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Recensioni Rock

Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.

JACK WHITE NO NAME ALBUM

Jack White No name Recensione: nuovo album (il suo sesto complessivo) all’insaputa degli stessi collaboratori-dipendenti che lavorano per lui alla Third Man Records

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THE BEVIS FROND – FOCUS ON NATURE

Nick Saloman è uno di quei musicisti che, a dispetto delle mode e dell’attualità del contesto storico-musicale (e nel fare ciò, per fortuna, è ancora in buona compagnia: Billy Childish, Graham Day, Robyn Hitchcock, Anton Newcombe, Mike Stax, Robert Pollard…) è sempre andato dritto per la sua strada ed è ormai arrivato a quasi quaranta anni di percorso col moniker Bevis Frond, progetto solista (poi diventato band) col quale ha messo in pratica – attraverso una prolifica discografia che, negli Eighties e Nineties, viaggiava al ritmo di uno/due Lp all’anno – il suo desiderio di fondere le sue ispirazioni musicali, prettamente statunitensi (il blues elettrico psichedelico di Jimi Hendrix, il folk/psych/jangle pop dei Byrds il punk rock dei Wipers) in una formula indie/alternative/neopsichedelica dal feeling British, influenzando i colleghi della contemporanea scena “indie rock” d’oltreoceano (Pavement, Dinosaur Jr., Lemonheads) e britannici (Teenage Fanclub) . Quest’anno Saloman/Bevis Frond ha pubblicato “Focus on nature“, ventinovesimo studio album (!) uscito su Fire records e arrivato a tre anni di distanza da “Little eden” (composto e concepito durante il periodo pandemico). “Focus on nature” è un mastodontico comeback strutturato come un doppio album, contenente ben diciannove brani, per una durata di settantacinque minuti (un numero che, implicitamente, porta con sé la richiesta di un ascolto attento e non superficiale dell’opera) in cui, però, non ci sono cali di tensione e la scrittura è di buon livello, a dimostrazione del fatto che il chitarrista/frontman/songwriter inglese (qui coadiuvato da Bari Watts e Paul Simmons alle chitarre, Dave Pearce alla batteria, Louis Wiggett al basso e Debbie Wileman alle harmony vocals) nonostante oltre quattro decadi di attività sul groppone, resta sempre una penna ispirata dal talento brillante. Non un vero e proprio concept album, ma un filo conduttore ricorrente lungo il long playing c’è e tratta (come suggerisce il titolo del full length, del resto) di tematiche ambientali e le preoccupazioni di Saloman sul futuro del nostro pianeta, sempre più minacciato dalle azioni nocive dell’essere umano, tra global warming e rischi di catastrofi apocalittiche: ne abbiamo prova nell’opener “Heat” (nervoso inizio tra saliscendi hendrixiani, che ritroviamo anche in “The hug“) o nello psych-folk della title track e di brani come “Hairstreaks“, “Leb off” e “Happy wings” ma, al di là dell’aspetto lirico, balza all’orecchio il fatto che Saloman si diverta ancora a giostrare e giocare con varie sfaccettature soniche: si pensi all’art-punk asciutto di “God’s gift” e “Jack immortal” e al garage rock muscolare di “Empty“, al pop malinconico di “Vitruvian man“, alla sensibilità psych-pop di “A mirror” e “Here for the other one” (pezzi che non avrebbero sfigurato nel repertorio dei REM) ad armonie paisley underground che farebbero invidia ai Dream Syndicate (“Wrong way round“) divagazioni Floydiane in “Mr. Fred’s disco“, una “Maybe we got it wrong” che sembra uscita dal canzoniere solista di J. Mascis, ballad di struggente bellezza come “Brocadine” e cavalcate rock dal sapore Seventies (“Big black sky“). La conclusione non la facciamo troppo lunga perché, purtroppo, sappiamo già che questo album e Saloman resteranno un culto sonoro per poche migliaia di appassionati, e i Bevis Frond continueranno a essere cagati meno di zero dalle masse, ma lagggente può tranquillamente andare a farsi fottere e a rincoglionirsi spendendo millemila euro/dollari/sterline/allacciascarpa/scarpallaccia/tarapiatapioco/sbiriguda/comesefosseantani per i concerti di Taylor Swift, facciano pure, tanto non sapranno mai che la vera qualità è da ricercare altrove, come ad esempio tra i solchi di “Focus on nature”.

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STREBLA – ANNEGARE

E’ un vero e proprio calcio nei denti questo “Annegare“, secondo album degli Strebla, quartetto di stanza a Bari (Nicola Ditolve alla chitarra e voce; Alessandro Francabandiera al synth e noise box, Ottavia Farchi al basso – ma recentemente sostituita – e Manuel Alboreto alla batteria) attivo dal 2019 (esordendo nel 2021 col full length di debutto “Cemento“) e che definisce la propria proposta sonora “ferocious noise-rock” e, onestamente, non si fa fatica a credergli, dato che il canzoniere dei nostri è composto prevalentemente da brani veloci e compatti che raramente arrivano e/o superano i due minuti di durata, autentici proiettili noise/post-HC forgiati con una “polvere da sparo” sonica ispirata da Wretched, Indigesti, Shellac, Jesus Lizard, Refused e Brainiac (tra gli altri). Registrato in presa diretta a Bari al C.S.O.A. Ex Caserma Liberata, il disco è stato pubblicato nel marzo di quest’anno grazie a una unione di intenti tra varie label e realtà indipendenti (The Ghost Is Clear Records, Vollmer Industries, BAx HCx – Hardcore Punk Against Racism, Rodomonte Dischi, troppistruzzi, unoazero, Controcanti ᴘʀᴏᴅᴜᴢɪᴏɴɪ, Poison Hearts e Fresh Outbreak Records) e in poco più di venti minuti condensano dieci episodi ricolmi di rabbioso disincanto e dissonante amore nevrotico che si riversano sull’ascoltatore e non gli lasciano scampo. Dalla title track (posta in apertura dell’Lp) passando per “Ricatto“, “Gagarin“, “Alberts“, “Vespaio“, “Consumato“, e giù fino ad arrivare alla conclusiva “Quartieri addormentati” (la traccia più elaborata e complessa del lotto che, insieme a “Ore“, alterna sfuriate hardcore/noise a rallentamenti di passo che affondano in paludi sludge) si viene investiti da un’ondata di violenta pesantezza e amara disperazione cosmica vomitataci in faccia da testi e vocals delicati come blocchi di ghisa. Il mondo sta affogando in un mare di merda, e un album come “Annegare” suona come una verosimile fotografia della realtà globale impazzita che ci circonda, con la “razza umana” che non impara mai nulla dai suoi errori e sta condannando un intero pianeta all’autodistruzione, eppure gli Strebla, a modo loro, portano avanti la testimonianza di un tentativo di tenere la barra dritta, nonostante la puzza nauseante dell’antropocene dilagante a tutti i livelli, cercando di ribellarsi allo status quo attraverso le note della loro musica estrema, ostica e ruvida, provando a lasciare un piccolo segno e smuovere le acque all’interno della loro comunità DIY, e il fatto che ciò che accada nel Meridione di questo sghangherato Paese – da sempre più svantaggiato, con meno risorse, meno mentalità e meno strutture a disposizione rispetto al settentrione d’Italia – fa di questi ragazzi persone da lodare, ascoltare e supportare. In fondo, l’amore non muore mai.

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Velocity Girl – UltraCopacetic (Copacetic Remixed and Expanded)

Una ristampa sontuosa per un disco che è uno dei migliori prodotti di un’epoca musicalmente feconda, attiva ed innovativa, sicuramente molto più di quella attuale, ma è un segno dei nostri tempi, e non è solo per la musica, ha vinto la stanchezza, mentre nei novanta si era forse più vivi. Negli anni novanta del novecento ci sono state tantissime correnti musicale, e si può benissimo dire senza aver timore di essere chiamati nostalgici, che vi erano dischi che suonavano, nuovi carnosi e freschi. Alcune opere avevano un suono riconducibile allo sterminato alveo dell’indie, che veniva declinato nei più disparati sottogeneri e in alcuni casi era magia pura, come questo disco dei Velocity Girl intitolato “UltraCopacetic”, qui ristampato, remixato ed in edizione espansa da parte della Sub Pop Records. “UltraCopacetic” uscì nel 1993 e fu uno di quei dischi che abbagliava fin dal primo ascolto, intriso di shoegaze soprattutto nel modo di comporre le canzoni, e con un tiro bellissimo brit pop, il tutto molto indie e con una registrazione clamorosa, che raccoglieva tutta la bellezza e la dolcissima malinconia di questo capolavoro. Nel lavoro possiamo trovare anche frammenti di pop, un pò di psichedelia dolce e sognante, e tantissima classe, ogni traccia è una piccola magia in puro stile anni novanta. L’album di debutto del gruppo nato nel 1989 nell’università del Maryland è qui riproposto dalla Sub Pop Questa edizione aggiornata dell’album presenta,con un nuovo mix approvato dalla band, oltre a un album completo di tracce bonus che raccoglie singoli, outtakes e la Peel Session del 1993t, utta la musica è stata appena masterizzata da Golden Mastering e il pacchetto include ampie note di copertina della band. In questi ultimi anni, percorrendo percorsi di nostalgia discutibili ma che portano entrate indiscusse abbiamo visto ristampe improbabili, senza nerbo se non apertamente inutili di dischi anche notevoli, tentativi di venderci i nostri bei ricordi. Qui è invece tutta un’altra storia, perché il disco viene offerto con un suono mutato, migliorato in un maniera filologica e coerente, per poter apprezzarlo in pieno e in tutto lo suo splendore, che è davvero tanto. La Sub Pop capì da subito le immense potenzialità di questo gruppo, che aveva un suono fortemente e tipicamente anni novanta nella sua accezione migliore e li fece debuttare con “UltraCopacetic”. La voce di Sarah Shannon si sposava perfettamente con le chitarre di Archie Moore e Brian Nelson, la batteria di Jim Spellman e il basso di Kelly Riles, producendo un debutto che centrò subito il bersaglio, e che rimarrà la punta più alta della carriera del gruppo, che terminerà nel 1996, per poi riprendere nel 2002. Una ristampa sontuosa per un disco che è uno dei migliori prodotti di un’epoca musicalmente feconda, attiva ed innovativa, sicuramente molto più di quella attuale, ma è un segno dei nostri tempi, e non è solo per la musica, ha vinto la stanchezza, mentre nei novanta si era forse più vivi. Un’ottima occasione per recuperare e ascoltare in un maniera inedita un gran bel disco.     Velocity Girl – UltraCopacetic (Copacetic Remixed and Expanded) UltraCopacetic (Copacetic Remixed and Expanded) by Velocity Girl

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Dracula Drivers - Reborn

Dracula Drivers – Reborn

Dracula Drivers, che esista un saldo connubio tra il rock’n’roll che amiamo e le pellicole horror – soprattutto quelle d’antan – è cosa assolutamente assodata.

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REDD KROSS – S/T

Uno degli album più gradevoli e interessanti da mettere su per rinfrescare i sensi e l’anima in questa ennesima estate frivola, anonima e insulsamente torrida, questo pantagruelico comeback omonimo dei pesi massimi della scena power pop mondiale, nonché uno dei tesori meglio conservati nello scrigno dell’alternative rock, i losangelini Redd Kross, che non si sono affatto risparmiati e hanno infilato ben diciotto brani in quello che è il loro ottavo long playing complessivo, uscito su In The Red alla fine del mese scorso, e arrivato in un 2024 che segna un traguardo notevole per i fratelli Steven e Jeff McDonald, quello dei quarantacinque anni di esistenza musicale (tra lutti, side projects, pause e reunion) che vengono celebrati anche con la pubblicazione di una nuova biografia e di un rockumentary sul gruppo. I McDonald brothers, infatti, hanno mosso i primi passi nel 1979 (ancora adolescenti, Steve aveva addirittura tredici anni ai tempi dell’uscita del loro primo Ep omonimo!) facendosi le ossa all’interno della scena HC punk californiana (aprendo i concerti per gente come i Black Flag) per poi virare verso un sound più melodico e smussato dei suoi angoli più rozzi e sgraziati, perfezionando una formula che poi avrebbe fatto scuola e ispirato le band della scena indie/alternative statunitense (si sapeva per certo che fossero adorati da Kurt Cobain, passando per i Sonic Youth e fino ad arrivare ai più recenti Lemon Twigs) grazie a dischi come “Neurotica“, “Third Eye” e “Phaseshifter“. “Redd Kross” è un (doppio) Lp prodotto da Josh Klinghoffer (ex chitarrista dei Red Hot Chili Peppers, tra le altre attività) dichiaratamente ispirato ai Beatles (e al mastodontico documentario di Peter Jackson incentrato su di loro, “Get Back“, che ha fornito tanti spunti ai due fratelli) sia nell’artwork, che si richiama – anche se con un colore diverso – a quello del “White Album” dei colossi di Liverpool, sia a livello sonoro, essendo i quattro scarafaggi inglesi, da sempre, tra le influenze principali del combo californiano (insieme al punk rock degli esordi e a un pizzico di glam rock) e che, di fatto, rende quest’opera il “Red album” dei nostri, essendo ogni solco impregnato della lezione dei Beatles (e sempre con un cantato che si avvicina pericolosamente a quello di John Lennon) in tutte le loro varianti: pop/rock (“Terrible band“, “Back of the cave“, “Too good to be true“, “The shaman’s disappearing robe“) freak/merseybeat (“What’s in it for you?“, “I’ll take your word for it“, “Stuff“) psichedelica (“Good times propaganda band“) riletta ed elettricamente shakerata nel consueto stile power pop vigoroso e catchy del duo (come sempre con Jeff alla voce e chitarra e Steven al basso e voce, coadiuvati da Jason Shapiro alla chitarra/voce e, per l’occasione, dal succitato Klinghoffer alla batteria in sostituzione di Dale Crover) per un’ora di durata in cui, però, difficilmente ci si annoia e/o si è assaliti dalla voglia di “skippare” i pezzi: dall’energico singolone apripista “Candy coloured catastrophe” e momenti più duri (“Stunt queen“, “Canción enojada“, “Simple magic“, “Lay down and die“, “Emanuelle insane“) alle ballad anfetaminizzate (“The main attraction“, “Way too happy“, “The witches’ stand“) il piatto è ricco di ottime armonie e chitarre che, a seconda dei casi, sanno ruggire o addolcirsi, col viaggio che si conclude con l’anthemica “Born innocent” che riassume tutta la loro avventura musicale e umana caratterizzata da una attitudine ironica e scanzonata. Badass record, guys!

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No Spoiler Ghosting

No Spoiler Ghosting

No Spoiler Ghosting: il punk sta bene, e pure noi godiamo di discreta salute. Come avrebbero detto i latini: ad maiora.

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NEBULA / BLACK RAINBOWS – IN SEARCH OF THE COSMIC TALE: CROSSING THE GALACTIC PORTAL

Non si è mai abituati a ricevere le brutte notizie, soprattutto quando riguardano personaggi, musicisti e/o band molto amate e stimate della scena rock ‘n’ roll mondiale, e già all’inizio del mese scorso eravamo stati travolti da un evento orrendo quale è stato leggere della morte di Steve Albini. Ma, agli inizi di questo mese, un altro tristissimo avvenimento è arrivato a sconvolgere la nostra comunità: quello della improvvisa e prematura dipartita di Ranch Sironi, giovanissimo bassista degli heavy/psych rockers californiani Nebula, che ci ha lasciati a soli 32 anni in Italia, a Roma, mentre la band era in tour e aveva in programma delle date nel nostro Paese. Una tragedia tremenda, se si considera che, già lo scorso anno, il power trio aveva già dovuto fronteggiare la perdita di un altro bassista, Tom Davies, anch’egli scomparso in giovane età. Una sorta di “maledizione” che può minare gli equilibri e compromettere la stessa sopravvivenza di un gruppo, costretto a fare i conti con un macigno emotivo e una mancanza di alchimia e chimica musicale-umana che, se non si ha le spalle abbastanza larghe, potrebbe anche non essere superata e portare agli scioglimenti. Con la più viva speranza che ciò non accada, e che i losangelini, in qualche modo, riescano ad andare avanti nel proprio percorso, la vita, come la musica, va avanti e oggi è stato pubblicato, dalla label italiana Heavy Psych Sounds, uno split album condiviso proprio tra i Nebula e i romani Black Rainbows, heavy psych/stoner/space ensemble (Gabriele Fiori al songwriting, chitarra e voce, Edoardo “Mancio” Mancini al basso e Filippo Ragazzoni alla batteria) formatosi nel 2005 e con ben nove Lp all’attivo. Questa abbondante mezz’ora di high-energy joint venture dal lungo titolo, “In Search of the Cosmic Tale: Crossing the Galactic Portal” (e dallo splendido artwork a cura di Simon Berndt) presenta tre brani per ciascun combo, coi Nebula che hanno proposto “Acid drop“, “Eye of the storm” e “Ceasar XXXIV“, composte appositamente per l’occasione (e che restano, sfortunatamente, le uniche incisioni in studio con Sironi) con Eddie Glass e soci a confermare la loro consueta formula a base di fuzziness e potenza heavy/hard/pysch rock, non disdegnando divagazioni spacey, mentre i nostrani Black Rainbows hanno inserito tre canzoni (“The secret“, “Thunder lights on the greatest sky” e “Dogs of war“) provenienti dalle sessioni di registrazione del loro ultimo, acclamato full length uscito lo scorso anno, “Superskull“, con un sound fortemente imparentato con lo stoner rock dei Nineties, tra riffoni saturi reiterati e trip space/psych. La fiaccola dell’heavy-psych rock (concedendoci una metafora sportiva, visto che siamo a ridosso dei giochi olimpici) viaggia tra “vecchio” e “nuovo” mondo a colpi di suoni slabbrati e atmosfere distorte, confidando nell’auspicio che queste due band-tedofori proseguano il loro cammino, illuminando il viaggio di un amico andato via troppo presto (rest easy, Ranch!) e tengano accesa la fiamma della passione ancora per tanto tempo.

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