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Dittico Del Sangue Di Andrea Biscaro

Dittico del Sangue di Andrea Biscaro : Andrea Biscaro, il prolifico scrittore, nonché songwriter e chitarra degli ottimi Secondamarea, continua la felice escalation letteraria, interessante, al pari di quella musicale, che solo nell'ultimo anno vede la pubblicazione di tre libri ed un album.

Dittico del Sangue Andrea Biscaro

Andrea Biscaro, il prolifico scrittore, nonché songwriter e chitarra degli ottimi Secondamarea, continua la felice escalation letteraria, interessante, al pari di quella musicale, che solo nell’ultimo anno vede la pubblicazione di tre libri ed un album.

Le sue qualità dense di peculiarità sono segnate da tante collaborazioni e fantasiosi progetti compìti e coinvolgenti, tali da designarlo valente artista a 360°.

Sappiamo da fonti certe che il nostro risiede in pianta stabile all’Isola del Giglio ed in quel luogo sacro, tempio della natura e di attività umane collegate al territorio, luogo turistico e storico di notevole importanza volto ad aumentare le prospettive paesaggistiche di una Toscana ricchissima di tesori e tradizioni da scoprire, ha escogitato il suo ultimo lavoro dal titolo “Dittico del Sangue”, trasponendovi molto di quell’angolo di Italia, il cui prodotto principe è un vino, forse sconosciuto ai più, che risponde al nome di Ansonaco. Esso deriva da un vitigno antico che attecchisce su quel terreno, ove sparuti coraggiosi viticoltori ne promuovono correntemente la coltivazione, a spada tratta, ricolmi d’amore e d’ardore, dedicando a lui ogni energia ed essendone ripagati in… beh, ma il compenso è alla portata di tutti acquistando una bottiglia del prezioso liquido ed identicamente fuoriesce enfatico dalle pagine del libro qui in vetrina, di cui ne è simbolico protagonista ed ispiratore.

Un piccolo sunto della trama. Antonio Brando, scrittore milanese di fama internazionale, campa bene della rendita ricevuta dalla vendita dei libri scritti ormai fino a sette anni prima, quando fu colto dal blocco dello scrittore; blocco che persiste al traguardo dei 50 anni compiuti.

Ereditata da uno zio sconosciuto una casetta posta vicino al mare, adiacente la torre medicea in Campese, località costiera gigliese, si sposta da Milano e giunge col traghetto, preso da Porto Santo Stefano, sull’Isola del Giglio: in loco dovrà valutare il lascito e sbarazzarsene in breve tempo con la vendita, ben sapendo che lì, lui, il raffinato cittadino milanese, sarebbe stato poco adatto al tran tran isolano.
La sua agente letteraria, Valentina, unica amica e grande fan dello scrittore, nonché curatrice della gallina dalle uova d’oro, gli suggerisce via cellulare di non farsi mancare durante il soggiorno l’assaggio del celebre Ansonaco: e la pulce è saltata all’orecchio.

Dall’approdo di Antonio al Giglio, in poi, si snoda una storia affine alla fabula che lo riguarda direttamente e che in un secondo momento coinvolgerà anche la sua agente, addentrandoci in una vicenda esoterica di gran gusto e leggerezza, scoprendo tratti comuni alla commedia rosa, e inevitabilmente nera, cinematografica hollywoodiana e italiana, evidenziando piccoli cammei o innesti che fungono da – e lo sono pure –  citazioni: così inquadro il riflessivo Brando in piedi sul ponte del traghetto, ne ho impressione di similitudine a quella presa da un passaggio del famoso ‘Donna di Porto Pim’ del Tabucchi, o una frase alla bisogna estratta da ‘Arancia Meccanica’, si veda inoltre il rimando in lingua latina di Orazio, che campeggia all’ingresso abitativo…

Biscaro utilizza un linguaggio sciolto, in surplace, misto di esclamazioni ad effetto ed onomatopee; vieppiù svolazzano giochi di parole, riuscendo nel complesso fluido, divertente, complice e soprattutto implica il lettore alla narrazione con le descrizioni geografico-storiche del posto, palesando in presa diretta il bouquet visivo, uditivo ed olfattivo della solitaria primavera isolana. Sicuramente attrae ipnoticamente con la magica ed oscura trama, col sogno in essa generato (quel viaggio favoloso, tremendo, del corpo e della mente) e quindi per mezzo degli umori avventati diffusi dal protagonista, non solo prodigo di profumi oltraggiosi tratti da fantasticherie ‘eno-logiche’ ivi profuse. Minuziosa risulta in aggiunta la briga da ritrattista devoluta per caratterizzare il protagonista, Brando (che io immedesimo nel campione del quiz televisivo ‘L’Eredità’, a cavallo della precedente e della attuale edizione, individuato in tal Prof. Guido Gagliardi).

Facile entrare nei personaggi e nel loro agire sul perimetro gigliese, Brando non fa mistero delle sue paure e fobie, né dei cambiamenti improvvisi di pensiero che assecondano gli eventi; spesso si lancia in soliloqui e brevi riflessioni, cui il corsivo della coscienza e lì a rintuzzarlo onde redarguirlo.

Pur mancando la malizia implacabile del terrore (facile il richiamo ad esso) serpeggiante nel racconto di E. A. Poe, ‘Il Barile di Amontillado’, rinveniamo tutt’altra direzione, non soltanto stilistica, quanto contenutistica, ad attenderci paziente dal ribollir de’ tini.

 

A svettare da sopra la coffa dell’immaginazione è il fondo della storia: l’imponente vascello estroso, targato A. B., conduce dentro tematiche profonde imprescindibili per una navigazione ideale, il vero tesoro seppellito nel libro si delinea certo nel testo tutto, ma forse accentuato in alcuni particolari la cui funzione è di assoluto riferimento, come la stella polare per la navigazione celeste, e il denudarli sarà compito del lettore, sebbene trascinato gradatamente nella fagocitante spirale delle parole (che lo impegnerà a rimanere a galla), vale a dire la scala prescelta per calarsi negli inferi della fabula.

 

Preso possesso della casa in mattinata, passa poi una notte brava a suon di ingollate e di buon cibo locale, rimandando in seguito l’esplorazione di un ripostiglio, chiuso col lucchetto, posizionato in fondo al corridoio. Il fatto che Vanni (gigliese dell’allegra ospitale brigata incontrata quella prima notte in cui era a caccia di un ristorante dove poter cenare) abbia saputo da Brando che costui ha ereditato da Ariondo Bontan il casato alla fortezza medicea, fa sì d’avvertirlo delle stranezze risapute sul conto del defunto zio, dipinto quale presenza sfuggente, ombrosa, introversa e diabolica, ma che produceva l’unico e solo vino stregato al Giglio, detto Sangue d’Ansonaco; un elisir incantato, frutto del patto col Diavolo, espressione di magia nera, sicché a berlo rendeva pazzi, proprio come lo fu il fratello di Vanni, colto dalla sventura di assaggiare quel fantasmatico vin liquoroso.

Brando sulle prime se la ride, della serietà rivelata, pensa a uno scherzo goliardico e si congeda dagli ospitanti ben ubriaco… Al rientro, si accorge che il pavimento del corridoio di casa è allagato dal sangue!!! Questo sgorga copioso da sotto la porta di quel ripostiglio chiuso a catenaccio.

Inevitabile, Brando scardina quella stanzetta che gli sembrava essere l’unico posto dove lo zio Ariondo avrebbe custodito il suo tesoro. E così accade. Penetrando da una porticina segreta, viene attratto dagli intimi arcani nascosti dietro una parete del ripostiglio, andando a scovare l’ambrosia stupefacente prodotta esotericamente nella cantina dal fu Ariondo: bottiglie centenarie vergate a mano dal parente – incredibile a dirsi – lasciano intendere che colui visse per secoli vinificando la magica libagione, ed ogni bottiglia datata, una volta trangugiata, raccontava di un viaggio, di una storia funambolica pregna di suspense, il cui farne a meno, di dette sollecitazioni fantastiche prossime all’allucinazione, diventava assurdo divieto che non obbediva alla forza suprema che lo riconduceva al nettare degli dèi – suvvia, era diventata ragion di vita per l’erede.

 

Brando diventa schiavo del Sangue d’Ansonaco e anche dello zio tiranno, il qual si palesa in spirito e carne, protetto da sembianze luciferine, mostrandosi come una specie di vago satiro grufolante e lezzoso, provvisto di piedi porcini, peli setolosi da cinghiale sulla pelle, in volto bruno, gli occhi rossi maialeschi e dietro le labbra rancide lo spuntare d’orribili e storti denti, spandendo intorno sprezzanti ghigni agghiaccianti di risate sbeffeggianti, atte a dileggiare a suo godimento il prigioniero e, rispetto a lui, giovane parente. Hic!

Nei pochi sprazzi di lucidità concessi alla mente sobria, Antonio Brando invia sms di SOS alla agente ed amica, nutrendo il di lei sospetto che abbia davvero bisogno di aiuto. Ma dopotutto, prima di sparire, lui aveva informato lei di non voler essere disturbato, al fine di scrivere in santa pace il nuovo romanzo.

Eppure il comportamento silente è anomalo, Valentina comincia seriamente a preoccuparsi dell’amico non vedendo ricambiate le attenzioni esternate tramite sms, mail e chiamate.

Dopo 10 mesi il fatidico colpo di coda, Vale decide di mollare il lavoro (sacrosanto per lei) e di imbarcarsi verso l’Isola del Giglio per sapere cosa cavolo fosse successo al Brando, spinta dalla preoccupazione insostenibile da cui era attanagliata e dalla ricezione di un raro sms partito dal suo dispositivo il giorno prima; le si chiedeva di salvarlo, di portarlo via dall’isola, altrimenti… e s’intuiva il peggior epilogo da quelle sibilline parole digitate.

 

Le 200 sonore e ritmate pagine, talvolte convulse sapientemente quanto dosate, fluiscono vigorose nel calice cerebrale e smaliziato del lettore, inebriandolo come vino; quel vino che racconta una storia attraverso la comunicativa che attua col destinatario, a cominciare dall’avere tra le mani la bottiglia sigillata (o certamente il libro, che fotografa in copertina una coppa di bianco Ansonaco, ove accingono a disciogliersi poche stille di sangue). E allora scatta la ricerca, lo studio, il gusto, il piacere, sentori e colori; la gamma completa delle sensazioni che esalano seducendo la mente saltano fuori, a cuore aperto, e ci si ritrova in uno sperduto confronto dialettico mediato dalla narrazione tacita tra due entità spirituali.

Lo sdoppiamento è un tema caro ad Andrea Biscaro, il sogno e la realtà, la fuga da essa e l’inadeguatezza a starsene buoni a recitare il proprio ruolo terreno, così come pure si ravvisava in “Un Canto Glamour in Punta di Coltello”, farcito dalle doppiezze sortite nel protagonista Zeno.
Certamente un artificio per leggere meglio la realtà circostante e scrutarne meglio i desideri reconditi di ciascuno, l’enzima vitale dello scrittore, avvolgente e sconvolgente, da cui mollare gli ormeggi e salpare.

 

Il viaggio psicologico e fantastico ammanta con maggiore levità e divertissement il “Dittico del Sangue”, ed è un vero dispiacere vedere sfoltire tra le dita le pagine sino al finale; piange il cuore lasciare andare via questa storia ai soffioni spiranti del grecale o del libeccio, riconsegnarla all’aria marina che la riaccoglie sotto la propria ala infervorata dalle microgocce saline spumeggianti di acqua infranta con forza sulla scogliera dell’isola ed ingloriata dalla affabulazione fine del Biscaro.

E ci concediamo un sano relax romantico, trepidante, sincero, dotato di impeto generoso capace di servire sul piatto d’argento il mix di meraviglie ed emozioni disparate, seppur vincolate come viti al traliccio, intrecciate con la cultura ed il fascino sempre vivo della penna di un bravissimo autore che tiene costantemente in ottima compagnia i suoi lettori, soddisfacendo, a colpi di bacchetta magica, la loro sete di genuina letteratura, magari svelando (?), per i più attenti, tal quale a quanto avviene ne ‘La Figura nel Tappeto’ di H. James, anche il mistero del titolo.

 

Editrice: http://www.ereticaedizioni.it/  (204 pagine).

 

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