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Recensione : FU MANCHU – THE RETURN OF TOMORROW

Ritorno con il botto per i californiani Fu Manchu, ormai conclamati decani della scena desert/stoner rock mondiale

FU MANCHU – THE RETURN OF TOMORROW

Ritorno con il botto per i californiani Fu Manchu, ormai conclamati decani della scena desert/stoner rock mondiale (solo per fare qualche nome: sotto questo moniker ci è passata gente come l’ex Kyuss Brant Bjork, nonché Ruben Romano e Eddie Glass che, dopo la loro dipartita dalla band, nel 1997, avrebbero poi formato i Nebula) che, a trent’anni esatti dal loro esordio discografico sulla lunga distanza, pubblicano il loro tredicesimo studio album, “The return of tomorrow“, uscito sulla loro label At the dojo records e arrivato a sei anni di distanza dalla precedente prova “Clone of the universe“.

Il quartetto statunitense (da sempre capitanato dal frontman/chitarrista Scott Hill e consolidatosi da oltre un ventennio con Bob Balch alla chitarra, Brad Davis al basso e dal batterista Scott Reeder, da non confondere col noto omonimo bassista ex Kyuss, Unida e altri gruppi) ha strutturato – come ammesso dallo stesso Hill – il disco come un doppio long playing diviso in due tronconi, concependolo secondo la cara vecchia, classica, esperienza old-school dell’ascolto in vinile:

Una prima parte – composta da sette brani – improntata su un heavy rock fuzzato, in cui si tornano a respirare atmosfere Nineties à la “Evil eye” (come nel caso della frizzante opener “Dehumanize“) o “Hell on wheels” (nella dinamitarda “(Time is) pulling you under“) implacabili head-banger da far vorticare il mosh ai concerti (“Loch Ness wrecking machine“) distillati di Led Zeppelin e Black Sabbath di mezzo secolo fa re-immaginandoli nati in California e cresciuti sugli skateboard a rosolarsi sotto il sole rovente, sfatti di allucinogeni e svezzati in sella a choppers e a bordo di muscle cars invece che a letture di Edgar Allan Poe, H.P. Lovecraft e J.R.R. Tolkien sotto i grigi cieli d’Albione (“Hands of the zodiac“, “Haze the hides“, “Roads of the lowly“, “Destroyin’ light“) e una seconda sezione – comprendente i restanti sei pezzi del full length – più elaborata e calibrata su un sound ancora duro e punitivo (“Lifetime waiting“, “Liquify” e la title track) ma lascia anche spazio a momenti più spacey/psichedelici (“Solar baptized“, “What I need” ) che culminano nella conclusiva, strumentale “High tide” che, ancora una volta, chiama in causa l’influenza del Sabba Nero (in particolare di un canovaccio come “Planet caravan“) per cuocere i vostri cervelli e farli fluttuare attraverso trip acidi desertici.

A Orange County il serbatoio resta pieno e il contachilometri non è ancora saturo, e i Fu Manchu, incuranti di quasi quattro decenni di esperienze sul groppone (e del riciclo continuo delle mode, anche nel R’N’R) continuano a sprintare restando fedeli a se stessi.

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