I Bachi da pietra, a 3 anni circa dall’estroverso e diretto Reset, spianano la strada alla loro visione ultra rock (comunque ultra) col nuovo Accetta e continua. Se la band girovaga ancora nell’underground italiano senza svettare laddove meriterebbe, be’, è una pecca inspiegabile. All’album ci si lasciano attaccati pezzi di cuore e il vigore creativo del trio costituisce un toccasana generale nel panorama musicale italiano e oltreconfine.
Meno Male, spoglia. Spoglia luoghi comuni e fa breccia pregno di quell’attitudine spiazzante, tra rock che schiaffeggia ed elettronica spaziale; strappa echi dark (Marcello Batelli, basso, synth) e li investe di personalità pietrificante, eppur plasmabile come creta. Senza scatenare inutili entusiasmi inopportuni, la track sfrigola nitida e graffiante sulla graticola, prende il suo tempo dettato da Bruno Dorella (drums) e vede Giovanni Succi (voce, chitarra) in prima linea a decantare da par suo; tutto fila liscio, come non ci si aspetterebbe, memori della brutalità della vita contemporanea, a gonfie vele.
I BdP intensificano i suoni bassi e cadenzati, scagliati come magli goldrakeiani contro l’umana durezza dell’ascoltatore e sfasano il sounding italianizzandolo entro un formato che proviene dall’alternative e che mette il dito calloso e sporco, tagliuzzato e livido nella ferita che ciascuno porta aperta nel proprio cervello, scavando nel mood metal, di squisita fattura, tagliato con l’attitudine dance, dove l’enfasi di Succi fa la differenza: Nel mio impero.
Titolaccio che rimbrotta il discorso dell’autoreferenzialità coatta, nero maleficio luciferino che sputa sostanza verde fluorescente, contaminata da inquinamento reificato tanz-beat-industrial, Mai fatto 31 sbatte con violenza (ma non c’è mera violenza) contro pareti di ferro presi per il bavero da una folle entità spiritica, magari da colui che sembra essere il nostro migliore amico che ci tende la mano. Sberleffi intermediati da fuochi techno e psichedeliche scudisciate sull’anima di noi poveri cristi-giuda.
Buster Keaton: ossianica, tribale, urbana, rap-funky alla maniera del quartierino dei senza speranza… meglio: Tom Waits squassato in una molotov col primevo Dr. John di Gumbo, qui congiunti, condensati e bachizzati, con quel pizzicottone sadico di macabra ironia affine per sommi capi al moniker Musica per bambini (aka Manuel Bongiorni), e forse alzo troppo il tiro della fantasia, ma i Bachi sono terra di contrasto che si inala facilmente come aria pura che poi diventa tossica.
In Un lampo e poi, mi affido completamente al trasporto grezzo e fine (hard/slow/core) esercitato dalla band che, si capisce subito, si eleva dalla propria pesantezza fino a liberarsi d’essa – dopo aver circoscritto il perimetro delle proprie idiosincrasie toniche e viscerali nei brani precedenti – nella nebulizzazione liquida del torbido di essenze inusitate, urticanti, che non fanno pace coi puristi amanti del solo pop o degli estremisti del solo sperimentale – in medium stat virtus.
Non solo mi sto divertendo, dice il mio emisfero cerebrale sx, ma sento a fior di pelle che sono in uno stato di complicità con ciò che i Bachi evertono fuori con forza, e così dice invece il mio cerebro dx. Pungente il forcone. Pungente la coda. Liaison perfetta con Buster Keaton, lungo sentieri di dis-sacrato sapore anti-convenzionale. Strumentalmente si accetta la forma guida-tonante del basso e sono insertati effetti synth sottilmente risucchiati dall’Oxygene di Jarre, e probabilmente li sto limitando nella mia mente i Bachi, mentre la loro è divinamente affascinante, messianica, psichedelica, chiazzata strumentalmente di turbamenti e incroci pericolosi, dove tutto può diventare il contrario di tutto.
E sto parlando di Invano, la track brilla di cupa grandiosità, dove la scia finale del pezzo sbrindella e sbalordisce nella perdizione obliante, reinventandosi, azzardo, nella coda di Save A Prayer (Duran Duran), anche se non ci giurerei, tuttavia l’input non guasta e si aggiunge alle suggestioni vivide incontrate sottotraccia, come quella simile ai Pink Floyd di Echoes, e alludo in particolare al brevissimo straniamento reso su Live at Pompeii, nel pieno ribollir de’ tini, in cui risalta quel fraseggio tastieristico di Wright sopra gli stridii di Gilmour, che da solo vale un oscar.
Inoltre, penso a una strana vena ‘sadica’, che sfugge fors’anche a loro stessi (mi piace presumere), tale da essere in grado di arrestare i Police (di Sting) e di rallentarne la verve ritmica, praticamente inchiodandoli a una vasta pedana di legno, costringendoli a suonare in tal guisa sotto atroci sofferenze e di appiccicargli dietro, all’ipotetico sfondo del palco atto a sovrastarli, un’altrettanta ferma, spillata da aghi, enorme falena di nome Diamanda Galas, allentata e distaccata dalle sue pazzie satanische, sino a renderla eucaristica, più sofferente e snervata dal dolore, laddove lo spettro compattato di J. M. Jarre, appunto, aleggia malsano, scrosciante, terminale ed evangelico. In tutto ciò, Invano rimane mostruosamente bella, suprema e dotata di una ispirazione proveniente da altre galassie.
Questo brano (Al belcanto) mi dà anche la possibilità di dire una cosa personale, cioè, che i testi e la voce costituiscono un elemento, oltre che meramente addizionale alla musica, di conglomerazione connaturata al prodotto canzone ove sciogliere, ciascuno nel suo privato, tale elemento solidificato attivando il godimento sino ad apprezzarne meglio le potenzialità e, al contempo, le delizie, col rimando figurativo di un cristallo di zucchero che si stempera nell’assenzio versandogli sopra acqua ghiacciata, fino a sorbire del tutto la libagione. Il valore che ne sopraggiunge appare piombo che si tramuta in oro, oro nero.
Ed è tutto lì a disposizione di chi ascolta, tesoro da scoprire passandolo allo sguardo del microscopio, o per diapositive e fotogrammi ingranditi di superfici che vogliono essere vagliate, cogliendo la bellezza poetica del farsi scoprire, ma per abrasione. Mentre il magnetico tappeto sonoro creato, mi suggerisce il crossing tra un tema estratto dal film “The Warriors” e un velocizzato cosmico K. Schulze, esplicita il commento sonoro lungo il calvario inquadrato inizialmente dalle immagini cantate da Succi e dichiarato dalle scene di violenza, apertamente uno stupro di gruppo, che stordisce reiterandosi, insinuante in un estenuante lavaggio del cervello espresso dal mantra: Amore, scorda, amore, scorda…
Mussolini (antisistema e antiSanremo) è tipica della tribalità inquietante insita nel concetto sonico dei Bachi. Ne recuperano la terrestrialità aliena nel loro posizionarsi in una nicchia; ascolto battente sulla sponda extra, e di più, terrestre, consci della sua estraneità a cui si vincola e svincola polverizzandosi nella paranoia dell’atto sonico e recitativo, dove il cuore batte in contrasto, opprimente, e mai totalmente, con la musica. Ancora verità cocenti sono tatuate in faccia, l’oscuro si schiera contro l’oscurantismo della storia, dei luoghi comuni, della tara generale asservita.
Sono sicuro che se F.F. Coppola fosse sintonizzato su questo canale musicale, davvero non potrebbe esimersi dall’inserire l’intero album in una sua opera, diventando piuttosto questo il suggerimento per visioni filmiche, possibilmente e sentitamente anche pasoliniane: il che è tutto dire.
Benché i Bachi non siano degli sbarbatelli, come tanta nuova musica giovanile che piace in larga misura solo ai giovani, asfittica e monotona, condita di malcelata incomunicabilità commista al malinconico e al sovversivo, in Accetta e continua c’è qualcosa che suona (provare per credere) oltremodo meglio; roba che innerva, che fa robusti e si diffonde come sostanza radioattiva verde fosforescente nelle ramificazioni del sistema neurale dell’essere umano, scardinandolo: Hey, hey, they got the rhythm – questi c’hanno il ritmo nelle vene!
Altro pezzone: Fuori c’è il vicino. Trafissione e bilico. Richiamo non solo al passato album, Reset, ma forse il brano più Succiano che evidenzia quel legame filiale col precedente lavoro non disperdendo nulla di quel bello e anticonformista. Magnifico/Immaginifico, progredito, attuale, travalicando quel lato oscuro e tagliente della musica underground italiana dark-post-wave-viziosa a cavallo tra la fine dei Settanta e i primi dei Novanta del secolo scorso.
Il dramma di denuncia sociale/privata della convivenza si intinge di odio profondo. Vicini di casa: stupore, dilemma, incubo e realtà frantumano/arginano il rispetto del vivere civile che andrebbe a farsi fottere, come il cervello di chi ormai non ne può più. Sciagura morale di forte tensione che tiene congelata la ragione. “Fuori c’è il vicino, completamente fuori/ Giuro, stento a crederci, ce l’ha con noi/ La sbronza non gli cala, anzi sale/ Ci ha sequestrati in casa, vuole farci male“.
E infatti la track conclusiva pare devastare e distruggere ogni cosa attraverso una critica ferocissima, dove i riferimenti grafici della copertina, irridenti del fascio, sprezzanti e irriverenti della banalità, quanto della violenza quotidiana, giocano ambigui e pestano al massimo della potenza compositiva e canora dei Bachi sulla coscienza (“de’noantri”), estendendo il loro unicissimo groove. Mastica… mastica…
Bachi da pietra – Accetta e continua
Altre Recensioni Bachi da Pietra
Bachi da Pietra – Habemus Baco
1. Meno male
2. Nel mio impero
3. Mai fatto 31
4. Buster Keaton
5. Un lampo e noi
6. Invano
7. Al Belcanto
8. Mussolini
9. Fuori c’è il vicino
10. Accetta e continua