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Recensione : :: ACUFENI :: FASTIDI AURICOLARI CONTEMPORANEI #14: Coilguns, Kerretta, Society of Motion, Sopor Dolorosa, Sugar Horse

Ripartiamo con le ultime uscite targate Coilguns, Keretta, Society of Motion, Sopor Dolorosa e Sugar Horse. Una manciata di album che mostrano spiccate personalità, tra loro contrastanti solo da un punto di vista sonoro.

Coilguns, Kerretta, Society of Motion, Sopor Dolorosa, Sugar Horse

Ripartiamo con le ultime uscite targate Coilguns, Keretta, Society of Motion, Sopor Dolorosa e Sugar Horse. Una manciata di album che mostrano spiccate personalità, tra loro contrastanti solo da un punto di vista sonoro.

Coilguns “Odd Love”

Gli svizzeri Coilguns arrivano al quarto album, e lo fanno con la consapevolezza di chi sa perfettamente di aver realizzato un disco impeccabile.

Attivi dal 2013 i ragazzi di Chaux-de-Fonds (sito patrimonio dell’umanità UNESCO) si presentano a noi con un album che fa dell’imprevedibilità il suo cardine principale. “Odd Love” è il manifesto vivente del gusto applicato alla musica, e sposa perfettamente quel fuoco che arde in copertina attraverso undici brani dirompenti e di grande classe.

Un fuoco inestinguibile che ci spinge a ricominciare da capo ogni volta che arriviamo a fine ascolto.

Mancavano da cinque lunghi anni dalle scene. Un’attesa che è stata ampiamente ripagata da un album che riesce ad emozionarci ogni volta che lo riascoltiamo, come se fosse sempre la prima volta, come se non sapessimo che stiamo per essere travolti da un’ondata di malinconia e di tristezza che sanno però essere, al tempo stesso, anche carica e sudore. “Odd love” è un salto nel buio, inteso come impossibilità di decifrare quello che sta per accadere ogni volta che sta iniziando un nuovo brano.

Un album eccentrico che non possiamo non inquadrare come tra i migliori dell’anno appena concluso.

Kerretta “Angelm” (Dunk Records)

“Angelm” è il quinto capitolo nella discografia della band di Auckland. Il trio neozelandese continua a sperimentare ogni strategia sonora che possa permettere di riprodurre su disco il proprio intimo sentire. Questa loro ultima creazione sposa, concettualmente, le teorie che guardano alla creazione dei continenti e lo spostamento delle placche tettoniche.

Musicalmente invece siamo alle prese con una versione ruvida del post rock, che rivede gli standard del genere, in favore di un approccio più “spaziale” che possa allontanarsi da quello che ci si aspetta da loro, viste le loro precedenti release. Otto brani per rappresentare, e raffigurare, otto diversi continenti.

Otto momenti acustici tra loro legati da un’idea di base, come detto, perfettamente inquadrabile, ma al tempo stesso giustamente slegati in modo da garantire un’apertura cromatica e sonora quanto più possibile ampia. La resa globale depone a favore di un album intenso, orchestralmente orientato verso un quadro di insieme che per alcuni può anche risultare ostico, ma che mostra una band perfettamente a fuoco, nel costruire le idee e nel metterle in pratica.

Society of Motion “Society of Motion” (autoprodotto)

L’obiettivo dei Society of Motion è chiarissimo: ricontestualizzare gli anni ottanta al giorno d’oggi, creando atmosfere vintage che ancora seducono, per una riproposizione che guardi all’immobilità di un tempo che resta fermo – sia da un punto di vista sonoro, che estetico – e che inchioda tutto su polaroid sbiadite ritrovare per caso in un cassetto polveroso. L’EP (autoprodotto) si caratterizza per un gusto new wave spiccatissimo, che riesce ad essere attuale, riportandoci agli anni d’oro del genere, quelli che, tra le altre cose, coincidono con la nostra gioventù. Il tutto senza concedere nula all’immagine, ma andando invece a giocare in modo deciso sull’immaginario.

E, stando a quanto abbiamo ascoltato, riuscendovi appieno. La loro è da inquadrare come la ricerca dell’analogico a tutti i costi in un mondo che più digitale non potrebbe essere. Andrebbero premiati non fosse altro che per questa loro intransigente presa di posizione. “Society of Motion” si apre ad una ricerca fonetica che mescola inglese, tedesco e italiano, riuscendo – al netto di una doverosa maggiore cura per i dettagli – a mostrare una visione di insieme davvero ottimale. L’unico rischio è quello di lasciarsi prendere la mano e finire per accedere in inutili barocchismi.

Ma crediamo che la band, intelligentemente, saprà orientarsi verso il minimalismo, in nome di un “less is more” che ancora una volta risulta la scelta migliore in assoluto.

Sopor Dolorosa “Mond” (Prophecy Productions)

Un certo modo di pensare e vivere la musica sembra non voler risentire del tempo che scorre inesorabile. Con “Mond” veniamo immediatamente riportati indietro, agli anni ottanta, quando il post punk la new wave dipingevano di nero le nostre giornate, donando un tocco di magia alla nostra adolescenza.

I Sopor Dolorosa sono tra le realtà che sono maggiormente rimaste ancorate a quell’immaginario a tinte forti, e ce lo dimostrano con questo loro quarto album. La loro è una danza ipnotica che si consuma sotto la luna, e che mette in mostra tutto l’amore che i nostri hanno per quegli anni, a loro modo, indimenticabili. La band francese conserva intatto l’amore romantico per l’oscurità, e ce lo trasmette attraverso nove brani trascinanti, ma che non aggiungono nulla da un punto di vista musicale ad una scena che, al contrario di altre, sembra riluttante ai cambiamenti.

Non fraintendiamoci, l’album è godibilissimo, e ben costruito, ma soddisferà soltanto chi ha voglia di lasciarsi alle spalle le angosce di oggi, per tornare a sentirsi e a immaginarsi giovanissimo e sfrontato, mentre guarda la vita e prova a darle del tu, prima di lasciarsi andare, e ballare tutta la notte.

Sugar Horse “The Grand Scheme of Things” (Pelagic Records)

Il quartetto britannico – qui alle prese con il proprio secondo album in quasi dieci anni di carriera – prosegue nel suo itinere volto a non concedere punti di riferimento agli ascoltatori. Meno vicino al metal, e, conseguentemente (e volutamente) più diretto, “The Grand Scheme of Things” – concettualmente ispirato al fine vita – è un disco che possiamo immediatamente inquadrare come maggiormente ricercato rispetto al passato.

Fine, accattivante e armonioso, l’album dei ragazzi di Bristol riesce nell’impresa di distaccarsi dall’idea che ci eravamo fatti della band. Nel momento in cui pensavamo di aver capito dove volevano portarci, i quattro hanno cambiato strada, rimodellato il proprio sound e la propria proposta per riuscire ad essere – contemporaneamente – quanto più lineari e quanto più dinamici possibile. La strada che hanno intrapreso è del tutto priva di qualsivoglia comfort zone, e l’idea che si resti spiazzati durante l’ascolto è la testimonianza che siamo caduti nella loro trappola.

“The Grand Scheme of Things” è stato registrato in presa diretta all’interno di una chiesa abbandonata, in modo da riuscire ad avere la miglior resa possibile in termini di profondità sonora.

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