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Recensione : CUT – DEAD CITY NIGHTS

cut dead city nights : Il trio garage/punk/noise bolognese arriva al settimo album, "Dead City Nights", uscito il mese scorso, composto durante il periodo pandemico e ultimato tra la natia Bulagna e gli States, è anche il primo long playing del gruppo in cui, ai veterani Ferruccio Quercetti e Carlo Masu si aggiunge ufficialmente su nastro la presenza del batterista Tony Booza (già in formazione da un lustro).

Di recente, navigando sul web, mi è capitato di leggere un commento che mi ha fatto riflettere, e che recitava più o meno così: “Dopo aver imposto Elettra Lamborghini, Fedez, Arisa, Negramaro e Modà, con i fan dei Maneskin si è voluto fare un esperimento sociale, cioè vedere fino a che punto si puo’ portare a far accettare il nulla artistico alle fasce intellettive più deboli tramite il bombardamento mediatico“. In effetti, considerato il fatto che ormai internet e i social media, da due anni a questa parte, sono invasi da “contenuti” e notizie sui Maneskin ogni giorno (e quasi tutte riguardanti aspetti secondari, rispetto alla musica proposta dai quattro pischelletti romani) direi che questa affermazione sia sostanzialmente esatta. Ma in realtà, in un mondo ideale, questo pattume pseudo-musicale gossipparo, tutto basato sull’immagine, l’apparenza effimera e i cliché (e pompato dai dollari dalle multinazionali) non dovrebbe avere ragione di esistere perché, se si desse davvero spazio a band di talento che meriterebbero riconoscenza per il loro essersi fatti il mazzo per anni e anni, facendo gavetta sui palchi di tutta Italia e anche in Europa (e non costruendo ad arte finte favolette del gruppo di ragazzini che “meritano il successo che hanno perché vengono dalle strade dàààà Capitale, ceh suonavano nelle scuole e a via del Corso, fratè, scialla, e se li critichi sei un rosikone” e poi sono diventati “famosi” grazie a TikTok) non ci sarebbe “algoritmo” che tenga, ma si farebbero ben altri nomi, e uno di questi dovrebbe essere quello dei CUT.

Il trio garage/punk/noise bolognese arriva al settimo album, “Dead City Nights“, uscito il mese scorso, composto durante il periodo pandemico e ultimato tra la natia Bulagna e gli States, è anche il primo long playing del gruppo in cui, ai veterani Ferruccio Quercetti e Carlo Masu si aggiunge ufficialmente su nastro la presenza del batterista Tony Booza (già in formazione da un lustro). Due chitarre e una batteria, attitudine e mentalità, sangue e sudore in ogni concerto suonato come se fosse l’ultimo, un percorso che va avanti da venticinque anni: quando ci sono le idee non serve altro.

La laida Bologna, seppure raccontata in questo disco come una città “morta” (ma la descirizione potrebbe essere una metafora applicata per ogni altra grande città italiana dei nostri tempi, purtroppo) a livello culturale e di fermento musicale e sociale per svariati motivi (in primis le pandemie sanitarie, ma anche crisi economiche, recessioni, carovita, disoccupazione e precarietà lavorativa e morale, guerre, politiche governative repressive e liberticide, riflussi ideologici, mancanza di presa di coscienza politica collettiva da parte delle masse, soprattutto tra i giovani) e un tempo fervido laboratorio del movimentismo musicale e giovanile, ci regala ancora un altro disco di fottuto garage rock ruspante e selvaggio com’è da sempre nello stile del terzetto emiliano, con la sola differenza, rispetto al passato, dell’assenza di special guests (per cause di forza maggiore) a collaborare coi nostri, ma per il resto ritroviamo brani relativamente veloci (solo la title track sfonda i cinque minuti di durata) ed energici, con “They got beat” ad aprire il lotto elettrico con echi di Gang Of Four e Fall. Ma, in generale, lungo tutto l’arco delle tredici tracce del full length ci si posiziona, a livello sonoro, dalle parti del lerciume del CBGB, delle incarnazioni di Jon Spencer, dei Cramps e del garage-noise-blues punkizzato deflagrante della New York decadente eroinamane a cavallo tra Eighties e Nineties (Chrome Cranks, Honeymoon Killers, Laughing Hyenas, Cop Shoot Cop, Unsane) prima della gentrificazione e sanitizzazione operata dalla politica indottrinata dall’economia di mercato neoliberista. I CUT hanno voluto esorcizzare questo momento storico angosciante facendo ciò che gli riesce meglio: comporre canzoni adrenaliniche e scuoticulo, in primis per se stessi, e poi con l’intento regalarle al fedele zoccolo duro del suo pubblico, una volta allentate le restrizioni pandemiche e tornati finalmente i concerti dal vivo.

Mmmmmhhh, ora che rileggo ciò che ho scritto nel pippone iniziale, e pensando al quoziente intellettivo medio del popolino (con tutto ciò che il “successo” di massa comporterebbe) forse è meglio che gruppi come i CUT restino un segreto ben custodito da una nicchia di poche migliaia di (buongustai) eletti appassionati.

cut dead city nights

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