La cosa brutta di quando leggi un testo tradotto da una lingua diversa dalla tua è che ti perdi tutta le sfumature di senso dello scritto, intrinseche alla lingua dell’autore. I ghirigori, le minuzie, le meticolosità della penna possono essere appiattiti dalla traduzione, essere filtrati e giungere ai nostri occhi sotto una forma più semplice, contenutisticamente uguale, ma esteticamente più scarna. E questo anche contro ogni volontà del traduttore: se l’aderenza tra sfumature di senso non c’è, non la si può inventare.
Di contro, ed esattamente per gli stessi motivi, la cosa bella di leggere un testo nella tua lingua è sapere che quello che c’è scritto è esattamente quello che l’autore (e/o il suo editor) hanno scelto per te, con tutti gli orpelli del caso. Questo non accade sempre. Molti scrittori usano un linguaggio di tutti i giorni, semplice e immediato, anche questo un pregio di tutto rispetto anche se per altri motivi. Ci sono autori invece che oltre a essere efficaci in quello che scrivono, fanno della lingua uno sfoggio non consueto.
Lo stesso accade su Ambrose, l’ultimo romanzo di Fabio Carta, pubblicato lo scorso anno da Scatole Parlanti, appartenente al genere della fantascienza, al sotto-genere del cyberpunk (anche se con evidenti ricadute nella space-opera), ma soprattutto un gran libro.
Ambrose narra uno spaccato della vita di CA, un Controllore Ausiliario in una non meglio specificata guerra santa del futuro, ambientata nello spazio profondo, ma con ripercussioni, ovviamente, sulla Terra. Una guerra di trincea e spaziale allo stesso tempo, perché l’uomo, si sa, è uso a darsi confini anche dove non ce ne possono essere. E soprattutto, una guerra santa, con tutto le fanaticherie che il caso comporta. Controllore Ausiliario, figlio, o meglio ancora clone, di un gruppo mistico-scientifico-religioso che annuncia la creazione di una vera e propria divinità computazionale, malato di cancro, succube di personaggi famosi che giocano a fare la guerra (facendola realmente), ma utilizzando il corpo dei telepiloti come CA, e soprattutto capro espiatorio dell’azienda che c’è dietro a queste missioni spaziali. CA è infatti un po’ un Malaussene dello spazio.
“Sì, sono un capro espiatorio di fatto, questo nell’eventualità vengano intentate all’azienda cause di rimborso o si avviino controversie legali scaturite da fallimenti e negligenze in azione, sia nei casi di responsabilità direttamente riconducibile a me che… in tutti gli altri […] È per questo che temo più un richiamo del Sovrintendente che il più feroce islamista in battaglia. Sono la vittima perfetta del perfetto abuso, io”.
Un altro elemento di spicco del romanzo è sicuramente il fatto che per la maggior parte del tempo CA ha un dialogo con se stesso; anzi, meglio, con due se stessi diversi. Uno è il suo clone di fatto, lasciato sulla Terra a consolare la povera vecchia madre rimasta sola mentre lui è al fronte, in due parole: uno stronzo. L’altro è una sorta di coscienza emersa dalle metastasi che ha nel cervello, una voce che però pare saperne più di lui stesso, filosoficamente e non solo.
Oh, il cervello! Il sublime, nobile principe a cui spetta il compito di elevarci dalla nostra bruta fisicità, l’organo con cui pensiamo di pensare. Distingue l’uomo che si accontenta di “essere” qualcosa da quello che desidera “fare” qualcosa.
Sarà proprio grazie al costante dialogo con questo suo alter-ego che il protagonista crescerà, prenderà consapevolezza di sé e del suo ruolo e farà le scelte che porteranno all’epilogo del romanzo in una sorta di Faust post-moderno e carico di tonalità cyber e abbacinanti.
Un romanzo profondamente e ironicamente psicologico, ma anche un romanzo di guerra, con qualche sprazzo di azione che non diviene mai ammorbante, sebbene talvolta la tecnologia futuristica presentata è troppo dettagliata. Anche questo fa parte del gioco e Carta si ferma appena un secondo prima che il lettore si annoi (è una qualità anche questa!). È bellissima infatti la descrizione del momento in cui CA scende nel campo di battaglia, la goffaggine con la quale la affronta. Non mancano neanche le frasi storiche, un po’ Clint Eastwoodiane: “Una volta mi hai detto che, come spazionoide, hai visto molte più vite salvate dall’empirismo scientifico che dalla metafisica delle preghiere. Ebbene, ritengo che ora dovresti pregare”.
In generale, quindi, un’ottima prova. Una trama semplice e intelligente supportata da una scrittura solida ed esemplare, che cattura il lettore e lo immerge nel rapporto costante di un io con la sua coscienza, svelando l’interiorità di un protagonista che non è un eroe e non lo sarà mai, probabilmente come non lo sarà ciascuno di noi.
“La coscienza, solo lei poteva… la coscienza, la tua coscienza, o vivente, è la causa del collasso”.