“In Italia si legge meno che negli altri paesi” è una frase che ci risuona nelle orecchie da sempre, o per lo meno da quando abbiamo capacità mnemoniche per poterla contestualizzare. Non si tratta però, come spesso accade, di un qualcosa che risuona nel vento senza parvenza di realtà. Ci sono infatti i recenti dati Istat a ricordarci come la situazione continui nella sua stagnazione. Quanto di buono guadagnato nel biennio pandemico è già andato perduto. I dati recentemente pubblicati dall’Istituto di Statistica non mostrano dubbi nel sottolineare come si possa, anzi si debba, archiviare il duemilaventidue come l’anno peggiore dall’avvento del nuovo millennio, con meno di due italiani su dieci che hanno letto almeno un libro.
Una cifra incredibile, quasi impossibile da prendere come vera, eppure tristemente reale. Nemmeno il soggiorno forzato tra le mura domestiche imposto dalla pandemia è riuscito a modificare le cose. Appena tornati a quella che ci ostiniamo a chiamare “normalità” (e su questo concetto di “normalità” potremmo discutere all’infinito) le buone abitudini intraprese durante il lockdown sono andate smarrite. Il dato che più di altri fa riflettere è quello relativo alla fascia di età che ha la maggior confidenza con la lettura. Si tratta delle donne comprese nella fascia che si muove tra l’adolescenza e la maturità. Il resto è buio pesto. Regge (fortunatamente) una componente (seppur minoritaria) di lettori “forti”, con numeri da capogiro, ma si perde nell’oceano dell’ignoranza che travolge tutto il resto.
È proprio “ignoranza” il termine intorno a cui tutto ruota, e che più ci piace usare per definire e associare tutti coloro che “scelgono” di non leggere. Perché è qui che troviamo il punto di tutto il ragionamento. È la scelta la discriminante che sposta tutto quanto. Se un tempo c’era una grossa fetta di popolazione che non poteva permettersi di acquistare un libro, per condizioni socioeconomiche legate a povertà, mancata scolarizzazione e provenienza da ambienti degradati, oggi abbiamo a che fare con un discorso completamente differente. Oggi chi non legge non è più un soggetto “difficile”, ma una persona qualunque, estratta a caso da una qualsiasi classe sociale, in una altrettanto casuale città, lontana dalle difficoltà economiche di cui sopra. Oggi chi non legge sceglie di non leggere, disinteressandosi dalla lettura e dall’accrescimento culturale.
Non è (quindi più) il reddito a determinare queste differenze, ma una carenza insista nelle modificazioni che la tecnologia ha apportato in seno alla società negli ultimi venti anni. È innegabile come la carenza di concentrazione che impedisce ad una percentuale altissima della popolazione di elaborare la lettura di un testo, anche semplice, sia molto più diffusa di quanto si possa essere portati a pensare. Oggi ci si nutre, non di nozioni approfondite, ma di slogan preconfezionati, spesso in rapida successione. È questo il modo che la popolazione ha scelto come viatico per farsi un’opinione in merito a quello che accade nel mondo. Opinione che, se costruita in questo modo, non può che essere quanto di più superficiale possibile, proprio perché basata su un’idea minima, spesso non reale, o non verificata, che abbraccia tutto, e quindi finisce per non abbracciare nulla. Non possiamo crescere acculturandoci sullo schermo dei cellulari.
Oggi le “fasce più deboli”, un tempo rappresentate dalle “periferie”, non hanno una diretta correlazione con il reddito o con la collocazione geografica, ma con la carenza di voglia, con la pigrizia, l’indolenza, nel momento in cui si prospetta la possibilità di approfondire i contenuti. Se tutto (e quindi nulla) è a portata di un click, o di un un tap sullo schermo del cellulare perché perdere tempo (che sottrarremmo alla nostra dipendenza da social network) con la lettura. È qui che si incastra l’ennesimo problema. Capire la veridicità di un contenuto. Cosa impossibile se come accade sempre più spesso ci si ferma al titolo, non tanto per pigrizia ma per inerzia e abitudine. È un pò come quando “ai nostri tempi” una cosa era vera “se lo diceva la televisione”. Siamo diventati una pletora di semianalfabeti incapaci di discernere il falso dal vero ma soprattutto abituati a prendere per buono tutto quello che ci viene detto senza aver la voglia di approfondire l’argomento del contendere, anche perché sostanzialmente non ci importa di nulla (proprio perché a quanto diciamo ci importa di tutto).
Siamo riusciti ad andare verso l’ennesima polarizzazione sociale. Da una parte quelli che leggono con ostinazione e dall’altra quelli che dei libri si disinteressano in modo quasi totale. Non siamo capaci (più) a trovare un equilibrio, nemmeno in questo caso. Il problema è a nostro avviso culturale e sociale, ma anche decisamente e fortemente politico. Non a caso la classe politica degli ultimi vent’anni è in assoluto la peggiore di tutta quanta la storia repubblicana del nostro paese. Abbiamo visto (e ascoltato) figure che un tempo non sarebbero nemmeno state candidate per insufficienza cerebrale. Tutto in nome di una carenza analitica sacrificata sull’altare dell’ignoranza. Gli amici complottisti a questo punto direbbero che si tratta delle conseguenze di un più ampio progetto meticolosamente studiato, il cui avvio possiamo far coincidere con l’avvento delle televisioni commerciali del magnate di Arcore, che a suon di degrado culturale ha imposto (non sdoganato ma imposto) modelli pseudoculturali che oggi stanno dando il frutto della martellante invadenza nei nostri usi e costumi. Per una volta, potrei anche non escludere a priori la possibilità che gli amici complottisti abbiano detto una cosa condivisibile, non fosse altro che per le conseguenze nefaste a cui stiamo assistendo. Anche perché, se il linguaggio deve essere sempre funzionale sia al contesto che agli interlocutori, è inevitabile come l’imposizione di modelli culturali linguistici degenerati (e quindi poveri) sia stato conseguenza di un impoverimento delle platee sociali.
Quello che abbiamo scambiato per progresso è invece l’esatto opposto che ci ha fatto precipitare in un vortice da cui ci vorranno generazioni e generazioni per poterci riprendere. Non per nulla l’incapacità funzionale in ambito di alfabetizzazione è uno dei capisaldi nello studio sullo sviluppo umano. Anche in questo caso non si guarda più al reddito pro capite e ai servizi , ma (fortunatamente, aggiungiamo noi) anche, e soprattutto, alla scolarizzazione/istruzione. L’indice nel corso degli anni è stato mutato, e ora nella sua definizione non guarda più allo sviluppo umano ma al rapporto “multidimensionale di povertà”. Variazione che può sembrare solo un dettaglio sintattico ma in realtà nasconde il vero fulcro del problema. Non si guarda (giustamente) più ai più sviluppati ma a quelli che restano indietro.
Anche qui il dramma è totale. Stando ai dati, più impietosi di quanto potessimo aspettarci, un terzo degli italiani tra i sedici e i sessantacinque si colloca nella fascia in cui troviamo tutti coloro che sono totalmente incapaci di riconoscere la veridicità di un’informazione. Oltre ad essere tendenzialmente inclini a discriminazioni/pregiudizi nei confronti di tutto ciò che appare distante dal loro mondo dorato fatto di click e condivisioni online. Leggere, crescere culturalmente, approfondire i contenuti con cui si viene in contatto, sono solo i primi passi per provare a pensare di uscire da questa situazione. Non crediamo infatti che oggi, duemilaventitré, sia (ancora) possibile essere incapaci di comprendere testi anche semplici, riportarli nella corretta versione, avere una conoscenza superficiale di fenomeni politici, scientifici, storici, sociali, economici (conoscenza fatta esclusivamente da esperienze personali, legata a quella delle persone “vicine”), tendenza a generalizzare, ragionare in modo stereotipato e pregiudizievole senza senso critico. Eppure è tutto vero, basta guardare le figure di governo in carica al momento, e i loro corrispondenti antagonisti. Alla fine, forse, ce li siamo meritati. Anche noi, che non abbiamo fatto abbastanza.
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