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Recensione : BLACK ANGELS WILDERNESS OF MIRRORS

Ritorno in grande stile per la garage/psych band texana Black Angels che, a cinque anni di distanza da "Death Song", ha pubblicato, a metà settembre, il suo sesto studio album ufficiale (e primo su Partisan Records) "Wilderness of Mirrors", BLACK ANGELS WILDERNESS OF MIRRORS.

BLACK ANGELS WILDERNESS OF MIRRORS

Ritorno in grande stile per la garage/psych band texana Black Angels che, a cinque anni di distanza da “Death Song“, ha pubblicato, a metà settembre, il suo sesto studio album ufficiale (e primo su Partisan Records) “Wilderness of Mirrors“, non lesinando sulla quantità del nuovo materiale proposto, ma anzi, presentando un’opera di ben quindici brani, frutto di una lunga gestazione, durata due anni, nei quali i nostri hanno potuto mettere maggiormente a fuoco la composizione dei pezzi, complici anche le pause forzate dovute alla pandemia sanitaria da covid-19 e lockdown vari.

 

In diciotto anni di percorso musicale, il gruppo di Austin, capitanato dal bassista e frontman Alex Maas, ha sempre mantenuto ben salde influenze e radici Sixties oriented, che affondano nell’influenza cruciale per i Velvet Underground (dai quali hanno mutuato il monicker, scelto ispirandosi a un loro classico, e hanno fatto riferimento a un’altra loro iconica canzone come modello sonico che ha forgiato ogni album dei Black Angels, come ha ammesso Maas) con una punta di primi Rolling Stones (rigorosamente era Brian Jones) il tutto fritto nella psichedelia e nell’acid rock dei concittadini 13th Floor Elevators, Syd Barrett e dei losangelini Love, senza tuttavia rinunciare ad arricchire una formula collaudata con elementi variabili e piccole sperimentazioni, che hanno portato a una presenza più consistente di strumenti come mellotron, tastiere e archi, grazie anche all’apporto del nuovo (giovane) membro polistrumentista Ramiro Verdooren, che con le sue abilità ha ampliato il ventaglio di soluzioni sonore a disposizione del quintetto.

 

Il piatto, dunque, è ricco e più vario del solito: ci sono le consuete mazzate di psych rock fuzzato, tipiche del combo (l’opener “Without a Trace“, “Empires Falling“, “La Pared“, “A walk on the outside“, “Icon” e la stupenda “History of the future“, per chi vi scrive la preferita del lotto, insieme a “El Jardín“, primo singolo di lancio) nelle quali è un piacere sentire la drummer Stephanie Bailey pestare sulle pelli; c’è poi l’omaggio a certo Sixties pop francese in “Firefly” (che vede la partecipazione di Lou Lou Ghelichkhani) mentre nella malinconica “The River” vengono direttamente chiamati in causa alcuni degli eroi musicali della band (da Syd Barrett a Eddie Cochran, da Buddy Holly a Bo Diddley, da Arthur Lee a Roky Erickson ai membri dei Velvet Underground) e vengono “invitati” a reincarnarsi per tornare in vita e illuminare ancora la nostra arte. Ci sono pezzi dal feeling prevalentemente acustico come “100 Flowers of Paracusia” e “Here and now“, e l’insolita conclusione del disco affidata a “Suffocation“, quasi sei minuti di straniante agonia spacey. E, visti i tempi bui che stiamo vivendo a livello mondiale, inevitabilmente le tematiche dei testi si sono incupite, trattando di pandemia, società distopica, grave inquinamento del pianeta Terra causato dalla mano degli esseri umani e tumulti geopolitici.

 

Wilderness of Mirrors” è un disco complesso, forse un po’ dispersivo, e di certo necessita di più ascolti per essere assorbito in pieno e assimilato in tutte le sue sfaccettature, ma quello dei Black Angels non è mai un revivalismo fine a sé stesso: sanno riprendere la bontà di molti ingredienti che, nel secolo scorso, ha saputo esprimere la musica pop (intesa come “popolare”, nell’accezione con cui, negli anni Sessanta, anche il rock ‘n’ roll veniva etichettato come “pop”, perché era massicciamente ascoltato dalle masse di tutto il globo) rimescolandola e frullandola per amalgamarla nel proprio stile lisergico, confermando di essere un punto di riferimento per la scena rock ‘n’ roll mondiale, e continuando in quell’opera di divulgazione (condivisa da Anton Newcombe e poche altre menti eccelse) e di raccordo, come un ponte intergenerazionale tra passato, presente e futuro della musica (neo)psichedelica.

LINE UP

 

Alex Maas | vocals, bass, organ, mellotron
Stephanie Bailey | drums, percussion
Ramiro Verdooren | guitar, bass, organ, electric piano, mellotron, vocals
Christian Bland, Jake Garcia | guitar, bass, vocals, mellotron

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