Dopo una pausa che non ci ha minimamente concesso ristoro, torniamo con un nuovo appuntamento auricolare, il sesto episodio di ::acufeni::
in scaletta questa volta Haunted, i Haxa, Kara Delik, Kiša e Kyoto.
Haunted “Stare At Nothing” (Ripple Music Records)
Gli Haunted sono una realtà su cui possiamo senza dubbio contare nel prossimo futuro.
Il quartetto siciliano arriva al terzo album, quello della consacrazione e della maturità, e lo fa nel miglior modo possibile, andando cioè a segno con un disco che mostra, non solo il grande potenziale della band, ma anche, qualitativamente parlando, una concretezza sonora invidiabile. “Stare at Nothing” è un disco sicuramente “pesante”, che però non risulta mai eccessivo, ridondante.
Un disco, curatissimo, in ogni suo dettaglio, che, come dicevamo poco sopra, sancisce un grosso, e per certi versi, decisivo, passo avanti, che sposta ulteriormente in alto l’asticella per quello che sarà il loro futuro a breve medio termine.
L’album riesce a rendere tangibile il misticismo di un genere che pensavamo avesse ormai declinato ogni sua forma sonora. Quella degli Haunted potrebbe quindi essere vista come la nuova incarnazione di quel doom ormai sezionato e spogliato di ogni suo orpello, che giace nudo davanti ai nostri occhi, in cerca di una rinascita che, a fine ascolto, possiamo considerare davvero possibile. .
i Häxa “Part 2” (Pelagic Records)
Di i Haxa si conosce pochissimo. Sono un duo formato della cantautrice e artista visiva Rebecca Need-Menear (Anavae) e il produttore Peter Miles (Architects, Dodie, Fizz). Tutto il resto è lasciato all’oblio, e al silenzio della rete, che quando vuole, sa essere davvero misteriosa. Da un lato, forse, è meglio così. Tutto quanto resta in secondo piano e ci si concentra esclusivamente sull’ascolto in modo quasi totalitario.
Ed è proprio con questa dedizione che siamo riusciti a fare nostro un album spiazzante come “Part 2”. Sono soltanto quattro brani, ma l’ascolto è realmente coinvolgente che alla fine non siamo nemmeno certi che siano solo quattro e non almeno il doppio. Il risultato è talmente sognante, e travolgente, da cui non si può restare che intimamente affascinati. “Part 2” ha la grande capacità di trascendere il concetto di spazio e di tempo, riuscendo ad accentare ogni nostra sensazione su se stesso.
Le due parti, uscite finora soltanto in digitale, in download gratuito, e le due successive che seguiranno, andando a completare la tetralogia, entro fine anno finiranno (finalmente) su disco grazie alla lungimiranza, e alla capacità di scovare realtà sonore che abbattono i muri tra i generi, della Pelagic Records. L’album nella sua totalità si annuncia come un attraente e ipnotico caleidoscopio, incredibilmente sublime nel suo essere eterogeneo.
Un disco che richiede dedizione totale, e che hai già deciso di riascoltare anche se ancora non è finito. Uno di quegli album che dopo pochi minuti sai perfettamente che tornerai a riascoltare da capo, più di una volta, con la voglia di scoprire ogni dettaglio nascosto. Seducente. Rituale.
Sognante. Senza tempo, senza luogo, senza riferimenti terreni e concreti. Un disco dell’anima che nutre l’anima e all’anima si dedica.
Kara Delik “Singularities I-IV” (autoprodotto)
Possiamo pensare di collocare una realtà plurisfaccettata come quella dei Kara Delik, ensemble berlinese dalla forte influenza anatolica, a metà strada tra il krautrock, la musica sperimentale e quella etnica.
Lì, in quella terra di mezzo senza confini tangibili che la fortissima componente psichedelica della band riesce a dare il meglio di se, andando a cercare – prima – e a creare – poi – un insieme di suoni concreti che, se inizialmente spiazzano e lasciano interdetti, col proseguire dell’ascolto riescono nella non facile impresa di risultare sempre meno “distanti” dalle nostre percezioni, fino alla catarsi, con la completa immersione nelle lande sonore acide di questa raccolta che raduna i quattro EP in 7″ andati sotto il titolo di “Singularities”.
La componente etnica è quella che, alla fine, risulta la più gradevole, la più stimolante, e non può che essere vista come la vera chiave di lettura sonora del disco. È proprio intorno a questo riuscitissimo tentativo di coniugare le origini mediorientali con la concretezza granitica dell’Europa occidentale che il disco trova la propria – forte – dignità artistica.
Un album assolutamente ipnotico, per molti ma non per tutti.
Kiša “Kiša” (Unknown Pleasures Records)
Contravveniamo per una volta alle regole che ci siamo dati nel momento in cui abbiamo sentito la necessità di dare vita a questo spazio, e andiamo a parlare di un album che, cronologicamente parlando, non è possibile catalogare come “acufenico” al 100% essendo uscito nel corso dello scorso anno. Se è vero che le regole sono fatte per essere infrante, quale migliore occasione per andare contro l’ordine costituito che questa.
La colpa è solo nostra, e della nostra bulimia musicale che non ci ha permesso di approfondire come era doveroso fare l’album dei bolognesi Kiša, ensemble che raccoglie una manciata eterogenea tra i più attivi musicisti del capoluogo emiliano.
Ancora una volta Bologna brucia, e lo fa grazie ad un album che da del tu alla malinconia come in pochi hanno saputo fare finora, parlando dritto al cuore di chi ascolta, col proprio carico di sofferenza. “Kiša” è un disco che, forte di un interessante approccio multilinguistico, sposa una pluralità di stili, in modo sublime, senza risultare mai didascalico o scolastico.
Dall’unione di intenti di membri di European Ghost, Letherdrive, Melampus, Ofeliadorme e Bromance nasce un disco che riesce ad essere intensamente oscuro, ma anche ricchissimo di sfumature.
Un disco assolutamente imprescindibile in tetre ed uggiose giornate in cui la necessità di guardarsi dentro provando a cercarsi per davvero è più forte e impellente che mai. Stanze spoglie, sui cui pavimenti sono sparse polaroid in bianco e nero, sgualcite, ricche di appunti presi apparentemente a caso, e poi polvere, tanta, troppa polvere da restare senza fiato – questa la sensazione audiovisiva che ho avuto nel mio primo ascolto di “Kiša”.
Questo il mondo che mi assale e non mi lascia prendere fiato, schiacciandomi. Un mondo che forse non esiste ma che mi piace pensare possibile ogni volta che rimetto il disco da capo.
Se tutto questo non basta, aggiungo che tra i tanti c’è anche Francesca Bono, artista, e donna, verso cui ho un debole che non ho mai nascosto. Superconsigliati.
Kyoto “Limes Limen” (Garden of J Records)
Dischi come questo riportano la bellezza al centro di tutto, annullando e allontanando la noia di ascolti che troppo spesso finiscono per assomigliarsi, suonando come fossero davvero tutti uguali.
Raccontiamo oggi, in chiusura di questo sesto appuntamento con ::acufeni:: , “Limes Limen”, il recente esordio per Kyoto, progetto solista di Roberta Russo, cantautrice, batterista, producer e performer classe 1996, cresciuta fra Monza e Bari.
Il disco è, a nostro avviso, inquadrabile come un riuscito tentativo di guardare “oltre”, che sposa la nostra necessità di trovare qualcosa che possa saziare la mai nascosta voglia di sperimentare nuovi territori. Poco importa se alla fine si tratta di un EP di sole cinque tracce. Ciò che conta davvero è quel senso di completezza che ci resta addosso ad ascolto finito. “Limes Limen” ridefinisce il concetto di “limite” abbattendo ogni barriera, ogni confine tra i generi, riuscendo a creare un ponte totalmente funzionale al raggiungimento dell’estasi sonora.
Elettronica, sì, ma non solo, c’è infatti, ed è forte, il richiamo a soluzioni e suggestioni tradizionali e folkloristiche del meridione, per una liaison artistica che fonde passato e futuro.
Incalzante, opprimente, ma al tempo stesso delicata nel suo essere sfiancante, Kyoto è senza dubbio una di quelle sorprese che permettono di guardare al domani con ritrovato entusiasmo.