I Ten sono uno dei gruppi hard rock che, nella quasi ventennale carriera, hanno raccolto meno di quello che l’alta qualità della propria musica meritasse.
Guidati da quel genio della melodia che è Gary Hughes i Ten possono vantare, tra il 1996 e il 1999 una triade di lavori straordinari di cui almeno uno da considerarsi un capolavoro.
“The Name Of The Rose”, “The Robe” ed il clamoroso “Spellbound” portarono la band britannica ad un livello qualitativo esagerato: il loro hard rock che, tra le spire del serpente bianco, amalgamava in modo perfetto aor, folk e hard’n’heavy epico, fu per i fans un fresco vento che spazzava via l’umidità stagnante di una scena power che cominciava a tirare la corda.
Purtroppo il poco supporto del pubblico (ricordo un live allo storico Babylonia di Biella, con il mitico Bob Catley di supporto, presenziato da poche decine di fans) ed un fisiologico calo qualitativo, arrivato puntuale dopo l’ancora ottimo “Babylon” del 2000, hanno minato non poco la strada della band che, da allora, viaggia tra alti e (pochi, dir la verità) bassi.
Dal 2001 al 2012 il gruppo britannico ha dato alle stampe cinque full length, fino ad arrivare allo scorso anno e all’uscita dell’ottimo “Albion” che riportava alle sonorità dei primi lavori, confermato da questo bellissimo Isla de Muerta, dal concept piratesco.
Il songwriting della band torna a livelli molto alti e l’album torna a vivere di hard rock raffinato, chorus che entrano in testa al primo ascolto ed una vena epica che, se non è ai livelli delle varie “The Name Of The Rose”, “Arcadia” e “Red”, poco ci manca.
La produzione molto più pulita rispetto ai primi lavori, ed in linea con le ultime uscite fa il resto, consegnandoci un disco bellissimo, coinvolgente ed emozionante, con Hughes che incanta al microfono e l’alternanza tra brani dall’impronta epica ad altri più spudoratamente aor, ci riconsegnano una delle più grandi band hard rock degli ultimi vent’anni.
D’altronde un gruppo che crea una canzone come Intensify non può che essere fuori dal comune, e l’abc del credo musicale di Hughes sta tutto qui: un brano che incanta, strutturato su chitarre ruvide, tastiere da arena rock e il vocalist che impazza con il suo tono dolce e sanguigno.
Non mancano brani dal sapore epico come (ii)Dead Men Tell No Tales, la stupenda The Dragon And Saint George e l’arabeggiante Karnak – The Valley Of The Kings, che tornano a provocare la pelle d’oca agli ascoltatori: Hughes canta come era da un po’ che non si sentiva, e i continui passaggi di consegne tra le tre sei corde (Rosingana, Grocott, Halliwell) e i tasti d’avorio di Darrel Treece-Birch, deliziano e travolgono in un vortice di rock tra eleganza, irruenza e melodie che, questa volta, risultano perfette come ai bei tempi.
Ottimo ritorno per i Ten che, in meno di un anno solare, rialzano la testa alla grande con gli ultimi due lavori e si riprendono lo scettro di sovrani dell’hard rock melodico; certo, manca ancora a mio parere quella vena hard blues che resero molti dei brani di “Spellbound” come la title track, “Inside The Pyramid Of Light” e “The Alchemist” degli autentici capolavori, ma rimane il fatto che Hughes è tornato a scrivere grandi canzoni e tanto basta per rendere Isla de Muerta un acquisto obbligato per chiunque si professi amante dell’hard rock classico. Inimitabili.
Tracklist:
1. (i)Buccaneers (Instrumental)
(ii)Dead Men Tell No Tales
2. Tell Me What To Do
3. Acquiesce
4. This Love
5. The Dragon And Saint George
6. Intensify
7. (i) Karnak (Instrumental)
(ii) The Valley Of The Kings
8. Revolution
9. Angel Of Darkness
10. The Last Pretender
11. We Can Be As One (European Bonus)
Line-up:
Gary Hughes – Voce
Dann Rosingana – Chitarra
Steve Grocott – Chitarra
John Halliwell – Chitarra
Steve Mckenna – Basso
Darrel Treece-Birch – Tastiere
Max Yates – Batteria