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Confessione Di Una Maschera: (r)evolution

La rivoluzione è finita? Probabilmente sì, anche se per la maggior parte di noi non è nemmeno iniziata.

CONFESSIONE DI UNA MASCHERA
OTTOBRE DUEMILAVENTI
(R)EVOLUTION

La rivoluzione è finita?
Probabilmente sì, anche se per la maggior parte di noi non è nemmeno iniziata.

A parole siamo (stati) tutti rivoluzionari, ma nella realtà ci siamo soltanto adeguati agli standard di libertà che ci hanno concesso. Perché una cosa deve essere chiara. Siamo liberi nella misura in cui ce lo concedono. Dobbiamo avere il coraggio di ammettere di essere schiavi di un modello di sviluppo che non prevede alcun tipo di deroga alla linea comportamentale che ci hanno imposto. Sono anni che citiamo Orwell e i suoi “due minuti di odio”. Molto spesso a sproposito. Questa volta però potremmo essere realmente vicini alla distopia descritta dallo scrittore britannico. A forza di sparare nel mucchio a volte qualcosa si colpisce…

Non mi piace parlare in termini di “controllo” da parte di un fantomatico “big brother”. È un modo di vedere le cose che mi ha sempre infastidito e di cui come detto abbiamo recentemente abusato. Sta di fatto però che ci stiamo indirizzando verso un modo di gestire le nostre rivolte che per certi versi ricorda quelle atmosfere. Siamo al paradosso, è evidente, ma non siamo molto distanti dal momento in cui ci faranno credere di poter gridare la nostra rabbia, dandoci però preventivamente l’assenso su come, dove, quando e per quanto tempo. Ma soprattutto su quale social network…

Ok, la rivoluzione è finita, ma a quando possiamo far risalire la morte della spinta rivoluzionaria?
Non so come la pensiate voi, ma io di dubbi in proposito non ne ho. Sarò forse ripetitivo, ma nel momento in cui hanno sdoganato internet consentendo a chiunque, ovunque si trovasse, di potervi accedere e autoproclamarsi interprete della verità assoluta e quindi legittimato a insegnare a noi poveri idioti la strada maestra. È lì che individuo il punto di non ritorno. La fine delle idee e l’inizio della nostra dipendenza mentale.

Anche se siamo qui, adesso, a interagire sul web, siamo però costretti ad ammettere in un momento di rara lucidità che sia proprio internet il nostro nemico principale. Avremmo dovuto essere noi a sfruttare la potenza offerta dalla tecnologia e non il contrario come è avvenuto. Abbiamo smarrito l’autocritica e il buon senso. Ci ha fatto gola la fugace ed effimera fama virtuale della nostra ristretta cerchia di conoscenti.

Siamo oggi nella non facile condizione di trovare una mediazione tra ciò che siamo, ciò che non siamo più e ciò che vorremmo essere. Perché una cosa è chiara. Noi non siamo.

La maschera gettata da Mishima da cui abbiamo mutuato il titolo della nostra rubrica noi la portiamo ancora. Fingendoci ribelli in un mondo che ci vede perfettamente allineati. C’è una dilagante insoddisfazione per ciò che avremmo voluto essere e non siamo stati in grado di essere. Insoddisfazione che però non sfocia mai nell’ammissione del nostro insuccesso. Perché in questi tempi socializzati una cosa come questa non è ammessa. Il fallimento non è previsto. Anzi, siamo arrivati al punto in cui non possiamo nemmeno più decidere quando dichiararci falliti. Lo fanno altri al posto nostro, usando come standard di riferimento valori che non possono essere condivisibili e non possono essere adatti a noi.

Continuiamo quindi a mantenere una maschera fin troppo adesa per non mostrare il nostro lato più debole. Quello più spontaneo, più umano. Sono convinto che la perdita della nostra umanità sia andata di pari passo con l’abbandono dell’idea di collettività. Le due cose non possono essere distinte. Sono due facce della stessa moneta. La nostra idea di solidarietà è andata a morire lontano da noi e dai nostri occhi. Oggi siamo solidali soltanto a noi stessi e alla nostra visibilità.

Abbandonata l’idea di riuscire a coinvolgere la collettività nel processo di crescita/decrescita (a seconda dei punti di vista), non ci resta che limitare il nostro raggio di azione a nuclei sempre più ristretti, laddove possa davvero esserci una parvenza di socializzazione solidale. Le masse, verso cui rivolgevamo le nostre attenzioni un tempo sono state sostituite da nuclei numericamente ridotti, laddove sia possibile continuare a parlare un certo tipo di linguaggio. Laddove l’interazione che coinvolge tutti possa essere portata a livelli soddisfacenti. Laddove il coinvolgimento diretto permette di raccogliere le aspettative di tutti. Laddove non ci siano soggetti che detengono privilegi su altri determinando una divisione classista. Laddove il confronto possa dirsi quotidiano e non freddamente e periodicamente organizzato.

Sono venute a mancare, nel corso degli anni, le avanguardie che rappresentavano i punti di riferimento che pensavamo potessero permetterci di sviluppare realtà sociali alternative ai modelli di sviluppo imposti. Possiamo quindi pensare di rifarci al movimento di collettivizzazione della vita quotidiana, di proliferazione di esperienze micro-politiche di autorganizzazione di cui si parlava negli anni settanta? Possiamo considerare questo modello ancora attuabile?

Tutto ruota intorno alla libertà di cui sopra. Al nostro grado di indipendenza mentale rispetto alla rete. Chiudersi nelle proprie convinzioni non ha mai portato a nulla di buono. La storia ce lo insegna.

Chi non contamina le proprie idee con quelle degli altri è destinato ad una prematura estinzione. È ora di smettere di guardarci nello specchio dei social network e tornare a specchiarci negli altri come un tempo. È il momento della dialettica, dello scontro, della condivisione e della critica. Tutte cose che facciamo quotidianamente, ma solo su internet. E poco o nulla c’entra il covid-19 e le normative che impediscono i contatti umani. Il problema è datato.

Non so che cosa succederà nei prossimi anni, non so nemmeno che cosa possa accadere domani. Di certo però credo che le tematiche della controcultura degli anni settanta siano ancora attuali. Guardando alla storia e al suo ciclico ripetersi, dopo un momento di folle e apparentemente inarrestabile corsa negli anni ottanta novanta siamo nuovamente tornati alla decrescita e alla crisi dei settanta. Le problematiche pur se contestualizzate ai giorni nostri sono fondamentalmente le stesse.

Perchè quindi non riprovare a riprendere quelle tematiche sociali e provare a contestualizzarle?

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2 risposte

  1. volevo brevemente entrare nel merito dell’ultimo scritto di @Marco Iye Valenti . uno scritto così potente è assai raro da leggere. la sua forza sta nel non ergersi al di sopra di tutti e dispiegare la propria saggezza alle masse laggiù in fondo, ma di voler innescare un vero dialogo quello che manca. internet è ottima per tante cose, ma è pressochè inutile per confrontarsi e parlare davvero. è solo ego, la nostra visione del mondo, ma il mondo va benissimo, anzi sta meglio, senza la nostra visione del mondo. gli anni settanta sono stati, per quanto possa saperne io che non li hio vissuti se non i n fasce, molto differenti da ora, c’era maggiormente empatia e si provava a capire il prossimo come a prenderlo a pugni in testa, perché noi siamo di natura contraddittori e forse anche cattivi. internet è stato l’inganno perfetto, ne dipendiamo, ci sentiamo migliori grazie ad essa, ma + solo un velo di illusione, perché non ci dà la libertà, anzi ce la toglie. ci recide il nervo simpatico, e per gli altri non proviamo più nulla se non per la nostra nicchia di gente che la pensa come noi e tutto è figo. e poi i due minuti di odio nel quale ci viene permesso di andare in piazza contro quei disgraziati vestiti di blu che da veri stronzi si prestano al gioco e ci sembra di aver fatto la rivoluzione. come diceva orwell il futuro sarà uno stivale in faccia, come dice marco non saremo liberi ma possiamo ancora ascoltare gli altri. e se ci capiamo, se discutiamo se ci mandiamo a cagare ma dopo aver discusso in faccia, il mondo sarà un’altra cosa. manca chi corra nel vento e non dietro ad una tastiera. perdonate la lunghezza, ma questo articolo sarebbe da leggere nelle scuole. quelle ancora aperte

  2. grazie per il commento e per le parole di stima, io credo di aver solo riportato il pensiero di molti tra quelli della mia generazione, di essermi fatto carico di mettere nero su bianco ragionamenti comuni a chi ha vissuto esperienze che non possono e non devono essere viste come superate o messe da parte

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