Personalmente adoro i Dinosaur Jr., una volta sono anche riuscito a vederli in concerto, ed è stata una delle serate più belle della mia vita, per il me amante dell’alternative rock, indie rock americano e affini, è stata quasi la realizzazione di un sogno. Personalmente ho sempre considerato J. Mascis una via di mezzo tra Neil Young e Jimi Hendrix, nell’ambito dell’indie/alternative rock americano e mondiale, soprattutto per quella sua capacità di farti piacere e rendere accattivanti alle nostre orecchie litanie miagolanti e gemiti scazzati, cantati con tono apatico e lamentoso (tipico di Young) e quella sua abilità nel miscelare le sue influenze hard/heavy rock con l’hardcore punk (e post-punk) e triturarle in un gradevole pot-pourri di incredibili fraseggi e assoli alla chitarra, talmente intricati e vorticosi da poterli considerare una sorta di bignami Hendrixiano frullato e vomitato alla velocità della luce, in un sottogenere del rock ‘n’ roll che si è ramificato partendo dalle sue radici punk e dall’hardcore, mondi che vedevano nel tecnicismo narcisistico e nei virtuosismi autocompiaciuti dei musicisti masturbazioni da rockstar, e il divismo come il Male assoluto. E poi arrivò lui, J. Mascis, lo slacker strafottente che, nella seconda metà degli anni Ottanta, ha messo d’accordo tutti, dai fan da MTV ai punk duri e puri, intortandoli con il suo stile “Black Flag meets Black Sabbath, corretto Hüsker Dü (e una spruzzata di noise pop)”, i cui frutti benefici furono raccolti, a livello commerciale, da un certo dischetto intitolato “Nevermind“, uscito esattamente 30 anni fa.
Cosa aspettarsi, oggi, da una band come i Dinosaur Jr., in giro da oltre 35 anni, e che ormai da decenni ha indovinato una formula collaudata e vincente? Che riproponga la “solita minestra” in eterno o che aggiunga qualche elemento nuovo alla sua pietanza, ma senza snaturarne il sound? Probabilmente il trio di Amherst ha provato a conciliare entrambi i propositi. Con l’avanzare degli anni, consapevoli che non si può essere adolescenti per sempre, Mascis e Barlow si sono lasciati andare (soprattutto negli episodi solisti) a sperimentazioni più soft, con solo album prettamente acustici, o comunque segnati da arrangiamenti strumentali lontani dal fragoroso marchio di fabbrica elettrico della band madre.
A cinque anni da “Give A Glimpse Of What Yer Not“, i Dino tornano con un nuovo album, “Sweep It Into Space“, la cui pubblicazione era in programma a metà 2020, ma la pandemia da covid-19 ne ha ritardato l’uscita. Il disco vede alla co-produzione Kurt Vile (che ha suonato anche la chitarra nel singolo di lancio dell’album, “I Ran Away“) e parte con un brano (“I Ain’t“) che ricalca subito lo standard creativo Mascisiano post-reunion della line up originale, pezzo dal classico andazzo Dinosaur al 100%, mid-tempo chitarristico molto melodico. Da grande fan delle Pietre Rotolanti, il frontman del Dinosauro ha poi scritto una canzone intitolata “I Met The Stones“, e anche in questo caso siamo sui consueti lidi qualitativi del trio del Massachusetts, rumore contenuto e ritornello melodico/melanconico, tipico della penna di Mascis. Sullo stesso registro anche “To Be Waiting” e la già citata (ma un po’ più movimentata e colorata) “I Ran Away”, poi trova posto la delicata ballad “Garden“, cantata da Lou Barlow e già suonata in anteprima dal bassista durante una delle sue dirette streaming casalinghe l’anno scorso, durante il periodo di lockdown. Ma dopo una prima facciata contraddistinta da dolcezza e un rendimento tutto sommato buono ma non eccelso, con “Hide Another Round” il gioco si fa duro e finalmente Mascis e soci cominciano a salire di livello e di volume, ottima track con la chitarrozza e il wall of sound finalmente protagonisti, un feeling che riporta alla mente le atmosfere dei primi anni Novanta (e di album come “Green Mind” e “Where You Been“) con distorsioni e una melodia saltellante che si smuove dal registro basso e indolente, trademark di J. Mascis. Di gran lunga il migliore brano del lotto, a detta di chi vi scrive. Si continua su buoni ritmi con “And Me” (che presenta un ficcante assolo che insaporisce una canzone altrimenti ordinaria) e una convincente “I Expect It Always“, discreta martellata alt-rock con un azzeccato bridge catchy e un sound chitarristico notevole. Dopo l’intermezzo “Take It Back“, semiballad elettrica in cui la band diversifica la sua tavolozza sonora aggiungendo un piano sbarazzino, troviamo “N’ Say“, un’altra bella “mazzata” che col cuore ci fa tornare indietro di oltre 30 anni, col suo andamento squillante e un Mascis ispirato, un brano che forse non avrebbe sfigurato su “Bug“. Il long playing si chiude con “Walking To You“, altra fragranza che profuma del migliore alt-rock di inizio Nineties, e con la conclusiva “You Wonder“, agrodolce ballata folk-rock che vede di nuovo Barlow al canto. Logicamente, non ci si può dimenticare del prezioso apporto alla batteria garantito da Murph, che fornisce la consueta, solida prova di possente drumming.
Un disco forse non indimenticabile, ma la prova è superata con discreti voti. In un mondo che va a rotoli, dove certezze e punti di riferimento (di qualsiasi tipo) si sgretolano sempre più col passare del tempo, da almeno tre decadi i Dinosaur Jr. restano una tra le poche garanzie assicurate dal rock ‘n’ roll: da questo power trio sai sempre cosa aspettarti, ed è una “monotonia” che non stanca.