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Recensione : :: ACUFENI :: FASTIDI AURICOLARI CONTEMPORANEI #17

Puntata che risente delle recenti uscite della I, Voidhanger Records, che si prende ben tre slot su cinque, grazie a Ærkebrand, Ploughshare e Sleep Paralysis. Gli altri sono a carico della 20 Buck Spin Records ( Tribunal ) e dei Kwoon, che si autoproducono. Noi, intanto siamo un’altra volta alle prese con l’alluvione.

Ærkebrand, Kwoon, Ploughshare, Sleep Paralysis, Tribunal

Puntata che risente delle recenti uscite della I, Voidhanger Records, che si prende ben tre slot su cinque, grazie a Ærkebrand, Ploughshare e Sleep Paralysis. Gli altri sono a carico della 20 Buck Spin Records ( Tribunal ) e dei Kwoon, che si autoproducono. Noi, intanto siamo un’altra volta alle prese con l’alluvione.

Ærkebrand – Hedenfarne Æventyr ( I, Voidhanger Records )

I ragazzi di I, Voidhanger Records non smettono mai di stupire. Ci sarebbe da accendere un mutuo solo per star dietro alle loro uscite. Riescono a scovare autentiche gemme, tutte tra loro diversissime, ma comunque legate ad un’idea di intransigenza sonora totale. Ce ne forniscono l’ennesima prova con “Hedenfarne Æventyr” dei danesi Ærkebrand.

Il disco ha la caratteristica di non lasciare alcun punto di riferimento a cui guardare per provare a orientarsi, e non essere travolti dalla continua ricerca di soluzioni che hanno come obiettivo finale quello di mandare in tilt il cervello di chi ascolta.

Un album psicotico, per malati di mente che necessitano di sensazioni forti, dove i confini perdono ogni significato, e tutto viene anarchicamente riscritto. “Hedenfarne Æventyr” è sicuramente un album di non facile interpretazione e lettura, che richiede una concentrazione e una libertà di pensiero non da tutti. Un album “difficile” ma proprio per questo stimolante, caratterizzato da un componente jazzistica marcata, ma mai autoreferenziale o narcisistica. Nervoso e isterico, ma sempre caldissimo.

Kwoon – Odissey ( autoproduzione )

Kwoon è un progetto che nasce un paio di decadi fa grazie all’intraprendenza di Sandy Lavallart. Nel giro di pochissimo tempo vede la luce il primo contributo ( “Tales and Dream” ) che segna sin da subito il percorso intrapreso. Nel 2009 arriva “When the Flowers were singing” che ne consolida lo status anche a livello internazionale. A distanza di sedici anni ecco, inatteso, il terzo capitolo, autoprodotto.

“Odissey” mostra sin da subito un’incredibile ampiezza lirica, emotivamente intensa e travolgente, che non può non toccarci nel profondo, guardando al nostro lato più introspettivo. Per gli amanti delle etichette possiamo suggerire di catalogarlo alla voce “post rock atmosferico”.

Anche se, a ben guardare, la definizione non rende l’idea della qualità dell’album, che risente, in modo piuttosto evidente, di un gusto retrò verso un approccio psichedelico che ne aumenta esponenzialmente il valore. Mescolando solitudine, nostalgia e ricerca della “bellezza” l’album mostra tutto il suo lato più elegante e delicato pur senza rinunciare all’impatto. La sensazione è che manchi quel dettaglio che avrebbe potuto rendere “Odissey” un album enorme.

Ploughshare – Second Wound ( I, Voidhanger Records )

Gli australiani tentano il colpo grosso e ( molto probabilmente ) vanno a segno. “Second Wound” rappresenta l’evoluzione della loro proposta, portata sì all’eccesso, ma in modo giustamente, e intelligentemente, misurato, senza strafare a tutti i costi, senza dover per forza esagerare. Se l’obiettivo era quello di “andare oltre”, cercando di guardare alla sperimentazione in ambito estremo, abbattendo gli steccati tra un sottogenere e l’altro, non fatichiamo ad affermare che il risultato raggiunto è assolutamente conforme alle attese. L’album mostra una grande intensità.

Pur non essendo immediato. “Second Wound” è un disco “folle” che si rafforza proprio nell’idea che si possa guardare all’assenza di sanità mentale come allo scenario ideale per la sua costruzione. E che è stato edificato intorno alla magia di un basso fretless che fa e disfa in continuazione.

L’album ha una coerenza chiarissima e riconoscibilissima che lo eleva ben al di sopra della media attuale. Cinque brani ( per un’ora circa di durata ) che trasudano sofferenza, e che guardano ad una profondità da cui non si è in grado di percepire la luce. In un mondo ormai sull’orlo del collasso “Second Wound” si incastra alla perfezione, riuscendo a trasmettere quell’odio che si nutre di violenza che coviamo dentro ma che non abbiamo il coraggio di liberare. Cupamente cacofonico, e devastante, merita tutta la vostra attenzione.

Sleep Paralysis – Sleep Paralysis ( I, Voidhanger Records )

“Sleep Paralysis” rappresenta il debutto ( omonimo ) per la più recente incarnazione di Stephen Knapp dei Cerulean. Un concept album che guarda alla notte come catalizzatrice delle paure derivanti dalle nevrosi quotidiane. Paure che assumono le forme più svariate e che si scontrano nel profondo del nostro subconscio.

Ne emerge un disco che trasforma il tutto in realtà, attraverso un autentico incubo sonoro delirante, fatto di momenti in antitesi che esaltano il pathos proprio nelle differenti intensità emotive e sonore che vanno a contrapporsi. Sono, come sempre, le distanze – in questo caso sonore – l’elemento che meglio riesce a rappresentare tutto ciò che ci affascina. “Sleep Paralysis” è un album schizofrenico concepito da una mente altrettanto malata che trasmette il senso di inquietudine della malattia, della paura, del delirio, e lo fa con un’immedesimazione estrema, quasi tangibile.

Un album sugli incubi del sonno non poteva che essere inquietante, come una paralisi notturna, in cui non riesci a prendere fiato, ma percepisci tutto quello che sta accadendo intorno a te. In estrema sintesi un disco che ti assale in continuazione, come le mille voci di una mente schizofrenica.

Tribunal – In Penitence and Ruin ( 20 Buck Spin )

Dopo il debutto del 2023 i canadesi alzano l’asticella della loro proposta con questo “In Penitence and Ruin”, in uscita per 20 Buck Spin.

L’impressione è quella che la band si sia fermata sul più bello, nel momento cioè in cui stava per mettere a segno il colpo grosso. L’album è una killer application che si inceppa proprio quando non dovrebbe, e che ci lascia con l’amaro in bocca per quello che avrebbe potuto essere ma che, purtroppo, non è. Convinti che, al contrario di quello che vi stiamo raccontando noi, l’album riceverà un’accoglienza con tutti gli onori, proprio in funzione di quei dettagli che a noi fanno storcere la bocca. Nel momento in cui il quintetto poteva distaccarsi in modo decisivo dai cliché del doom più scolastico non si è spinto in quella direzione che avrebbe decretato – a nostro avviso – il salto di qualità.

Chiariamoci, l’album è un buonissimo disco, intenso e teatrale, realmente ben fatto. Siamo noi, che non riusciamo più a sopportare il cantato “growl”. Ci siamo cresciuti, l’abbiamo apprezzato, ma, nel frattempo siamo cambiati, abbiamo necessità differenti, e di tutto questo pensiamo di poter fare a meno. I Tribunal si raccontano, e ci portano all’interno del loro rapporto con il dolore.

Lo fanno con un disco che, come un monolite imponente schiaccia ogni nostra speranza, finendo per annientarci e azzerarci. Confidiamo che con il prossimo album, il terzo, riescano a mettere più a fuoco quello che vogliono fare.

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