“Li vuoi sentire gli Stooges di Pesaro?”
Un tale invito può suonare beffardo, e suadente allo stesso tempo. Accetto, non troppo convinta, il nastro che riporta solo due diciture scritte a penna: il nome della band su un lato e il titolo del disco sull’altro. Ma mi basta inserire la cassetta nell’unica piastra funzionante dello stereo, perché ogni dubbio svanisca: voce vellutata come il guanto di un killer, lyrics che luccicano affilate come rasoi in una selva lussureggiante di chitarre, illuminata da sinistri lampi d’organo.
E’ l’anno di grazia 2006, e ho appena sfiorato lo schermo al di là del quale si agita e brulica
l’immaginario impenetrabile e ammaliante dei Boohoos, e come la piccola protagonista del film Poltergeist, mi ci siedo davanti, urlando “Loro sono qui!”.
Sono giorni di Moonshiner, che come l’omonimo distillato, mi stordisce e mi manda su di giri, giorni di nostalgia strana, improbabile, per situazioni lontane nel tempo e mai vissute.
In Rete ci sono pochissime informazioni in merito, e ciò contribuisce a rafforzare il mio interesse per questa band: tutto ciò che so è che i cinque vengono dalle Marche, hanno il feticcio della band di Mr Osterberg, vantano devianze glam e psichedeliche, e dai pochi video e foto, che possiedono un’aura oltraggiosa e sensuale, quasi quanto il loro suono.
Passeranno almeno due anni prima che possa ritrovarmi tra le mani l’antologia (198Here comes the Hoo 1986-1987)” con tanto di booklet che riporta quattro articoli firmati Dimauro, Frazzi, Guglielmi e Sorge, che soddisfano, almeno in parte, la mia curiosità.
E’ quindi con un sussulto che nel 2015 apprendo dell’uscita del volume Too much too Boohoos – La leggenda anni ’80 della mia band venuta da Marte, per i tipi della Crac Edizioni. Come si intuisce dal titolo, ne è autore uno dei membri della stessa band, il chitarrista Roberto “the King” Russo, -già fondatore del gruppo punk hardcore i Cani- abile narratore che non si limita a compilare la biografia di una band ma, in una sorta di flusso di coscienza, ne descrive con lucida autocritica e una buona dose di tensione drammatica gli atteggiamenti, le debolezze, gli eccessi e la dedizione a quello che egli definisce The Hoo, presenza-divinità celebrata nell’omonimo anthem, entità che rappresenta il chi, l’elemento trascendentale di coesione tra i cinque componenti, etereo supervisore al processo creativo, dai pirotecnici esordi all’implosione che ha decretato lo scioglimento del gruppo.
Stile immaginifico e ritmo incalzante conferiscono alla lettura la capacità di avvincere di un
romanzo, e come tale va divorato, innamorandosi dei personaggi, che come schizzi a china
affiorano tra le righe, o perdendosi nei ragionamenti iridescenti alla base di un riff.
La narrazione, ricca di riferimenti a poesia, filosofia, letteratura e cinema, è impreziosita da
digressioni sulla genesi dei pezzi, trascritti e tradotti in italiano, contenuti nei singoli album, in cui l’autore si sofferma sulle tecniche, le ispirazioni, i testi; articoli della stampa musicale dell’epoca, discografia, e due appendici strettamente autobiografiche arricchiscono il volume, imprescindibile per i fortunati fan dei tempi, e interessante per chi, come la sottoscritta, scopre gli strabilianti Boohoos a distanza di trent’anni.
Ma quindi, c’è vita su Marte?