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Confessione Di Una Maschera: Psychic Tv

Sono figlio degli anni settanta, oltre che di mia madre e (penso) di mio padre. Sono figlio di un'epoca che ha visto l'affermarsi della Televisione, intesa come fenomeno mediatico di massa.

CONFESSIONE DI UNA MASCHERA

DICEMBRE DUEMILAVENTI

“PSYCHIC TV”

 

Sono figlio degli anni settanta, oltre che di mia madre e (penso) di mio padre. Sono figlio di un’epoca che ha visto l’affermarsi della Televisione, intesa come fenomeno mediatico di massa. Sono figlio di una generazione che ha visto il passaggio dal bianco e nero al colore, ma anche dalla TV monopolistica (di stato) a quella altrettanto monopolistica (e finto liberale) del colosso di Cologno Monzese dopo. In mezzo un fiorire di “reti libere” che sulla falsa riga delle radio libere hanno invaso l’etere con trasmissioni locali decisamente dillettantesche.

Siamo quindi cresciuti con l’ingombrante presenza dell’apparecchio televisivo nelle nostre case. Col caro vecchio tubo catodico che dettava i tempi delle nostre adunate silenziose intorno alla tavola. Anni in cui il telecomando era un qualcosa di impensabile e toccava sempre ai soliti alzarsi per andare a cambiare canale. È stata una presenza talmente costante che in alcuni momenti possiamo averla anche pensata come madre surrogata nei momenti in cui i genitori erano fuori al lavoro.

Oggi il ruolo della Televisione è un altro. Al punto che viene da chiedersi come possiamo sintetizzare e spiegare la presenza ma soprattutto la funzione sociopedagogica (e culturale) degli schermi ultrapiatti che si arrampicano sui muri delle nostre case. Non è compito facile provare a riassumere il concetto di “Televisione del nuovo millennio”. E da qui partire per cercare di capire quanto male ci stia facendo.

Dopo tanto pensare alla fine credo che la definizione più calzante per la TV sia “quel qualcosa che riempie lo spazio tra le pubblicità”. Non ci sono altre chiavi di lettura. Il senso comunicativo verte tutto intorno a questi cortometraggi che dettano gli schemi da seguire (e perseguire). I dogmi sono scanditi a base di immagini ad alta velocità, colonne sonore ad hoc e frasi ad effetto di facile memorizzazione.

Se un tempo la televisione era inclusiva visto il suo ruolo “sociale” degli anni sessanta, ora è diventata “esclusiva” ma attenzione, non in senso di “monopolista”, bensì legata al fatto di vedere sempre e comunque, in ogni situazione reale o futuribile, un qualcuno da escludere, un potenziale nemico, un indesiderato verso cui far convergere gli strali delle negatività. Come se l’eliminazione dell’indesiderato, del diverso, del reietto portasse a noi il vantaggio di esorcizzazarne il potenziale malefico e al tempo stesso andasse a rafforzare il nostro ruolo sociale.

È un costante gioco al massacro rivolto indifferentemente contro chiunque possa rappresentare in quel momento il perfetto capro espiatorio. Gioco con cui abbelliamo il nostro essere protagonisti all’interno di quel meccanismo di interazioni che chiamiamo società civile. È un qualcosa che accade costantemente. Basta illuminare gli schermi televisivi ed appariranno le solite immagini. A tutti i livelli, a tutte le ore e su tutti i canali c’è il solito canovaccio fatto di prove da superare per restare a galla in quel mare di merda che esce dall’ex tubo catodico. E poco importa se si tratti di cucinare, di cantare, di rispondere a quiz nazionalpopolari o qualunque altra trasmissione in cui sia prevista una sorta di gara di sopravvivenza, ciò che conta è idealizzare il nemico e colpirlo per poter proseguire nel “sogno” di far parte dell’elite. Ma questo non è l’american dream e non ci sono da rincorrere prosperità e benessere. Qui si cerca un altro tipo di sogno, quello di apparire sempre e comunque, a qualunque costo, perché, tra le altre cose che la TV ci insegna, insuccesso ed oblio non sono previsti.

Di conseguenza anche la società finisce per essere condizionata da tali esempi. Il germe dell’odio attecchisce più facilemente se siamo abituati alla competizione a quaunque costo, alla ricerca del nemico, alla disputa continua. In ogni trasmissione c’è sempre da schierarsi a favore ma anche “contro” qualcuno. Ogni format televisivo prevede una suddivisione degli ospiti tra buoni e cattivi, in modo che la discussione si accenda continuamente con la contrapposizione verbale tra i partecipanti. Sono emerse figure che nel corso degli anni si sono specializzate in questi ruoli di “opinion leader” (accidenti a loro e all’inglese…) e vengono chiamati in trasmissione sperando che svolgano al meglio il loro ruolo di provocatori e dividano le opinioni. Non ultima la votazione da casa. Non è l’imperatore che decide vita o morte dei protagonisti come avveniva nelle arene di romana memoria, ma sono gli spettatori fidelizzati che eliminano gli avversari dei loro favoriti. Tutti contro uno. Solo che quell’uno non sempre è un concorrente televisivo, molto spesso è un uomo della strada che paga sulla sua pelle le angherie dei suoi simili resi barbari dalle immagini che fagocitano giorno e notte ipnotizzati dalla TV.

Il ruolo pedagogico della televisione è stato fondamentale nel momento in cui si è realizzato attraverso un intrattenimento volto a creare un collante della società, eliminando quegli squilibri sociali ma soprattutto culturali radicati sin dai primi anni del secondo dopoguerra, quando i capisaldi che dettavano i palinsesti erano sostanzialmente informazione, intrattenimento, cultura ed educazione. Oggi tutto questo fa sorridere (amaramente), pensando a quelli che sono i palinsesti attuali dei canali televisivi. Si è invertito il meccanismo di un tempo. Siamo al paradosso per cui non è la TV che si adatta alle esigenze dei telespettatori ma è addirittura il contrario. Un tempo il telespettatore non era “fidelizzato” e legato a tempi ed orari del palinsesto televisivo come adesso. Era la TV che adattava ai ritmi del paese, scanditi dalle tradizioni tramandate dalle generazioni precedenti. I programmi erano rigidamente strutturati in base alle dinamiche della vita quotidiana. Si partiva alle 18 (prima erano tutti in fabbrica o comunque al lavoro) e conclusione poco prima della mezzanotte. Oggi siamo all’opposto, è infatti la TV che detta tempi e ritmi della quotidianità. Per non parlare degli status symbol. Modelli culturali (per modo di dire) e comportamentali sono quelli che ci entrano in casa via etere ad ogni ora del giorno e della notte. Si parla, si mangia e ci si veste come molto poco subliminalmente ci insegna Nostra Signora Televisione.

In tutto questo il punto di non ritorno è stato sancito dal passaggio tra servizio pubblico ad azienda (pubblica?) con l’inevitabile conseguenza che l’imperativo diventa quello di far quadrare i conti a qualunque costo, senza tenere conto del peggioramento della qualità del prodotto. Il telespettatore deve diventare cliente, e su di lui è necessario anzi doveroso riversare bisogni fittizi che non gli appartengono minimamente, creare in lui aspettative del tutto avulse dalla sua vita reale.

Un tempo la validità di un’affermazione era sancita dal famoso “l’ha detto la televisione” come a voler testimoniare l’attendibilità dell’interlocutore, oggi quando una notizia passa dagli schermi televisivi a casa nostra è sicuramente una belinata.

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