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Recensione : Eddie and the Subtitles”Skeletons in the Closet”, 1981-autoproduzione/2022-Slovenly Records

Eddie and the Subtitles"Skeletons in the Closet", 1981-autoproduzione/2022-Slovenly Records // Più che di scheletri nell’armadio, parlerei di tesori nascosti, giustamente riproposti ed esibiti sotto gli occhi di chiunque voglia erudirsi su tutto quello che veramente è lo spirito punk....

Più che di scheletri nell’armadio, parlerei di tesori nascosti, giustamente riproposti ed esibiti sotto gli occhi di chiunque voglia erudirsi su tutto quello che veramente è lo spirito punk: lanciarsi in avventure soniche senza un perché e senza un per come, solo volontà di esprimersi avvolti in reti di rumore e scelleratezza.

Questa ristampa, necessaria come acqua nel deserto (si parte da 95 euro per un originale), è il primo album di quel piccolo gioiello dimenticato che furono gli Eddie and the Subtitles: fantasia, rigore, versatilità, il tutto legato a doppio filo con l’etica punk di Orange County, luogo di provenienza del gruppo.

Uno dei primi dettagli, e non da poco, da tenere presente è che, gli EATS, erano il gruppo dove ha militato Mike Patton, e non il cantante particolarmente dotato di Faith No More e Mr. Bungle (e mille altri progetti di cui è inutile fare menzione tanto son famosi), ma personaggio chiave di una scena che, tutt’oggi, ha guadagnato, a buon diritto, lo status di leggendaria.

Già nei Middle Class (il loro debutto “Out Of Vogue” fu, nel 1978, il primo vero mattone posto in quello che sarà l’hardcore punk di scuola californiana) , Mike è stato anche produttore di dischetti del tipo il debutto omonimo degli Adolescents, Joy dei Minutemen e Dangerzone dei China White (non esattamente “robetta”).

Non pago è stato anche membro dei Cathedral Of Tears (squisito progetto post Christian Death di Rozz Williams) e dei Trotsky Icepick (una delle notevoli reincarnazioni dei mai abbastanza lodati Urinals).

Una mente versatile, una mente vigile, una mente, in ultima analisi, dannatamente Punk.

Di tutta questa genialità gli Eddie and the Subtitles goderono ampiamente e, in questo loro debutto (ma chiamiamolo pure capolavoro, va!) si può respirare in ogni singolo episodio.

Disco che, più un armadietto con degli scheletri dimenticati, ricorda più, nel suo svolgimento, un carnevale di colori, movimento e messa in scena: un teatro off dove il trasformismo alla Fregoli gioca un ruolo di punta essenziale nella godibilità dell’intero insieme, col felice risultato di farsi altare e, in nome del punk, sacrificare vecchie e nuove pratiche del rock n’ roll americano:

ci si attiene alla linea con Zombie Drug Killers, un bel Punk Rock che si tiene in piedi su di una indimenticabile linea di basso, un sentore di Surf Rock e una durata intorno al minuto e si mantiene la stessa linea con il bel giro di chitarra, fangoso e dissonante, di No Virgins in Hollywood: un numero che fa pensare ai Flipper e alla loro precedente incarnazione Negative Trend.

Si rimane quindi nel genere ma con l’intenzione di girovagare in esso traendone spunti e suggestioni: American Society è un Hardcore Punk, veloce, antemico e cinico, perfettamente in linea con i loro coevi di Orange County. Preferirono non rischiare e far sentire subito a casa chi, all’epoca, avrebbe acquistato quest’album…tuttavia American Society chiude la trilogia Hardcore di apertura e, abrupto, sul quarto pezzo, Boppin’ Little Bobcat, si perde completamente la linea di inizio e si affonda il coltello in un bel psychobilly senza freni, dove la coerenza con l’inizio va ricercata non nel suono ma nella frenesia:

una danza forsennata e senza inibizioni, dal punk rock veloce al Rock n’Roll primigenio e primitivo. Ormai, con Boppin’ Little Bobcat, Eddie and the Subtitles sembrano aver rotto con ogni possibile indugio e, mantenendo un tiro rock n’Roll, si buttano improvvisamente sul Power Pop: Gina è un brano indimenticabile, che si canticchia già dopo il primo ritornello.

Le durate sono brevi ma la capacità di scrittura irrefrenabile e, a questo punto, non resta che lasciarsi guidare dal gruppo in un viaggio su e giù per la linea del tempo; viaggio però condotto sapientemente: se Magic inizia con un riff in odore di Post Punk, il suo svolgimento fa pensare ancora ad un Power Pop votato alla rimescolanza di vocaboli Rock’n’Roll anni ’50.

Stream of Consciousness porta fino in fondo quello che Magic aveva solo accennato nel suo attacco: un pezzo spiritato, tribale, abitato da fantasmi death rock e post punk dove il cantato si fa quasi liturgico.

Un pezzo bellissimo prima di venire strappati all’oblio e gettati nelle belle cover di We Gotta get out of this Place e Louie Louie, due ponti gettati verso il passato ma ristrutturati e riportati in vita con ritmi certo cadenzati ma che rimandano al Punk Rock; una volontà di continuità fra generazioni, un desiderio più che legittimo di mostrare come il Punk Rock non abbia rappresentato una rottura, un gap generazionale, nella storia del Rock’n’roll ma appartenga ad una tradizione ben precisa e carica di portato storico.

Chiarito ciò, gli EATS, si ributtano a capofitto in un esaltante e trascinante rockabilly con Movin’On per poi tornare Hardcore Punk in Child Sin, un pezzo decisamente alla primi TSOL (quelli di Abolish Government):

non esageratamente veloce ma urticante ed indimenticabile quanto basta per esser mandato a memoria all’istante.

Con Dave Dacron si riaffaccia il Post Punk in una ballata tesa e decadente, dalle armonie intense e con degli accorgimenti ritmici molto semplici ma efficaci; la capacità degli EATS di mantenere uno stile unico (e cioè tensione-armonia-sintesi) pur mantenendo una condotta stilistica ai limiti della schizofrenia riesce nel difficile compito di fare sentire l’ascoltatore sempre a suo agio, anche quando si torna di nuovo con il rockabilly di Treat Me Right alla tradizione Rock n’Roll e, in Your Head’s in the Right Position, ad un lentaccio alla Are You Lonesome Tonite di Elvis

E sul finale quindi il nastro si riavvolge, ma il riavvolgersi del nastro su se stesso si rivela un disastro, un disastro che però, trattandosi di Punk, diventa stupendo: si torna indietro davvero, il nastro subisce un danno nello scorrimento e una versione lancinante, dissonante, urticante, devastante, di American Society si riabbatte su di noi:

dal minuto scarso di inizio disco ad un inferno di cinque minuti che paiono anticipare, di qualche millesimo di secondo, i Black Flag di My War, i Flipper di Generic e i Fang di Landshark.

Un disco, questo Skeletons in the Closet, che potrebbe anche apparire sin troppo eterogeneo nella sua proposta, ma che, se ben contestualizzato e argomentato, rappresenta come una cartina geografica ben studiata di quello che era il punk al periodo e anche quello che sarebbe stato da lì a poco:

rivisitazioni Rockabilly per generare lo Psychobilly (i Cramps!!!!), devastazioni Garage per giustificarne il Revival (i Fuzztones, i Fleshtones e gli Outta Place…si, lo so, non esiste in realtà il Revival Garage degli anni ’80, poiché il Garage Punk è sempre esistito, ma era giusto per contestualizzare, appunto), incursioni violente nella Dark Wave per ispirare occulti riti Death Punk (TSOL, primi 45 Grave, primi Christian Death), attacchi Hardcore all’arma bianca e, come già detto, preparare il terreno a quelle frange di Punk oltranzista e dai sapori sperimentali che, a sua volta, avrebbero dato materia da lavoro per tutto l’underground musicale successivo.

Un debutto col botto in piena rivoluzione/evoluzione post-’77? Ma io parlerei proprio di capolavoro didascalico, anello mancante, e giustamente riproposto dalla Slovenly (che più che mai si conferma tra le mie etichette di riferimento) in un processo di maturazione necessario.

Date retta: non fatevelo scappare!

Eddie and the Subtitles”Skeletons in the Closet”

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