Ricorre oggi la XXV Giornata Mondiale dell’Alzheimer, e per questo motivo ho deciso di recensirvi l’interessante libro edito da Cortina (collana Scienza e Idee) dal titolo La mente fragile. L’enigma dell’Alzheimer.
L’autore del libro, Arnaldo Benini, è professore emerito di Neurochirurgia e neurologia presso l’Università di Zurigo. Collabora con la pagina scientifica de Il Sole 24 Ore, ed è da anni impegnato nella divulgazione scientifica delle neuropatologie.
Il libro, sebbene contenga termini tecnici, è di semplice lettura e adatto a qualsiasi tipo di pubblico. Racconta la storia della ricerca sulla sindrome di Alzheimer, le vie incerte che essa ha preso, spiega lo stato attuale dell’arte, ma soprattutto chiarisce il dibattito etico che da anni tale sindrome ha fatto scaturire.
Ciò che emerge chiaramente sin dalle prime pagine del testo, e che l’autore tiene a rimarcare con forza, è che quella di Alzheimer non è una malattia, ma, appunto, una sindrome. Che differenza c’è? In buona sostanza, una malattia ha solitamente una causa diretta, ambientale o genetica che sia, mentre una sindrome ha più concause e può dipendere da fattori anche molto differenti tra loro.
La conseguenza di ciò è che, di fatto, non esistono rimedi definitivi per la demenza che, in questa fattispecie, emerge in età piuttosto avanzata.
La mancanza di rimedi è dovuta anche a un fattore piuttosto semplice: la normalità del processo di invecchiamento.
L’invecchiamento anche se ci è familiare perché lo vediamo nel prossimo e lo viviamo in noi stessi, è uno degli eventi più misteriosi della biologia degli esseri pluricellulari, e l’invecchiamento del cervello lo è al massimo grado.
Inoltre, il fatto che il territorio su cui operare sia terribilmente vicino al punto di morte, rende la questione piuttosto delicata. I capitoli finali del libro infatti affrontano il problema dell’eticità di una prevenzione specifica impossibile e della somministrazione di cure che nel tempo sono si sono rivelate del tutto utili. Se non esiste una causa definitiva della sindrome, si chiede lo scienziato, ha senso fare esami che porterebbero una fetta della popolazione a preoccuparsi in anticipo di un qualcosa che forse non porterà ad alcun problema cognitivo?
Il tipo di prevenzione utile, afferma l’autore, non è quello che riguarda direttamente la sindrome (se essa potrà insorgere o meno), ma quello che riguarda la qualità della vita di tutti i giorni. In un certo senso, l’attacco preventivo che l’individuo deve indirizzare alle concause che collaborano al decadimento cognitivo, non è altro che quello che ogni essere umano di buon senso applicherebbe alla sua vita per viverla al meglio: una buona dieta, l’astenersi dal bere e dal fumare, mantenere l’attività intellettiva attiva. Tutta roba noiosa, insomma, ma in definitiva, efficace. Infatti scrive l’autore ironicamente:
È verosimile che la diminuzione registrata fin qui sia dovuta prevalentemente all’osservanza di alcune elementari regole di vita e di alimentazione, soprattutto da parte di persone culturalmente attrezzate. Quindi, niente di particolarmente arduo; solo disciplina, che è, comunque, uno degli aspetti più difficili della vita.
Quando ormai però la demenza è in atto, le uniche misure terapeutiche che si sono rilevate in qualche modo efficace sono quelle palliative. L’autore parla di ricoveri in centri specializzati (hospices), che abbiano una particolare attenzione per il singolo paziente e per le attività collettive, cercando allo stesso tempo di non ghettizzare gli abitanti di questo mondo quasi avulso da quello reale. La condivisione di uno spazio e di un tempo personali, all’interno di una residenza o anche di un viaggio, per quanto virtuale, hanno dato risultati insperati anche dalle più grandi case farmaceutiche che avevano scommesso su terapie rivelatesi alla fine dei conti inutili.
Siamo una civiltà pronta per progetti sanitari tanto avanguardistici? Oggi è un buon giorno per parlarne.