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Recensione : ALAN VEGA – INSURRECTION

Continuano le uscite di materiale inedito proveniente dallo scrigno degli archivi musicali di Alan Vega, compianto frontman newyorchese che, tra il pioneristico duo elettronico avanguardistico dei Suicide e il successivo percorso solista, ha avuto un cammino turbolento e prolifico, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, nei quali ha registrato dischi che, un po’ alla volta, sono oggetto di pubblicazione postuma (ricordando che il nostro ci ha lasciati nel luglio 2016). Grazie al certosino lavoro di recupero in cui si sono prodigati Liz Lamere (ex compagna e partner musicale di Alan) e il musicista-produttore Jared Artaud, infatti, diversi album post-mortem di Vega stanno vedendo la luce sotto la sigla “Alan Vega Vault Project“, inaugurata nel 2021 con l’uscita degli Lp “Mutator” e “After Dark” (contenente una session notturna registrata insieme a Ben Vaughn, Barb Dwyer e Palmyra Delran nel 2015 ai Renegade Studios di New York) e quest’anno rimpinguata con l’arrivo un altro full length, “Insurrection“, rilasciato su In The Red Recordings alla fine di maggio.

Da un punto di vista musicalmente filologico, se i brani di “Mutator” erano stati concepiti dal master of minimalism a metà anni Novanta, gli unidici pezzi di “Insurrection” risalgono al periodo 1997/98 (precedente all’album “2007”) e cattura – per dirla con la Lamere – lo spirito delle anime torturate dall’intensa energia conflittuale della New York dell’epoca, segnata da delinquenza, omicidi, odio, fascismo, razzismo e bancarotta morale (problemi e piaghe sociopolitiche di cui oggi è ostaggio buona parte del mondo globalizzato in generale e, in particolare, il mondo occidentale atlantista che adora ciecamente il capitalismo, non accorgendosi, o facendo finta di non vedere/capire, che le sue avide dottrine imperialiste, assetate di denaro e potere, lo stanno facendo sprofondare in un abisso che lo sta portando a scatenare una Terza guerra mondiale contro il sistema multipolare che desidera essere altro e non vuole sottomersi all’arrogante giogo del Leviatano a stelle e strisce che, come una piovra tossica, pretende di comandare sul mondo intero e imporre la propria way of life economica, politica e militare sull’intero globo terracqueo) ma dove, in fondo, si può anche respirare l’atmosfera tumultuosa e creativa di una Grande Mela immersa negli ultimi anni di in un vivo fermento culturale, quello in cui tanti musicisti e artisti riuscivano ancora a creare (e a pagare le bollette e l’affitto per sopravvivere in appartamenti a prezzi ancora umani e accessibili alle masse) prima che “undici settembre” e la gentrificazione forzata, voluta da sindaci-sceriffi e dall’establishment politicante e imprenditoriale, ripulisse la metropoli, fatta diventare a misura d’uomo esclusivamente ricco e benestante, modellata come un enorme parco giochi per miliardari, anestetizzandola, e colpendo soprattutto la scena artistica della NYC più decadente e verace, quella popolata da club e bar di quart’ordine che hanno visto nascere il punk rock, dando i natali a band e musicisti young, loud and snotty che mettevano a soqquadro l’etica e l’estetica dell’industria discografica (valga per tutti l’esempio paradigmatico dell’iconico CBGB sulla Bowery, che ha chiuso i battenti nel 2006 e il cui locale poi è stato trasformato, da un facoltoso stilista, in un lussuoso brand outlet per fighetti viziati figli di papà che non hanno un cazzo da spartire col rock ‘n’ roll).

Il livello qualitativo del disco è alto ed è ancora possibile sentire il marciume dei laidi vicoli newyorchesi rigonfi di “polveri bianche” e puzza di piscio e avvertire quel senso di costante minaccia di cui erano intrise le sonorità oscure e apocalittiche dei Suicide in episodi come l’ipnotica e martellante “Cyanide soul“, in “Invasion” (che sembra essere una versione techno di “Cheree“) o nella lunga e disperata “Murder one” (quasi una “Frankie Teardrop” aggiornata al nuovo millennio) nell’industrial da rave party di “Mercy“, oppure in “Crash” e “Genocide” (mai titolo fu più azzeccato, purtroppo, visto ciò che sta accadendo lungo le sponde orientali del del “nostro” mar Mediterraneo) a corredo di un mood gelido e crudo di cui sono imbevute anche l’iniziale “Sewer” e la conclusiva “Fireballer spirit” (passando per l’electro-noise di “Fireballer fever“) appena mitigato dal synth pop di “Chains“, e nel racconto di questo delirio distopico, a svettare è sempre Alan, il Jim Morrison dei bassifondi di NY, con la sua ugola salmodiante, strepitante, alienata, schizofrenica, animalesca, angosciata e agghiacciante.

Alan Vega è sempre attuale (mai come oggi avremmo bisogno di una insurrezione che svegli le menti assopite e le coscienze dormienti del 99% della popolazione mondiale) e continua a lottare insieme a noi, a modo suo, da antagonista sonoro, e questo album potrebbe essere un’ottima soundtrack barricadera da far risuonare nell’aria per ritentare un assalto al cielo.

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