E pensare che la prima volta che ho sentito un loro disco, un oscuro bootleg registrato al “Paradisio” di Amsterdam, ho osato liquidarli con uno sdegnato: “Mi sa di già sentito”. Seppellii il confuso dischetto tutto blues e psicosi sotto i cumuli di cd di hardcore californiano, di punk inglese ’77 e -ahimè- di crossover senz’anima.
Ero giovane, inesperta, e mi prendevo eccessivamente sul serio.
Poi, un bel giorno, l’ossessione è deflagrata in tutta la sua (pre)potenza. Una specie di ectoplasma in tuta di lattice dallo sguardo spiritato che si contorceva blaterando di lupi mannari adolescenti e bulbi oculari fluttuanti, accompagnato dalla chitarra di una dea del sesso imbronciata dalla fulva chioma. Quella coppia, in un’atmosfera da luna park degli orrori, da palude fumigante infestata da forme aliene, location ideale del peggior capolavoro di Ed Wood, si trascinava dietro tutto l’immaginario deviato e ambiguo che mi aveva sempre affascinato; le chitarre distorte fungevano da pretesto per quelle storie terrificanti, spesso metafore di disagio mentale e alienazione reali, infettando il rock ‘n’roll anni ’50 di perversioni e feticismi da ostentare, saliva, spasmi sessuali e onde radioattive.
Al culmine della tempesta ormonale che sancisce il passaggio all’età adulta, una sinistra luce verde si accese nel mio cervello, a rischiarare la nebbia dei miei sedici anni, e non si è ancora spenta. I Cramps sono stati per me gli sciamani, gli stregoni scalcinati e poco credibili, celebranti di quel rito di iniziazione in pieno stile woodoo bianco che mi ha introdotto al culto del suono più becero, selvaggio e maleducato “ever”.
Potrei scrivere ore di come non si siano inventati niente, e abbiano creato un universo. Di come abbiano fatto della citazione una forma d’arte, e delle varie ispirazioni contenute nei loro pezzi, ma rischierei di trasformare questo, che vuole essere un semplice tributo a Lux Interior nel secondo anniversario della scomparsa, in un mini-saggio, e lascio ad altri, più efficienti e meno passionali di me, il compito di ripercorrere con una lunga lista di date e nomi di dischi la storia professionale di questa band. La personalità di questi due figuri, a prescindere dall’operato, e il loro sodalizio artistico e sentimentale, ecco cosa mi ha davvero colpito. Lei, sul palco, splendida creatura russmeyeriana che suona inguainata in una minigonna vertiginosa, con stampata in viso un’espressione serissima e quasi stizzita. Lui che ancheggia felino, muscoli e nervi tesi intrappolati in una seconda pelle di PVC nero, si arrampica sulle torri di ampli, cerca di scoparsi le assi del palco per poi erompere in vocalizzi satanici mentre tenta di ingoiare il microfono. Lui che beve alcool scadente da una decollete della moglie; lui in perizoma maculato, esangue e madido di sudore che si rotola tra i rifiuti, vero uomo monnezza all’apice di un orgasmo delirante, dio mostro di un cosmo di celluloide, “bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio” per citare il movimento surrealista, a cui lui, Surrealista Postremo, spesso attingeva.
Primitivo e conturbante, è stato diverse volte protagonista indiscusso dei miei migliori incubi.
Ma due anni fa Garbageman, è stato risucchiato dal vortice che lo ha restituito alla sua dimensione “altra”. La Mosca Umana se n’è volata via, a spiaccicarsi sulla pellicola di uno di quei b-movie che lui amava tanto e puntualmente omaggiava. Niente più urla demoniache, né ammiccamenti degni di una diva hollywoodiana, il cuore della creatura della laguna di pelle nera si è fermato, e noi, inquieti notturni, abbiamo perso un cantore. Posso quasi indovinare il dispetto di Lux Interior, lui che inneggiava a Jane Mansfield arrostita nelle lamiere contorte della sua auto in fiamme, stroncato da un anonimo e poco eroico infarto, come un pensionato delle poste qualsiasi. Posso immaginarmi la disdetta, non è un decesso molto rock‘n’roll. Ma non è forse morto in questo modo anche Ron Asheton? Scherzetto dell’apocalisse imminente. Ormai la gente comune muore di eccessi, le stelle del rock’n’roll defungono banalmente.
E la maliarda Poison Ivy? sola ormai, scesa dai suoi tacchi a stiletto, ha perso il suo complice, il suo compagno d’avventura. Una tristissima “Lonesome Town” risuona come addio per Lux Interior, mirabile esempio di esperimento malriuscito, come non ve ne saranno altri.
IN LOVING MEMORY
LUX INTERIOR (21/10/1946 – 4/2/2009)