Nuovo progetto per la one girl band veneta Elisa De Munari, in arte Elli De Mon che, dopo aver dato vita a “Countin’ The Blues“, tribute album e libro incentrato sulla figura delle pionieristiche e coraggiose blueswomen afroamericane degli anni Venti del Novecento (ai quali hanno fatto seguito la graphic novel “La donna serpente“, e il libro di racconti “Muder Ballads“) e a due anni di distanza dal precedente full length, “Pagan blues“, si cimenta in una nuova avventura editoriale e musicale che si è concretizzata, il mese scorso, con “Raìse“, ottavo album ufficiale di Elli (uscito su Rivertale Productions) e, al contempo, un piccolo libro illustrato (con disegni curati da Luca Peverelli) che reinterpreta la leggenda di Sant’Orso, che è il paese natale (Santorso, in Veneto) dell’autrice.
Elisa, che per l’occasione ha riformato una band – un trio composto da Marco Degli Esposti alle chitarre e sintetizzatori, nonché al mixing e alla registrazione; Francesco Sicchieri alla batteria e, chiaramente, la polistrumentista Elli al canto e alle prese con chitarre, sitar, contrabbasso, ukulele, dilruba e harmonium – articola in dodici canti una favola gotica che rielabora un racconto popolare tramandato da tempi lontani per via orale (e radicato nel vicentino, nelle terre di origine di Elli) e segue il viaggio fisico e spirituale di Orso, viandante di origine francese, di nobile famiglia e abbandonato dalla stessa al suo destino, ma soprattutto un essere umano tormentato dal suo passato e alla ricerca di redenzione, in un percorso introspettivo e spirituale segnato da colpe da espiare e perdono ottenuto, identità e trasformazione, alienazione e appartenenza, capace di riscattarsi, ribaltando la sua esistenza e raggiungendo la salvezza dell’anima purificata da atroci peccati. Come logica conseguenza, è venuto più naturale alla De Mon – musicista versatile e poliedrica – mettere da parte l’inglese per abbracciare il dialetto veneto/vicentino, la lingua del territorio che ha generato questa storia/leggenda, riappropriandosene per proporre un genuino recupero delle proprie radici (“raìse”, per l’appunto) e rendere più credibile l’emotivo immedesimarsi nelle vicende narrate e musicate.
Riportare tutto a casa, ma senza rinunciare alla dimensione elettrica: le fondamenta folk/blues (in “Oseleto” (uccellino), “Giose“, “Sarò tera” e “Sinner“, che no, non è il tennista) si arricchiscono di elementi gospel (nella title track iniziale, e nella notevole “Sumàn“) e sorreggono una proposta resa con piglio rock ‘n’ roll fiero (ben esemplificato dalle ottime “Foresto” e “Babastrii” (pipistrelli), che arrivano a lambire territori desert rock à la Queens of the Stone Age, ma le chitarre sono ben presenti e graffianti anche in “Orso“) mentre il cantato di Elli oscilla tra il tormento, il sogno (nel canto popolare veneto “Nana bobò“, sorta di ninna nanna che la Montagna dedica al suo figlio errante ma ritrovato, che resta vivo nell’immaginario popolare di quei luoghi) la sofferenza e la disperazione (nella struggente interpretazione di “El me moro“, rivisitazione dark di un canto tradizionale femminile locale che parla di violenza domestica perpetrata dall’uomo padre/padrone) la rabbia e l’orgoglio. Un concept rustico, spigoloso e aspro come la montagna sacra, il Monte Summano, dove tutto è iniziato e dove il protagonista si riconcilia con se stesso trovando la pace eterna dopo tanto peregrinare, durante il regno di Carlo Magno, alla cui corte fu istruito nella cavalleria e le arti militari. Fonemi dialettali che si incastrano in maniera impeccabile con la materia sonica dell’Lp, Orso è stato poi santificato dalla Chiesa, ma ciò che conta per l’autrice è il sacrificio speso per redimersi, è più importante immergersi nella psicologia di un uomo che fa i conti coi suoi limiti e i suoi conflitti interiori, espia i suoi peccati commessi in un passato turbolento (si narrava che, dopo essere diventato Re in Dalmazia, istigato forse da false profezie demoniache, avesse commesso diversi omicidi di cui si era pentito e, per questo, si era recato a Roma dal Pontefice del tempo a chiedere la grazia, che gli fu concessa solo dopo aver portato a termine una pratica devozionale attraverso un lungo peregrinaggio, durato diversi anni, e sempre rivolto con gli occhi a terra e a capo chino, che lo avrebbe portato fino all’Alto vicentino, dove si stabilì nell’ultimo periodo della sua vita e in seguito si spense, sollevato dalla sua dannazione) affronta le sue crisi per uscire da se stesso e incontrare il proprio mistero, attraversando esperienze difficili, ma camminando trova la forza per uscire dall’oscurità.
Un disco che suona come una boccata di aria fresca e un piccolo manuale di resistenza controculturale, in questi tempi assurdi e grotteschi, in cui giornalisti e intellettuali/artisti imborghesiti intrattengono, con quattro supercazzole di suprematismo bianco europeo, migliaia di persone scese in piazza per legittimare ingenuamente (?) i diktat degli organismi imperialisti europeisti votati al riarmo bellico per far ingrassare ulteriormente il trasversale partito-business degli affari e della guerra (e avallando, inconsapevolmente o meno, l’azione criminosa dei vari governi nazionali che, supinamente, hanno accettato di dirottare, verso le spese militari, centinaia di miliardi di euro magari sottratti al miglioramento dei servizi primari essenziali per le comunità come l’attuare un piano di messa in sicurezza e prevenzione dei disastri da calamità naturali, e la tutela dei diritti sociali: sostegno a sanità e istruzione pubbliche, innalzamento delle pensioni minime, lavoro e reddito minimo garantito, diritto alla casa ecc. ecc.) e la massa di indifferenti analfabeti funzionali al sistema pensa a scannarsi sulle decisioni calcistiche del VAR, sul festivàl di Sanscemo e l’Eurovision, su quale “vip” ha bestemmiato nei vari (ir)reality show e a guardare video demenziali sui social network. “Raìse” è un disco senza tempo, che necessita di tanti ascolti per essere assimilato e apprezzato in tutte le sue sfumature, che trascende la dimensione locale/regionale per toccare temi universali (un po’ come, dall’altra parte dello Stivale, sta facendo da anni anche Cesare Basile con l’adozione/riscoperta linguistica del dialetto siciliano non per fini ideologici indipendentisti, ma come uno strumento artistico di liberazione) parte lento ma poi strega e rapisce udito, mente e cuore con le sue atmosfere ancestrali e la sua forza espressiva primordiale, in cui sacro e profano si (con)fondono nella magia del blues che conferisce all’opera uno status di orgogliosa inattualità. E per favore,descrivendo la parabola del protagonista dell’album, non si usi lo strainflazionato termine “resilienza”, perché ha rotto il cazzo.