Un nuovo ibrido musicale torna dal passato per merito di Desmond Doom, a cavallo di un surf e con i capelli cotonati. Si passa poi al massiccio southern metal dei Shoutgun Facelift e terminiamo con l’industrial electro rock di Raymond Watts.
DESMOND DOOM
Ci sono visioni musicali che riescono a spingersi là dove nessuno era mai stato, o vedere qualcosa di nuovo dove prima c’era solo qualcosa di stabilito e costante, sentire una nuova vibrazione dove prima era silenzio. Come il caso di Desmond Doom da Melbourne, Australia, che suona un’incredibile commistione di musica surf e goth.
Sì avete letto bene, surf music con i suoi arpeggi melodiosi e la bellissima claustrofobia del goth, quei sogni malinconici in uno spazio che si sta chiudendo. Ad una prima vista i due generi sono le due cose più distanti che si possano immaginare, almeno per ciò che abbiamo di loro nella visione comune : il surf è sole, divertimento e una musica prettamente americana, virtuosismi chitarristici e melodie chiare e pulite.
Mentre il goth fa parte di quella spiritualità europea cupa ed immanente, giri di basso che si legano ad una batteria spesso elettronica che non lascia scampo, descrivendo ciò che succede in menti che vedono oltre la normalità, per un sentire tipicamente anni ottanta che si formò già negli ultimi anni settanta e che sarà molto fecondo per tante tendenze e stili musicali che stiamo vivendo ancora adesso. Desmond Doom con il suo goth surf equilibra i due generi e riesce a fare qualcosa di molto originale, anzi proprio di unico. In questo autoprodotto “Surf-Goth ep” autoprodotto sia dalla bellissima copertina che dal titolo non lascia scampo a dubbi.
Ovviamente le chitarre sono territorio di conquista del surf, con i suoi arpeggi che qui diventano ben più oscuri e tirati, una luce che può diventare presto tenebra, come sono stati per davvero gli anni sessanta, surf, guerra fredda, amore e Charles Manson. Batteria elettronica, basso bellissimo, vero protagonista goth, e la migliore descrizione la dà proprio Desmondo Doom : immaginate i Joy Division che incontrano gli Smiths nell’Europa dell’est.
Dolcezza, malinconia e un deciso tocco di novità in due suoni nei quali pensavamo di aver sentito tutto, ed invece vi erano linee musicali ancora inesplorate e da riempire con ottime idee come questa, che sembra strana, invece mostra quanto i generi siano convenzioni e che la musica vada molto, molto più veloci delle nostre delimitazioni.
Un ep con nessun punto debole.
SHOTGUN FACELIFT
“Dakota blood stampede” uscito nel 2021 su Eclipse Records seconda opera dei Shotgun Facelift è una piccola gemma di southern metal e groove metal senza compromessi.
Nati nel 2012 a Grand Forks nel North Dakota il gruppo ha passato molte situazionei difficili e ha avuto abbastanza cambi di formazione, ma con questa line-up si è finalmente stabilizzato e ha dato alla luce questo gran bel disco. Il suono del gruppo americano è molto potente e al contempo ha un altissimo tasso di groove, gira benissimo e tutto il gruppo conosce molto bene cosa fare in qualsiasi situazione.
L’impasto sonoro è altamente southern e groove metal, deriva in maniera abbastanza importante dai mostri sacri del genere ma possiede sicuramente qualcosa di molto molto speciale. Innanzitutto hanno un ottimo uso delle melodie che si amalgamano molto bene con le parti più dure e troviamo un deciso slancio verso le istanze più moderne del metal, infatti ci sono parti quasi metalcore se possiamo definirle così, come il brano “Bury me” che ha un ritornello e un bridge clamorosi, coinvolgenti e anche intimi se vogliamo.
Un’altra caratteristica del disco è la sua sicurezza, è un lavoro che traccia dopo traccia lascia nell’ascoltatore un’impressione di grande solidità, ad esempio non è da tutti cominciare un pezzo come “5 dollar bastard” in maniera bruta death metal e continuare il pezzo con un clamoroso southern metal per arrivare al metal moderno del ritornello, e il tutto con grande bilanciamento.
Grandi spazi e grandi riffs, molta solidità e decisamente qualcosa in più rispetto a tanti gruppi simili.
PIG
Se si vuole parlare di musica industriale in Europa e in particolare di electro rock si deve per forza nominare l’inglese Raymond Watts, musicista che ha collaborato con i KMFDM, è stato parte importante della scena fin dai primi anni ottanta ed è andato in giro con KMFDM, Nine Inch Nails, Einstuzende Neubaten, Schaft, Schwein e molti altri. Watts è una di quelle antenne umane in grado di captare gli umori e le vibrazioni degli ambienti dove sta e di tramutarli in musica, come fece con le difficile Berlino degli anni 80, o l’Inghilterra degli anni novanta. Anche in quella pazzia non si sarebbe mai immaginato di passare due anni al confino senza musica dal vivo e tantissimi problemi per chi vive di musica.
Da questo periodo difficile nasce “The merciless light” in uscita per Metropolis Records. Questo disco rappresenta molto bene la musica di Watts, un electro rock virato all’industrial, con un grande gusto teatrale e un grande uso della melodia per arrivare a scavare ancora più a fondo nel vizio e nella perdizione. Raymond è quasi un bluesman, uno sciamano che conduce chi vuole seguirlo nel suo percorso che si perde nelle tenebre, un cammino coerente che dura da molto tempo.
Negli ultimi anni l’industrial ha mostrato molte facce, dai Rammestein e tutta l’ondata tedesca, ai gruppi inglesi dei metà duemila fino alla splendida intransigenza del sottobosco di questo genere, anche perché l’industrial significa molte cose diverse, più che un genere è un sentimento musicale, un qualcosa che va oltre.
E questo qualcosa è interpretato benissimo da Watts in questo disco, come ad esempio nella splendida “Feed the wound” una traccia con un ritornello clamoroso e che mostra molto ma non tutto di questo disco che è un continua sorpresa. Dall’elettronica più vicina al rock con Jim Davies, già con Pitchshifter e Prodigy che cuce momenti importanti, ad un’elettronica molto vicina al big beat degli anni novanta, quel suono pompato e pieno che conquistò anche il mainstream e che è rimasto in spazi come questo.
Ma non si ferma qui, Raymond è un fiume in piena che ci inonda con le sua canzoni di sangue, liquidi e cuore, colme di melodia ed elettro rock. Watts con la sua musica sensualità si insinua nel nostro cervello, con i suoi suoni lascivi e molto ben prodotti, e ha davvero qualcosa di speciale, e questo qualcosa può essere colto dall’ascoltatore più avvezzo come da quello maggiormente profano.
Una festa di liberazione, una musica che entra dentro e avvolge tutti i sensi, un gran bel disco disegnato anche da musicisti e complici di lunga data come En Esch e Steve White, un ascolto entusiasmante e decadente, tanto decadente.