Il concerto inizia alle ventitre. Alle ventitre e dieci i Buzzcocks hanno già fatto quattro o cinque pezzi. Ce lo dice il buttadentro all’ingresso che, con svogliatezza, strappa le nostre superflue prevendite.
L’Orion è come me lo ricordavo. Caldo, bluastro e con una breve scalinata, fatta di gradoni in discesa, che ti porta direttamente davanti al palco. L’ultima volta ci venni a sentire i CCCP, o quel che ne resta. Stasera però siamo dall’altro lato del muro di Berlino: più polo Fred Perry e meno “falcemmartello”, più basettoni e meno baffi.
L’impianto trema e sembra non riuscire a tenere il tempo della batteria. Il tipo che ci sta dietro, Danny Farrant, ha intenzione di sfondare la grancassa col pedale; è concentratissimo e non fa una pausa nemmeno per asciugarsi il sudore che lo rende catarifrangente sotto alle luci. Davanti a lui c’è un signore basso e gonfio, barba incolta, capelli corti e bianchi. Grida nel microfono e la sua voce, sovrastata dalle chitarre, risulta stranamente melodiosa; lui sembra un hooligan in pensione e non diresti mai che è il fondatore di una delle più grandi punk band della storia. Pete Shelley, è così che si fa chiamare, formò la band nel 1975, con Howard Devoto. Dopo pochi mesi i due aprivano il concerto dei Sex Pistols a Manchester, loro città natale. Devoto lasciò dopo poco la band, per coltivare alcuni suoi progetti solisti; Shelley diventò il cantante della nuova band, e lo è tuttora.
Alla sua destra Steve Diggle, violenta magistralmente le corde della sua chitarra, suda nella sua camicetta a pois, ride, ammicca e ringrazia pudicamente il pubblico. Anche lui è nella band da quarant’anni ormai, ma il tempo è stato più clemente con lui di quanto non abbia fatto con Shelley: è magro e slanciato, ha i capelli marroni tagliati da Mod e dei pantaloni così stretti da fasciargli le gambe; quando la canzone sta per finire dà un occhiata al bassista, che sembra annoiarsi, e al batterista che gli dà l’ok, quindi salta divaricando le gambe come facevano i rocker da giovani.
Le canzoni filano via una dopo l’altra, come grani di un rosario punk. Non una pausa, non un ringraziamento che vada oltre al canonico “thank you”, non un’inutile spiegazione per pezzi che non ne hanno bisogno: Orgasm Addict, Why Can’t I Touch It?, Oh Shit! ed altre cento. Poi la pausa, rapida ed indolore per il pubblico: botta d’asciugamano, sorso di birra e via con i cavalli di battaglia, quelli che la gente canta, grida e poga: What Do I Get?, I Don’t Mind, Ever Fallen in Love? Ora l’Orion di Ciampino è un recinto in cui un centinaio di persone si spintonano rispettosamente ma con forza. Nella mischia c’è un po’ di tutto: ragazze carine in T-shirt di altri gruppi, skinheads, tenere coppiette, punkettoni col giubbotto di jeans pieno di toppe, cinquantenni brizzolati ed inossidabili, ragazzi con la polo abbottonata che sembrano appena usciti dall’Olimpico …
Nel pogo urto un ragazzino grassoccio. Avrà un terzo della mia età, una signora giovanile lo stringe a sé divertita. Fuori dal concerto lo rivedo, ci scambio due chiacchiere: si chiama Dario ha 11 anni e i suoi lo portano sempre a vedere i concerti dei gruppi con cui sono cresciuti. La mamma elenca band e concerti e canzoni che nemmeno conosco. Mi sento ignorante in materia. Si è fatta l’una di notte e chiedo a Dario se l’indomani andrà a scuola e come farà a svegliarsi: lui mi risponde, senza esitazione, che alle 8.10 ha grammatica ed antologia, e che svegliarsi non sarà un problema perché ha un brano dei Sex Pistols che lo butta giù dal letto. Sorrido, saluto e vado a casa sereno. Anche stasera il Punk non è morto.
Pete Shelley – voce, chitarra
Steve Diggle – chitarra
Tony Barber – basso
Danny Farrant – batteria