“Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino” di Carlo Collodi, edito da Boschi
Pinocchio, il ragazzo che scappa, si lascia abbagliare dagli incanti e crede alle illusioni, è lo stesso che ci prepara alle miserie e alle difficoltà della vita. Romanzo del 1881, tradotto in tutto il mondo.
Potrete leggere passaggi come questi:
• – Che nome gli metterò? (…) Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina.
• (…) il povero Geppetto era condotto senza sua colpa in prigione (…).
• – Canta pure, Grillo mio, come ti pare e piace: ma io so che domani, all’alba, voglio andarmene di qui, perché se rimango, avverrà a me quel che avviene a tutti gli altri ragazzi, vale a dire mi manderanno a scuola, e per amore o per forza mi toccherà di studiare; e io, a dirtela in confidenza, di studiare non ne ho punto voglia e mi diverto di più a correre dietro alle farfalle e a salire su per gli alberi a prendere gli uccellini di nido.
• Il povero Pinocchio corse subito al focolare, dove c’era una padella che bolliva e fece l’atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse dentro, ma la pentola era dipinta sul muro. Figuratevi come restò. (…) Allora si dette a correre per la stanza e a frugare per tutte le cassette e per tutti i ripostigli in cerca di un po’ di pane, magari di un po’ di pan secco, d’un crosterello, d’un osso avanzato al cane, d’un po’ di polenta muffita, d’una lisca di pesce, d’un nocciolo di ciliegia, insomma di qualche cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio nulla. E intanto la fame cresceva, e cresceva sempre: e il povero Pinocchio non aveva altro sollievo che quello di sbadigliare: e faceva degli sbadigli così lunghi, che qualche volta la bocca gli arrivava fino agli orecchi. E dopo avere sbadigliato, sputava: e sentiva che lo stomaco gli andava via. (…) Oh! che brutta malattia che è la fame!
• In questo mondo, fin da bambini, bisogna avvezzarsi abboccati e a saper mangiare di tutto, perché non si sa mai quel che ci può capitare. I casi son tanti!…
• (…) tienlo a mente, non è il vestito bello che fa il signore, ma è piuttosto il vestito pulito.
• – Mi manca l’Abbecedario.
– Hai ragione: ma come si fa per averlo?
– E’ facilissimo: si va da un libraio e lo si compra.
– E i quattrini?…
– Io non ce l’ho.
– Nemmeno io – soggiunse il buon vecchio, facendosi triste.
E Pinocchio, sebbene fosse un ragazzo allegrissimo, si fece triste anche lui: perché la miseria, quando è miseria davvero, la intendo tutti: anche i ragazzi.
• (…) Mangiafuoco chiamò in disparte Pinocchio e gli domandò:
– Come si chiama tuo padre?
– Geppetto.
– E che mestiere fa?
– Il povero.
– Guadagna molto?
– Guadagna tanto, quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca.
• Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito, o sono matti o imbroglioni!
• (…) disse fra sé il burattino rimettendosi in viaggio – come siamo disgraziati noialtri poveri ragazzi. Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci dànno consigli. A lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo di essere i nostri babbi e i nostri maestri; (…).
• (…) arrivarono a una città che aveva nome “Acchiappacitrulli”. Appena entrato in città, Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano dall’appetito, di pecore tosate che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta e senza bargigli, che chiedevano l’elemosina d’un chicco di granoturco, di grosse farfalle, che non potevano più volare, perché avevano venduto le loro bellissime ali colorate, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano di farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne d’oro e d’argento, ormai perdute per sempre. In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra o qualche uccellaccio di rapina.
• Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla (…). Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e finì col chiedere giustizia. Il giudice lo ascoltò con molta benignità: prese vivissima parte al racconto; s’intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello. A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da gendarmi. Allora il giudice, accennando Pinocchio ai gendarmi, disse loro: – Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione. Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i gendarmi, a scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia.
• (…) per istruirsi e per imparare non è mai tardi.
• (…) quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio!…
• Chi ruba il mantello al suo prossimo, per il solito muore senza camicia.
Cos’altro aggiungere? Ha detto Stefano Benni: “Le avventure di Pinocchio, così come Alice nel paese delle meraviglie, è un libro molto scuro e insidioso, nient’affatto consolatorio. Pinocchio è un libro feroce. Quello che accade al protagonista è terrificante. Disney con Pinocchio non ci capì un cazzo.”
Marco Sommariva