Mi rivedo a scuola, 1972. Infagottato in un eskimo verde – uniforme obbligatoria a quei tempi. Uno dei tanti supplenti di italiano, in prima superiore, un giorno mi ha cacciato in mano un ciclostilato di “Howl” di Allen Ginsberg e guardandomi fisso negli occhi mi ha detto di leggerlo con attenzione: ci avrei trovato dentro delle meraviglie, diceva, e aveva ragione ma non me ne sono accorto subito.
Avevo quindici anni, ero solo un ragazzo spaesato che aveva appena messo il naso fuori dal quartiere e che si ritrovava in testa un grande disordine.
Ma c’era Fernanda Pivano che, traducendo l’America per me, ha aperto la porta. La Nanda è stata la porta, anzi, dico meglio: la Porta.
Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, le bibbie degli spostati. Un magma incomprensibile, ossessionante, magnetico, rimbombante. I miei libri sacri.
Eccomi a Roma, passo lì a studiare tutta l’estate del 1980. A fine luglio l’associazione Beat 72 e l’assessore illuminato Renato Nicolini mettono in piedi il secondo Festival internazionale dei poeti (il primo si era tenuto l’anno precedente a Castelporziano). In cartellone praticamente la Beat Generation: da Anne Waldman a John Giorno, da Gregory Corso a William Burroughs. Io mollo tutto e ci vado, porto con me un paio di cassette ed un piccolo registratore, e lo uso.
Di quella sera mi rimangono in testa, da qualche parte, la voce che Lucia Scalzone cede in prestito al suo compagno, e quella di Fernanda Pivano impastata di risate e sorrisi ed imbarazzo mentre traduce quelle poesie/canzoni di Allen Ginsberg e Peter Orlovsky così ricche di sesso e luce e felicità. Ricordo una contestazione volgare a Michael McClure, inadatto ad essere consumato dalla folla. Ginsberg quella sera sono riuscito a sfiorarlo con una mano, per me è stato un po’ come toccare il buddha. E poi luglio finisce, e poi anche agosto, anche settembre. E succede che lasci tutto là, torni a casa, lasci quelle strade e ne prendi di nuove. Ti vengono ad abitare in testa altre parole, altri suoni, ti chiamano altre voci, segui altre facce, altri odori.
I poeti rimangono, le loro voci immutabili dentro ai libri, pietre miliari al bordo della strada maestra che, inevitabilmente, ti ritrovi a percorrere e assieme pietre d’angolo della casa che, inevitabilmente, ti ritrovi a costruire mattone dopo mattone, giorno dopo giorno, respiro dopo respiro.
2015. Un giorno la scorsa estate saltano fuori da una scatola, sopravvissuta ai traslochi, due vecchie cassette. Le riconosco subito e improvvisamente torno indietro di trentacinque anni: Roma, i poeti, villa Borghese. Una vita fa. In mezzo anni di piombo, di amianto, di televisione. Non ci sono più in giro Allen, William, neanche Gregory, nemmeno Fernanda. Niente più nuove poesie, nuovi canti, nuove traduzioni. Ma altre poesie, altri canti, altre traduzioni.
Ho fatto trascrivere in formato digitale quelle registrazioni da un caro amico e compagno: gli ho chiesto di non modificare la qualità del suono, non volevo trasformare artificialmente quella che era, è e rimane una registrazione “amatoriale”. Sono convinto sia impossibile renderla “migliore”.
Pace e amore.
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