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E’ morto Steve Albini

Un altro orrendo lutto arriva a devastare la comunità mondiale del rock ‘n’ roll in questo 2024. Nella giornata del 7 maggio, infatti, ci ha lasciati, all’età di 61 anni, anche Steve Albini, noto frontman, musicista, record producer (termine tuttavia detestato dal diretto interessato) e ingegnere del suono e critico musicale statunitense. La notizia dell’improvvisa scomparsa, avvenuta a causa da un infarto nei suoi Electrical Audio Studios di Chicago, è stata testimoniata dallo staff dello stesso studio di registrazione.

Nato a Pasadena (California) il 22 luglio 1962 da genitori di origini italiane-piemontesi, e cresciuto nel Montana, Steven Frank Albini (questo il suo nome completo all’anagrafe) fu folgorato, durante l’adolescenza, dalla scoperta del punk rock di Ramones, Sex Pistols, DEVO e Pere Ubu, trasferendosi poi, a 18 anni, a Chicago (Illinois) dove studiò giornalismo e iniziò a scrivere per ‘zines musicali come Forced Exposure, a gestire piccole etichette punk come la Ruthless Records e a esordire in cabina di regia facendo da tecnico del suono nelle incisioni di altre band, diventando in breve tempo una figura di spicco della locale scena HC punk e contribuendo a forgiare un suono, ruvido e ostico, che trascendeva l’hardcore e in seguito definito post-hardcore.

Nel 1981 Steve (ispirato da Stooges, Birthday Party, Suicide, Minor Threat, Link Wray, Rudimentary Peni, Throbbing Gristle, Gang Green, Swans, Chrome e Bad Brains, tutti gruppi citati come influenze sulla sua musica) formò i Big Black, un ensemble fondamentale nello sviluppo delle scene post-HC, industrial e noise rock, con cui venne subito fuori la natura iconoclasta di Albini (empaticamente freddo, liricamente provocatorio e cinico col pubblico ai concerti) e pubblicando dischi seminali come “Atomizer” e “Songs about fucking“, fino allo scioglimento avvenuto nel 1987, anno in cui Albini fondò i Rapeman, coi quali registrò “Two nuns and a pack mule”, album altrettanto visionario e importante per la parabola della scena indipendente statunitense. Nel 1992 continuò il suo percorso musicale formando gli Shellac, combo post-HC/noise/math rock che ha portato avanti fino alla sua prematura dipartita, incidendo complessivamente sei Lp, e che quest’anno era in procinto di far uscire un nuovo album e stava pianificando un nuovo tour.

Parallelamente all’attività di musicista, Albini è stato anche un rinomato recording engineer (fondando e costruendo gli Electrical Audio Studios a Chicago) improntato su una precisa filosofia lavorativa DIY, basata su un approccio spartano senza compromessi e sulla regola ferrea del rifiutare crediti e royalties, non facendosi pagare percentuali sulle vendite dei dischi di cui aveva curato la parte tecnica, considerandolo un comportamento non etico nei confonti dei musicisti con cui collaborava, e limitandosi solo a percepire un cachet esclusivamente per il tempo impiegato nelle registrazioni effettuate in studio. Quando registrava i gruppi, lo faceva esclusivamente in qualità analogica, non interferiva con le loro scelte artistiche, non imponeva la sua visione ed era solito posizionare i microfoni anche in parti inusuali dello studio, come (ad esempio) a terra sui pavimenti, con l’intento di catturarne le vibrazioni. Prolifica e praticamente sterminata è la lista degli album di cui è stato ingegnere del suono, producendo dischi rock ‘n’ roll leggendari tra cui “In utero” dei Nirvana, “Rid of me” di PJ Harvey, “Surfer rosa” dei Pixies, “Pod” delle Breeders, “Tweez” degli Slint e collaborando con Stooges, Jesus Lizard, Fleshtones, Low, Helmet, Mogwai, Don Caballero, Motorpsycho e tanti altri (tra cui i nostrani Uzeda, con cui strinse uno speciale rapporto di amicizia).

Personaggio dalle tante sfaccettature, Albini era molto critico nei confronti dell’industria discografica e del mainstream, era solito vestirsi con una tuta da lavoro per identificarsi con un tecnico (“Vorrei essere pagato come un idraulico: faccio il mio lavoro e vengo pagato per quello che vale” scriveva nella famigerata lettera ai Nirvana in cui erano poste le condizioni da accettare per lavorare insieme a lui su “In utero”) e non voler essere chiamato producer. Non indossava la chitarra ma la teneva attaccata alla cintura come una metaforico prolungamento del suo corpo e anima. Albini è stato anche un appassionato di baseball, cucina e un competente giocatore di poker e, per diversi anni, ogni 25 dicembre aveva preso l’encomiabile abitudine di praticare gesti solidali travestendosi da Babbo Natale e distribuendo regali alle famiglie bisognose di Chicago.

Qui è possibile leggere una raccolta di tributi, ricordi e commemorazioni che in queste ore sono state pubblicate da amici e colleghi musicisti che hanno conosciuto e stimato Steve Albini.

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