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Recensione : THE UNCLAIMED – CREATURE OF THE MAUI LOON

THE UNCLAIMED – CREATURE OF THE MAUI LOON

Non è certo un’impresa facile quella di trattare del nuovo album di una band sapendo che in realtà (e con buona probabilità) potrebbe anche esserne l’ultimo perché, poco tempo prima della sua uscita, essa ha perso il suo frontman, membro fondatore e fulcro principale. C’è il rischio di (s)cadere nella retorica ma, nel caso della recente dipartita di Shelley Ganz (avvenuta appena tre mesi fa) si è trattato davvero un (altro) duro colpo inferto alla scena del rock ‘n’ roll indipendente lontano dai riflettori del mainstream, e in particolare agli amanti del garage punk.

Nati dalla mente e dal cuore di Ganz – da sempre appassionato cultore del garage rock degli anni Sessanta, fervido ascoltatore e adulatore della compilation “Nuggets” e di band come Music Machine, Chocolate Watch Band, Count Five, Standells, Seeds, Electric Prunes, Shadows of Knight e Syndicate of Sound, e, in generale, un amante dei Sixties, dei quali ha cercato per tutta la vita, con cura maniacale, di tenerne in vita la musica, lo spirito, l’attitudine, l’estetica, l’atmosfera, lo stile e l’etica concettuale – gli Unclaimed hanno mosso i primi passi nella loro natia California agli inizi degli Eighties, avendo in testa la sola visione del recupero delle sonorità del garage rock americano pre-1967/Sgt Pepper’s e dando il via alla stagione del neo-garage e del febbrile ritorno, negli States e in Europa, delle sonorità garage rock e psichedeliche degli anni Sessanta, aggiornate e rinvigorite dalla lezione del punk rock, una scena che sarebbe stata chiamata “garage punk” o “garage rock revival”. Una parabola tanto eccitante quanto travagliata, perché l’ensemble losangelino avrebbe potuto fare molto di più ed essere maggiormente prolifico ma, al momento dell’esplosione del revival neo-Sixties, era di fatto già dissolto (e limitato dall’estremo perfezionismo dello stesso Ganz) poi riformato e tornato a pubblicare dischi sotto un altro moniker quando l’onda lunga del movimento si era ritirata, restando per sempre ancorato al ruolo di precursori del Sixties punk, e la cui importanza sarebbe stata riconosciuta solo diversi anni dopo l’uscita dell’Ep “Moxie“/omonimo e del mini-album “Primordial Ooze Flavored“.

Dopo la reunion del 2013, che aveva fruttato un altro Ep, l’ultima testimonianza concreta degli Unclaimed è questo “Creature of the Maui Loon“, full length uscito a metà marzo, praticamente postumo, sulla benemerita label italiana Teen Sound Records/Misty Lane, ormai veterana creatura di Massimo del Pozzo. Un disco che si apre con l’inaspettato garage/bubblegum pop melodico di “The Heart Never Forgets“, un pezzo tra i più melodici mai incisi dal combo di Los Angeles, seguito dal fuzz-beat di “Hunters and gatherers” (tra ritmi primitivi con tanto di “ugh!” e cori pop) ma tutta l’opera è ben messa a fuoco e lo smalto è quello dei giorni migliori, sia nei momenti più leggeri (“Kemosabe“) sia in quelli più energici come nel garage punk DOP di “(Not so good) Queen Bess“, e in “I found a girl” il garage rock classico è venato di inflessioni tiki-surf, mentre la (quasi) title track “Maui Loon” chiude il lato A vinilico con fuzz-beat che omaggia Zakary Thaks e Syndicate Of Sound. “Guitar M’Sheen Gun” apre il lato B con un altro garage revival à la Stems, e un allegro Ganz si mette anche a fischiettare nell’orecchiabile garage/bubblegum pop di “Just Can’t Understand“, e “Calling all girls” è un garage-beat dal piglio grintoso e spensierato. L’intenso beat anthemI’ll Always Cry For You” apre la parte conclusiva dell’Lp affidata al garage/folk di “Y.D. Girl” e a “Attila the hun“, chiaro rimando al vecchio moniker, posto in chiusura quasi a voler chiudere un cerchio lungo quarantacinque anni.

Creature of the Maui Loon” è, a suo modo, un disco di una bellezza struggente, se lo si considera attraverso l’ottica del rimpianto, pensando a quanto (buonissimo) materiale avrebbero potuto ancora regalarci Shelley Ganz e soci, e in ogni caso, al di là dell’aspetto emotivo (in ricordo del suo autore, questo long playing è già entrato di diritto nella lista degli album più suggestivi e importanti ascoltati, nel 2024, da chi vi scrive) rappresenta un eccellente commiato e il testamento sonoro che attesta definitivamente, e a futura memoria di chi vorrà goderne e trarne ispirazione, l’ottima caratura del materiale proposto dai nostri, sempre improntato sulla purezza del sound e di un ideale spazio-temporale (incentrato anche sul look e un immaginario underground di fumetti e B-movies) cristalizzato sulla prima metà degli anni Sessanta (al massimo 1966) ma riletta con un gusto e una maestria scintillanti. Grazie Shelley, (garage) rock in peace.

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