dire al mondo che è stato bello finché è durato e che, partiti dai margini, lontani dal marciume sociale-morale che circonda(va) il glamour di facciata e la finta grandeur del circo-star system di Hollywood, si sono poi presi soddisfazioni in giro per il mondo e si sono divertiti per tantissimo tempo. You will be missed. Grazie di tutto!

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ONEIDA – EXPENSIVE AIR

E’ giunto a sfiorare quasi i tre decenni il percorso musicale degli Oneida, combo newyorkese attivo dal 1997 e influenzato dalla psichedelia, dal minimalismo, dal noise rock, dall’elettronica e dal krautrock, tutti elementi miscelati insieme per forgiare un sound ibrido che si potrebbe definire “prog-punk”, caratterizzato da improvvisazione, ritmi reiterati, tanto amore per l’universo analogico, collaborazioni prestigiose (Mike Watt, Flaming Lips, Lou Barlow, Portishead, Yo La Tengo, Godspeed You! Black Emperor) e il gusto per lo sperimentare performance offerte in spazi insoliti per un concerto R’N’R come i depositi di magazzino, i lofts, teatri vuoti, barche, parcheggi, musei e impianti industriali. L’eclettico quintetto di Brooklyn (“Kid Millions” alla batteria e voce; “Bobby Matador” all’organo, chitarra, basso e voce; “Hanoi Jane” alla chitarra e al basso; Barry London ai synths e all’organo; Shahin “Showtime” Motia alla chitarra) ha pubblicato, quest’anno, il suo diciassettesimo studio album ufficiale, “Expensive air“, uscito il mese scorso su Joyful noise recordings, e arrivato due anni dopo la precedente prova sulla lunga distanza “Success“. Il disco è stato registrato nel 2023 e, a detta del gruppo, rappresenta una controparte più oscura e rumorosa rispetto al succitato “Success“, rifinendo e arrangiando gli otto brani della nuova opera con un approccio più veloce, diretto e fracassone, che fa da contraltare alla naturale consuetidine della band nel dilatare la struttura dei brani più lunghi ed elaborati (che in questo nuovo long playing lambiscono il prologo, con l’iniziale “Reason to hide“, sette minuti e mezzo di cavalcata cinematica, e l’epilogo, con gli otto minuti drone-noise atmosferico della conclusiva “Gunboats“). E così i nostri sfornano un pezzo punk rock come “La plage“, una “Stranger” che sembra ricalcare la furia ragionata degli Hüsker Dü di “Zen Arcade“, una “Here it comes” che riprende il muro di suono dei Dinosaur Jr., una “Spill” dall’incedere quasi Melvinsiano, poi fa spuntare una title track dal mood più introspettivo, che flirta con lidi jazz, e una sarabanda rock ‘n’ roll imbastardita da synth e tastiere cacofoniche in “Salt“. I monoliti hanno lasciato (maggiore) spazio a un’urgenza compositiva più vicina al noise/punk che all’art-rock, e “Expensive air” è un altro tassello che gli Oneida – ormai un’istituzione dell’underground – vanno ad aggiungere a un prolifico mosaico, all’insegna della libertà esperessiva, che da sempre promuove un’unione multisfaccettata tra vari mondi sonori in cui convivono pacificamente velleità artistiche/artistoidi, suggestioni krautrock, jam, improvvisazioni strumentali, psichedelia, rumorismo, punk rock in-your-face, dissonanze indie/alternative rock ed echi post-hardcore. Se vi è venuto mal di testa immaginando di far incastrare in maniera sensata tutti gli elementi di questo puzzle sonico, ascoltare questo album e la musica dei nostri potrà essere d’aiuto nel farvi schiarire le idee, e il naufragar vi sarà dolce in questo caos controllato.

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