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Confessioni di una maschera

Confessioni di una maschera – nel momento in cui siamo costretti a crearci una falsa personalità per rispondere ad esigenze di inclusione sociale e nascondiamo quelli che sono i nostri reali sentimenti non possiamo che dirci complici e partecipi di una mascherata. questa rubrica è per chi sente la necessità di togliersi la maschera e mostrarsi per quello che è realmente.

Confessioni di una maschera – il mediterraneo è un lago, e io voglio vivere sull’altra sponda, quella meno nobile

::confessioni di una maschera:: “il mediterraneo è un lago, e io voglio vivere sull’altra sponda, quella meno nobile” maggio MMXXIV Penso di essere giunto a un punto di svolta improcrastinabile. Continuare a lavorare in sanità, in italia (scritto volutamente minuscolo), nel duemilaventiquattro, non è più sostenibile. La deriva che abbiamo preso sta mettendoci con le spalle al muro. L’idea che si stia andando verso un sistema prevalentemente privatistico, sulla falsa riga di quello statunitense, è un qualcosa che ritengo impossibile da accettare. Per tutti coloro che ancora non ne se fossero accorti, stiamo viaggiando a vele spiegate verso la privatizzazione della Sanità Pubblica, e, come sempre, è il Nord, quel cazzo di Nord che produce (consuma e crepa), che forte di questa sua aumentata autostima pensa di poter, anzi di dover dare l’indirizzo da seguire al resto del paese, erigendosi a esempio virtuoso. In questa nostra corsa a rotta di collo verso l’ignoto che sta assumendo le forme del peggiore incubo, credo che l’unica possibilità per non andarsi a schiantare sia quella di scendere dal treno indirizzato verso la modernità, e fare il percorso inverso. Lasciar perdere il Nord e la sua folle idea di sanità, e guardare al Sud, all’antitesi per eccellenza, per un ritorno, e una riscoperta delle nostre origini, di tutto quello che c’era prima, e che abbiamo dimenticato in un clic. Se, davvero, voglio restare ancorato a questo mio lavoro che, tra le altre cose è anche l’unico che so fare, non ha più alcun senso restare qui e accettare, più o meno passivamente, sia come singolo, che come categoria, questo ennesimo (e forse decisivo) flirt con un modello di sviluppo che mi ostino a non accettare. Ciò che ci propongono come “il migliore dei mondi possibili” è un appuntamento con la morte (quella interiore) che sento di dover rimandare ancora. Quale l’alternativa? Andare a fare l’unica cosa che so fare, laddove ancora abbia un senso darsi agli altri. Dove si possa parlare di soddisfazione, dove la gratificazione sia tutto tranne che economica, perché, se c’è una cosa che ho sempre avuto ben chiaro, e che non ho mai nascosto (prima di tutto a me stesso), è il grande insegnamento dei miei primi trenta anni in sanità. E cioè che la retribuzione mensile sia, tra le tante, la gratificazione meno ambita. Ma non c’è solo questo. Non posso non essere sdegnato dalla deriva sociale che abbiamo intrapreso. Tutto questo proliferare di dinamiche fintamente “politicamente scorrette”, sottintendono un razzismo sottotraccia che lavora e si insinua a tutti i livelli, sul modello di quel fascismo “per bene, di facciata” di cui parlavo nei mesi scorsi. Ho assistito anche di recente al ripetersi di episodi spiacevoli che hanno evidenziato la tendenza a guardare agli “altri” con disprezzo, in modo subdolo, e quindi per me ancor più inaccettabile, proprio perché fatto senza il coraggio di chi difende le proprie idee. Non ho avuto problemi a denunciare l’accaduto ai vertici del mio presidio sanitario, e non ne avrò in futuro. Per me perseverare con l’idea che la rimozione del politicamente corretto, equivalga a sdoganare qualsiasi tipo di nefandezze è inaccettabile, soprattutto se viene da un medico, come è capitato a me. Per assurdo, alla fine, in frangenti come questo, chi finisce per avere la peggio passando dalla parte del torto, è chi come me denuncia, e urla la propria rabbia. Perché alla fine chi ha torto non è chi discrimina per ragioni etniche, ma chi alza la voce per stroncare questi atteggiamenti. Se io non posso sentirmi libero di gridare il mio schifo in faccia a un razzista, non perdo tempo in discorsi inutili, mi levo dal cazzo. In un mondo che tollera questo tipo di atteggiamento non c’è spazio per me. Continuo a dirlo, e non mi stancherò mai di farlo, il silenzio è complicità. Questi sono atteggiamenti che vanno stroncati sul nascere, sempre, e in modo deciso, senza tolleranza. A qualunque costo. Indipendentemente dalle conseguenze a cui finiremo per andare incontro. La libertà e il rispetto non sono negoziabili, soprattutto se riguardano persone che hanno lasciato il loro paese, hanno attraversato il Mediterraneo, e si sono rivolti a noi sanitari nel momento del bisogno, quando la salute ha per loro incontrato un problema non risolvibile in autonomia. Io non ho paura di lottare per queste persone, così come non ho paura di quello che potrà accadermi nel momento in cui mando in culo un medico razzista che reitera i suoi atteggiamenti discriminatori. Al contrario, ho paura nel momento in cui non agisco in questo modo, nel momento in cui mi accorgo che tutto questo è diventato la quotidianità, che abbiamo smesso di indignarci, nel momento in cui non prendo le parti dei meno fortunati. È qui, quando perdo la voglia di lottare, che rischio di trasformarmi in quello che ho sempre cercato di combattere. Non ho problemi a urlare il mio schifo in faccia a queste persone, e non mi importa la scala gerarchica. La mia etica non è quella del regolamento interno, dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche, ma quella di tutti coloro che vogliono restare vivi in un mondo di morti che camminano. E qualora questo non (mi) fosse possibile, non ho problemi. Prendo le mie cose, e (me ne) vado laddove posso finalmente tornare a respirare serenità. Non sento la necessità di dover lasciare mosso da compassione verso queste persone. Se vado è perché ho voglia di ridare dignità a chi l’ha persa, di dare concretezza a chi ha messo da parte la speranza, per aiutare a riorganizzare le forze e razionalizzare le risorse. Anche perché abbiamo troppo velocemente scordato che sull’altra sponda del Mediterraneo le risorse abbondano, ma finiscono per essere ostaggio prima e vittime poi di una disorganizzazione che non può non spingere alla fuga. Non è un mistero (per chi ha la faccia tosta di mantenere gli occhi aperti) che laggiù gli operatori sanitari di qualunque livello e competenza, sono costretti ad abbandonare le proprie terre per una carenza strutturale endemica, che castra sul nascere il futuro. C’è un surplus di domanda di lavoro che si scontra con l’impossibilità di assunzione per carenze economiche. In altre parole “ti assumo ma devi lavorare gratis perché non ho i soldi per pagarti.” Ma non prima di aver almeno provato a ricalibrare il quadro delle priorità e dell’etica, riportando al centro dell’attenzione la dignità e il rispetto per le persone, per i loro valori, religiosi e culturali. Proprio per questo sento ancora più forte la mia necessità di andare a cercare la bellezza nelle “distanze” e nelle “diversità”, in quella contaminazione che ritengo alla base di tutto quello che accade su questo disastrato pianeta. Parliamo di persone che si trovano ad affrontare problematiche che sono risibili rispetto a quelle che si sono messe alle spalle, vittime di guerre, carestie, catastrofi naturali, e non ultimo della fame. Una comunità che metta da parte tutto questo nel momento in cui approccia un altro essere umano non è degna di esistere. Non riesco a capire come sia possibile oggi non capire che serve un rinnovamento, un cambiamento culturale che coinvolga ognuno di noi, in modo concreto, definito e standardizzato. È finito il tempo dei ragionamenti di pancia e dell’improvvisazione. È una sfida che però ha una sua non meno importante componente che guarda al lato pratico delle cose, alla concretezza. Un percorso che non potrà essere che lungo e difficoltoso, ma che soprattutto non è più rimandabile. Non so se riusciremo a salvare il Sistema Sanitario Nazionale, ma so che per farlo non possiamo prescindere dall’aumento delle risorse, con conseguente aumento non solo delle retribuzioni, ma anche del numero degli assunti, della possibilità di accedere agli aggiornamenti gratuiti per tutti, e via dicendo. In tutto questo è impensabile che siano ancora i presidenti delle regioni le figure deputate a queste decisioni. Presidenti che non hanno alcuna esperienza sul campo, e che guardano ai bilanci ancor prima che alla salute. Presidenti che sono troppo spesso espressione di una visione partitocratica della cosa pubblica. Si torna sempre al solito vecchio errore che ha messo in moto tutto quanto. Il passaggio da Unità Sanitarie Locali ad Aziende Sanitarie Locali, in onore a sua maestà il denaro. Ne consegue l’ovvietà, e cioè che un Sistema Sanitario Nazionale di stampo privatistico non può prescindere dal guardare agli azionisti e alle loro necessità, ancor prima – o anziché – delle necessità della popolazione malata. Il privato, anziché tendere alla prevenzione per ridurre la spesa, non può che guardare all’aumento delle prestazioni, e conseguentemente del fatturato. I cittadini contano solo se sono malati, in grado di produrre profitto. Per cui possiamo ammalarci ma solo di alcune patologie. Di questo passo, soprattutto se dovessimo davvero andare verso l’autonomia differenziata a livello regionale, le disparità non potranno che aumentare, determinando un’ulteriore forbice nelle condizioni di accesso al diritto alla salute. L’idea di guardare alla sanità come a un “mercato retto dalla libera concorrenza” è folle. La salute non si commercia, questo dovrebbe essere chiaro. Ma a ben guardare, visto quello

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Confessioni di una maschera “580” Febbraio MMXXIV

Recentemente ho scelto di portare sulle pagine di Libroguerriero “La vita di chi resta”, il romanzo di Matteo B. Bianchi dedicato a chi si ritrova catapultato in quell’inferno terreno conseguente al suicidio di una persona cara. Nonostante l’argomento mi tocchi molto da vicino, non ho pensato nemmeno per un istante alla possibilità di chiedere a qualcun altro della redazione di farlo al mio posto. Non ci si libera del dolore di queste dinamiche mettendo la testa sotto la sabbia, fingendo che non sia toccato a noi, illudendoci che riempiendo la nostra vita di mille altre cose, si possa dimenticare la sofferenza. Finiremmo per fare come chi colleziona acciacchi immaginari, pur essendo sanissimo, convinto che questo possa in qualche modo proteggerlo dalle malattie reali. L’oblio non serve a nulla. Nella mia vita, priva, o quasi, di certezze, uno dei pochi punti fermi è rappresentato dall’impossibilità – e dall’inutilità – di evitare il confronto con il passato, ostentando sicurezze irreali. Esacerbare il dolore può, razionalmente, non essere la via maestra per venire a patti con la vita. Ma è senza ombra di dubbio il modo migliore per iniziare a conviverci. Fingere che non sia toccato a noi, o semplicemente allontanarne il ricordo, possono, nell’immediato, farci star meglio, ma alla lunga dovremo esser pronti a fare i conti con noi stessi. Come dice anche Bianchi nel suo romanzo, questo è un dolore da cui non è semplice affrancarsi. Affermazione incontrovertibile, cui però sento di dover aggiungere che ce lo porteremo dietro per sempre, e, anche quando penseremo di essere riusciti a metterlo in quell’angolo del cuore più nascosto, in cui può farci meno male, ce lo ritroveremo davanti, forte e fiero come se fosse successo tutto il giorno prima, e il tempo passato non fosse mai esistito. Il suicidio non è un dolore qualunque. È un qualcosa che uccide sia chi lo mette in atto che chi resta. È uno spartiacque nelle nostre vite, e che sancisce, in modo inappellabile, che non saremo mai più quelli di prima. Quello che ero un tempo non esiste più, è morto in quel sabato di settembre del duemiladiciannove, e non tornerà. Ora sono “altro”. Un qualcosa di indefinito che non ha preso la sua forma definitiva, che si sta modellando sotto i colpi di un incontro scontro con me stesso che non mi lascia tregua, ricondizionato da tutto quello che il destino mi mette tra le ruote in questa nostra corsa verso l’estinzione. Secondo Bianchi “Il dolore è un anestetico. Avvolge, protegge. Mi rende inattaccabile anche dalle cattiverie del mondo. Possono dirmi, farmi qualunque cosa, non reagisco, non mi importa Sono già passato attraverso il peggio. Non può succedermi nient’altro.” Io invece credo che al peggio non c’è mai fine. Il ricordo di quei drammatici momenti non serve per anestetizzare tutto il male del mondo con cui mi devo confrontare quasi quotidianamente, in ogni sua forma e manifestazione. Sono due dolori diversi, figli di due dinamiche contrapposte. La prima ci ha ucciso, la seconda ci tiene vivi. Quando ripenso a DR capisco che quello che oggi mi manca di più sia la sua voce, intesa come capacità di analisi e di giudizio. In un mondo in cui è sempre più difficile trovare qualcuno che abbia davvero qualcosa da dire, e che sia soprattutto capace di ascoltare, anziché specchiare il proprio ego in conversazioni unidirezionali, DR rappresentava la mia necessità di confronto. Non fatico a individuarlo come la persona da cui abbia tratto i maggiori (e migliori) insegnamenti, quella che non solo mi ha ridato la voglia di fare, ma che mi ha anche ricordato l’importanza dei sentimenti, e della necessità di rallentare mentre tutti corrono sempre più velocemente incontro all’estinzione. L’unico mio rammarico sta nel non esser riuscito a intercettare il suo pensiero in quei giorni. Avrei voluto che avvisasse della sua intenzione di scendere in corsa prima dello schianto finale cui siamo destinati. Non lo avrei giudicato per la scelta. Non avrei cercato di disilluderlo dal suo progetto. Mi sarei limitato ad abbracciarlo sapendo che sarebbe stata l’ultima volta in cui ci avremmo sorriso insieme. È fin troppo ovvio che qualunque cosa gli avessi detto non sarebbe servita a nulla, men che meno a farlo desistere dalle sue intenzioni. Mi sarei accontentato di parlarne insieme, cercando il modo più indolore per evitare di ferirci ulteriormente, perché, come sottolinea il romanzo, il problema è tutto per “quelli che restano”. L’avrei fatto. E potendo tornare indietro lo farei. Consapevolmente incurante di andare a infrangere l’articolo 580 del Codice di Procedura Penale, “Istigazione o aiuto al suicidio”, che recita testualmente: Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, e’ punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, e’ punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima. Non mi sono mai preoccupato della legislazione. In tutte le occasioni in cui ho ritenuto di doverla infrangere l’ho fatto, consapevole dei rischi e delle conseguenze, ma fermamente convinto dei miei propositi. Non è mai stata, e non sarà, una legge che considero iniqua il freno alle mie intenzioni. Le ho infrante e continuerò a infrangerle. Pagherò quello che ci sarà da pagare, in nome di un reato che lo Stato considera tale, ma che non solo non riconosco, ma che inquadro come l’unica strada per esercitare il mio libero arbitrio. Rileggendo quest’ennesima “confessione” sorrido pensando che sono oltre trent’anni che sono pagato per tenere in vita le persone, e stavo per aiutarne una a morire. Un paradosso, ma solo per chi ragiona in modo unilaterale e superficiale. Non per me, e non per chi, come me, tocca il dolore e vede spegnersi gli occhi delle persone a cui tiene, e non può nemmeno immaginare la disperazione che si cela dietro a freddi sorrisi di circostanza, e routine che mascherano l’attesa per il gesto liberatorio.

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Confessioni di una maschera “L’ennesima occasione persa” Gennaio MMXXIV

Recentemente gli amici di Riserva Indie hanno condiviso sui loro spazi parte di un nostro intervento tratto proprio da questo spazio (Confessioni di una maschera “La virulenza della viralità“), che non ha mancato di scatenare un putiferio mediatico, fatto di reazioni scomposte, al limite della lesa maestà e della denuncia penale. Al netto di repliche piccate, più o meno stilisticamente e grammaticamente corrette, quello che ci ha maggiormente sorpreso è stato notare come la quasi totalità degli intervenuti non abbia minimamente capito di che cosa stessimo parlando, limitandosi al virgolettato dei ragazzi di Riserva Indie. Una reazione di pancia, a volte tristemente adolescenziale, che nei toni, ma soprattutto nelle argomentazioni, ha mostrato come non ci sia stata la voglia di scomodarsi a leggere per intero il testo da cui era tratta la citazione. Tutti copiosamente incolonnati con commenti bidirezionali, chi pro e chi contro, che nulla hanno aggiunto al ragionamento che il team di Riserva Indie voleva innescare. Tutti pronti a dire la loro, fermandosi però all’estratto, al campionamento per dirla in musica, che guardava alla fruizione contemporanea dei concerti da parte delle generazioni moderne, troppo spesso, a nostro avviso, legata ad un uso indiscriminato e fuori luogo del cellulare, diventato oggetto imprescindibile anche in questi contesti. Restando in argomento “generazionale” pensavamo che, essendo i nostri figli abituati ad una soglia di attenzione online che si assesta a poco meno di dieci secondi, noi più adulti potessimo vantare un approccio più analitico. E invece ci siamo dovuti ricredere. Non esiste alcuna differenza, non esiste un Noi e un Loro, siamo tutti irrimediabilmente nella stessa – pessima – situazione. E a poco servono i recenti studi del Brain & Mind Institute della University of Western Ontario, che indica come il nostro cervello non sia in fase di regressione, ma stia soltanto adattandosi ai nuovi scenari, fatti di una pluralità di fonti e di contenuti. Dinamica che rende necessaria una maggiore velocità di metabolizzazione, ma che però – cosa che i canadesi non dicono – non sottintende l’analisi del testo, intesa come verifica dell’autenticità del contenuto. In pratica è come se l’importante fosse leggere, indipendentemente dal fatto che si tratti di una belinata o meno. Quella riportata da Riserva Indie era una considerazione da collocare in un diverso contesto. Non si trattava di impartire ordini su come ci di deve comportare ai concerti, ma solo evidenziare, tra i tanti, uno di quegli atteggiamenti che sancisce, oggi più che mai, una sorta di dipendenza da smartphone. Non era e non doveva essere il concerto – e le riprese dello stesso – il focus, ma un discorso più ampio. Purtroppo però, nessuno o quasi, si è preso la briga di leggere tutto il testo, realizzando che stava commentando dieci righe di un articolo molto più corposo. Atteggiamento che sposa alla perfezione il senso globale del ragionamento, e che sottolinea, una volta di più, come la dipendenza tecnologica vada a minare la libertà intellettuale e l’indipendenza. A noi di come approcciate e di che fate ai concerti non frega nulla. Il punto è un altro. E, francamente, non pensavamo fosse così difficile da capire. Ma, evidentemente, è proprio questa vostra spiccata approssimazione che vi impedisce di accedere a contenuti più approfonditi, perorando le nostre tesi, anche se in modo – per voi – del tutto involontario. Nonostante la soglia di attenzione si limiti ad otto soli secondi, questo non impedisce e non raffredda la pulsione da interventismo, che si rende manifesta in modo tanto frenetico quanto frettoloso, senza nemmeno provare a pensare di guardare le cose da altri punti di vista che non siano il proprio. Noi non ci crediamo migliori o più intelligenti degli altri. Siamo solo più attenti a quelle che sono le reali intenzioni, e quindi il fine, di coloro che scelgono di pubblicare un approfondimento, un ragionamento. Cerchiamo cioè di calarci nell’ottica di provare a capire le loro ragioni, e a confrontarle con le nostre. Atteggiamenti che riconosciamo essere al di fuori del pensare comune, e del comune agire, e che mal si sposano con la incontrollata frenesia di tutti coloro che vivono cellulare alla mano la maggior parte della giornata. È ovvio che auspichiamo un cambio di passo. Lo diciamo da tempo. Ma se queste sono le premesse, se si guarda solo a creare in ogni occasione una dicotomia, tanto inutile quanto inesistente, che va a sancire la nascita di due schieramenti opposti, non esiste alcun futuro. Nel caso in questione, non c’era e non c’è da scegliere da che parte stare. Non c’era nessun confronto/conflitto generazionale. C’era semplicemente da leggere un testo, nella sua totalità, e provare a capirlo. Un gesto immediato, diremmo quasi banale, che però, la maggior parte degli intervenuti non è stata in grado di fare. Il segno dell’ennesima occasione perduta.     [button size=’medium’ style=” text=’Date un’occhiata a tutte le confession! ‘ icon=’fa-arrow-circle-o-left’ icon_color=” link=’https://www.iyezine.com/articoli/confessioni-di-una-maschera’ target=’_self’ color=” hover_color=” border_color=” hover_border_color=” background_color=” hover_background_color=” font_style=” font_weight=” text_align=” margin=”]  

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CONFESSIONI DI UNA MASCHERA

CONFESSIONI DI UNA MASCHERA ”Settembre Nero” IX MMXXIII

L’estate si sta dissolvendo, portandosi via quel poco di empatia che mi è rimasta. L’ho sempre voluta nascondere, per paura di mostrarmi, nudo, agli occhi avvelenati di tutti coloro che mi stanno intorno, in attesa di potermi assalire con le proprie richieste. Giocando proprio su questa mia disponibilità. L’isolazionismo estivo, figlio di una canicola insopportabile, mi ha aiutato a riflettere su tutte le dinamiche che puntualmente si ripetono nel metaverso in cui vive e opera Toten Schwan. Nel dilaniarsi dei miei pensieri, schiacciato dal peso di una stagione che odio sempre di più, sono arrivato alla conclusione che, in quell’irreale realtà così fortemente digitalizzata, le cose siano diventate – per me – insostenibili. Inevitabile quindi porre sempre maggiore distanza tra il mio [soprav]vivere e quegli ”inner circle” in cui tutti finiscono per sostenersi a vicenda, impossibilitati a rivelare la loro vera natura, pena la perdita dell’altrui sostegno. Circoli viziosi da cui ho sentito, forte, se non fortissima, la necessità di fuggire, in preda ad un’insostenibile intolleranza verso tutta questa finzione retta sull’opportunismo. C’è un proliferare di esaltazioni collettive, si sprecano complimenti e si celebra l’avvento di almeno una ”the next big thing” al giorno. Questa la quotidianità di tutti quelli che – come direbbe Mr. Wolf – si fanno i pompini a vicenda. In pratica veniamo a sapere, bontà loro, che c’è un grandissimo numero di dischi di cui non potevamo fare a meno, che però poi nessuno ascolta, dato che la regola numero uno del #club è parlare bene di tutti, aprioristicamente, perché ”può sempre tornare comodo.” Ovviamente, è bene non scordarlo mai, stiamo parlando di ”artisti”. Guai a non riconoscerli come tali. Questa, come potete ben capire, è la regola numero due del #club. ”Artisti” non persone. La regola numero tre è la prima delle non scritte. Ed è la più importante, proprio perché non esplicitata. A nessuno interessano gli altri, se li tengono vicini finché servono, finché non arriva il momento di passare ad altro/altri. Punto e a capo. Ecco, io di tutto questo non ho assolutamente bisogno. Lì, in quei postriboli del dogmatismo, dove il dissenso non è ammesso, nasce, si sviluppa e prolifera quella morbosità deviata da cui voglio e devo emanciparmi. L’altra grande questione su cui mi arrovello, in questi giorni di fine estate, verte intorno a Toten Schwan in maniera più diretta, e quindi – inevitabilmente – ancor più dolorosa. Come detto e scritto più volte in passato, c’è una grande e innegabile perversione che tende ad accomunare tutti coloro che gravitano online. Sono tutti in cerca di consensi e visibilità. A tutti i livelli e in ogni contesto. Soprattutto quello musicale. Non sono io che posso modificare le regole del gioco, mi sta bene. Posso però, per lo meno porre una domanda? A me, chi mi considera? C’è davvero qualcuno che mi avvicina per il piacere di farlo, senza esser mosso da un fine più o meno esplicito già in partenza? Sono consapevole che, rappresentando un’etichetta, la maggior parte delle persone si rivolge a me nella speranza di una produzione. Ci sta. C’è un però, che considero tutt’altro che secondario. Perché proprio Toten Schwan e non un’altra etichetta? In altre parole, vieni da me in modo consapevole, e mirato oppure uno vale l’altro? Vuoi uscire con noi perché condividi le nostre idee, la nostra etica, e sei concettualmente legato a quello che proponiamo? Oppure, come si diceva poco sopra, sono i soldi quelli che cerchi, per cui che siano i miei o quelli di un’altra persona poco cambia? Da anni cerco di far capire come Toten Schwan si regga – o almeno cerchi di farlo – sulle differenze, sulle distanze, sulla trasparenza, sui distinguo, non solo in ambito musicale, ma anche e soprattutto nella vita, nelle prese di posizione. Ogni nostra scelta ha alle spalle una ponderata valutazione. Ogni dinamica che si presenta mi mette in crisi, perché cerco di capire che cosa e/o dove possa portarmi. Ho sempre il terrore di quelle che possono essere le conseguenze delle mie scelte, soprattutto – e qui torna prepotente il mio lavoro a condizionare il mio pensiero – se vanno a toccare gli altri, se hanno effetti potenzialmente nocivi ai loro danni. Per cui, da oggi, da questo ”settembre nero” in poi, credo sia inevitabile andare verso un new world order retto su una selezione che porti a sfoltire le figure con cui finora ho interagito. Non è più ammissibile ”vivere alla giornata”, occorrono visioni comuni che guardino a un domani che abbia qualcosa in grado di tenerci vicini. Il resto non mi interessa più. Non ho il tempo dalla mia parte, e non intendo passare le giornate dietro a situazioni statiche, ”di plastica”. Il lavoro mi assorbe gran parte della giornata e delle energie, il resto del tempo – quello sottratto alla mia famiglia, per intenderci – decido io come passarlo, con quali ritmi, per cui, a tutti quelli che – anche involontariamente – mi stanno addosso non ho nulla da dire, se non che se vogliono far parte del nostro carrozzone, indipendentemente da quello che possa essere il motivo che li spinge a farlo – devono aspettare e rispettare i miei tempi. L’attesa è parte della vita, anzi ne occupa lo spazio più grande, occorre farsene una ragione. Se avete fretta, passate oltre. Non sentirò la vostra mancanza. Mi piacerebbe avere la forza, la voglia e il tempo per venirvi incontro. In passato ho cercato spessissimo di farlo. Ora è cambiato tutto. E non per colpa vostra, non sono qui per fare la morale a nessuno. Sono io che ho ridistribuito e riequilibrato le priorità, mettendo al centro di tutto me stesso, e solo in un secondo momento Toten Schwan. Non posso, e non voglio essere al vostro servizio sempre e comunque. Ci sono e ci sarò alle mie condizioni, quando avrò soddisfatto tutte le altre priorità. Non mi sono stufato di fare dischi. Mi sono stufato che tutti chiedano senza dare nulla in cambio, senza capire che prima vengo io e poi vengono i loro dischi. Non si tratta di una ”chiusura” totale, ma un invito a rivedere la considerazione che avete non solo nei miei confronti, ma verso le persone in generale. Siete, anzi siamo diventati troppo egoisti, troppo autoreferenziali, troppo egocentrici e molto poco disponibili verso gli altri, soprattutto se ”non ci servono” nell’immediato. Siamo nel pieno di un processo tutt’altro che breve – iniziato con la digitalizzazione – che sta dimostrandoci ora le sue prime conseguenze, un processo che abbiamo sottovalutato ma che è ben lontano dall’essere concluso.     [button size=’medium’ style=” text=’Date un’occhiata a tutte le confession! ‘ icon=’fa-arrow-circle-o-left’ icon_color=” link=’https://www.iyezine.com/articoli/confessioni-di-una-maschera’ target=’_self’ color=” hover_color=” border_color=” hover_border_color=” background_color=” hover_background_color=” font_style=” font_weight=” text_align=” margin=”]  

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CONFESSIONI DI UNA MASCHERA “MINIMA IMMORALIA”

L’italia, scritto volutamente minuscolo, è un territorio in cui per anni si è andati avanti celebrando i fasti di una delle più grandi culle della cultura mondiale. Sono però almeno tre decadi che tutto questo è andato a morire.

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CONFESSIONI DI UNA MASCHERA – PRIMA_VERA MMXXIII

Continuo a pensare che il male assoluto sia da far coincidere con la sovraesposizione da social network. La rete ci ha reso ancor più schiavi di quanto non fossimo già. E lo ha fatto facendoci credere che stessimo conquistando quella “libertà” che da sempre cerchiamo.

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